21. In trappola
E in fondo ad ognuno di quegli occhi abitavo io, ossia abitava un altro me, una delle immagini di me.
Italo Calvino, Le Cosmicomiche
Marah
Stringo al petto il mio diario in cerca di calore e conforto: in quel piccolo quaderno sono racchiusi tutti i miei pensieri dolorosi, ma anche i ricordi più dolci che mi infondono il coraggio di andare avanti.
Mi sono aggrappata alla mia fede, ma a volte, ho la sensazione di aver solo soffocato la mia sofferenza dietro i miei silenzi.
Vorrei avere vicino qualcuno che sapesse davvero ascoltarmi, così come aveva fatto Malak...
Ma lui ormai non fa più parte della mia vita, anzi, in realtà, non vi ha mai fatto parte.
In questo momento non ho nessuno che può capire il mio stato d'animo dopo ciò che ho scoperto ieri sera. Mi sono confrontata con Niklaus e ci siamo confidati entrambi i nostri sospetti, ma ciò di cui siamo a conoscenza è troppo poco per venirne a capo.
L'unico indizio è la foto della statuetta della dea Ishtar, quella che mi aveva dato proprio Lucas e che, ironia della sorte, tenevo conservata tra le pagine del mio diario. La usavo come segnapagina perché in qualche modo quel reperto babilonese mi faceva ripensare a quei giorni in cui chattare con uno sconosciuto di nome Hammurabi mi aveva fatta sentire così diversa.
Caccio dalla mia testa quei ricordi e mi concentro sulla foto, ma per quanto mi arrovelli il cervello, non ho la più pallida idea di cosa fare. Non posso certo mettermi in pericolo, entrando furtivamente nell'ufficio di Lana o di Lucas: mi è già bastato essere scoperta la prima volta.
Se solo riuscissi a mettere le mani su quella cartellina con la scritta Hammurabi, ma Niklaus dubita che il professor Walton sia coinvolto.
Non ho chiuso occhio per tutta la notte temendo che qualcuno ci avesse sentiti e oggi non sono riuscita a concentrarmi sul mio lavoro.
Ci mancavano pure le mille richieste di Lucas che per tutto il giorno sembrava avercela con il mondo intero. Nel tardo pomeriggio ha mandato tutti via prima del solito perché non sopportava di avere nessuno tra i piedi.
Forse è successo qualcosa.
Mi preparo per uscire anch'io, ma quando vado nel suo studio per salutarlo, lui mi ferma.
«Marah, aspetta! Sai se Niklaus sta lavorando in deposito?»
Il tono di Lucas questa volta è diverso. Quando parla con me, si mostra sempre fin troppo gentile. Mi conforta sapere che non sono io la causa del suo malumore e che non abbia più cercato di mettermi in imbarazzo con altre avance.
«Penso di sì» gli rispondo.
«Bene, per favore, prima di andare via, potresti riportargli questi schedari? Sono urgenti.»
Una richiesta piuttosto strana la sua, che non mi ha mai fatto prima d'ora, ma per quanto un piccolo tarlo s'insinui nella mia mente, decido di fare quel che mi chiede.
«Non c'è problema!» gli rispondo nascondendo la mia perplessità.
«Grazie» mi dice guardandomi come se fossi una manna mandata dal cielo.
«Ecco le chiavi. Puoi riportarmele anche domani mattina» finisce tornando con fin troppa fretta a perdersi tra le carte sparpagliate sulla sua scrivania.
Afferro le chiavi e mi dirigo verso i depositi del museo.
Cerco Niklaus, ma i locali sono vuoti e bui. Deve essere già andato via anche lui.
L'adrenalina fa da carburante per percorrere passo dopo passo l'intero corridoio che porta nella sala centrale. Dopo quello che è successo ieri, non mi sento affatto tranquilla a girare da sola in quel luogo isolato.
Ripongo gli schedari su un ripiano dove Niklaus possa trovarli domani mattina e poi ripercorro il tragitto al contrario verso l'uscita.
Svolto l'angolo guardandomi prima alle spalle e poi di fronte, ma all'improvviso qualcuno mi sbarra la strada. Sono talmente presa alla sprovvista che l'urlo che sto per lanciare mi rimane in gola non appena riconosco chi ho davanti.
È proprio lui, non ho alcun dubbio: lo stesso uomo che avevo già incontrato nello studio di Lana qualche tempo fa.
Cosa ci fa qui? Mi seguiva?
Sto per chiederglielo mossa da non so quale moto di audacia del tutto ignara della potenziale minaccia che ho di fronte, ma poi ho come un'illuminazione: che fosse stato lui a sentire me e Niklaus mente parlavamo dei nostri sospetti? O Lana?
Ma certo, deve essere qui per spaventarmi!
Faccio per aprire la bocca, ma l'uomo si poggia le dita sulle labbra per ordinarmi di fare silenzio.
Che significa? Perché mai mi sta chiedendo questo?
Poi mi si avvicina bloccandomi il passaggio tra uno scaffale e la parete. Mi sovrasta con tutta la sua altezza e senza rendermi conto di ciò che faccio, sollevo la testa per guardarlo nei suoi occhi furenti.
Se potesse, mi mangerebbe in un sol boccone come il lupo nella favola di Cappuccetto Rosso.
«Di nuovo tu!» sibila tra i denti come se stesse sgridando un bambino che è stato appena scoperto a compiere l'ennesima marachella.
«Torna di sopra e non ti muovere, per nessuna ragione!» mi intima con un tono che non ammette repliche.
Parla sottovoce, ma non per questo appare meno minaccioso.
Apro la bocca, ma poi non oso fiatare e strisciando lungo il muro, l'oltrepasso e faccio ciò che mi dice.
Non capisco che sta succedendo, ma seguo l'istinto, quella sensazione che si è insinuata sottopelle e che anche la prima volta che ho visto quest'uomo, mi ha indotta a non avere paura di lui: qualcosa mi dice che devo allontanarmi il più presto possibile e magari chiedere aiuto al professor Walton o chiamare la sicurezza... tutto fuorché rimanere lì.
Corro via, lasciandomi quell'uomo dietro di me, senza voltarmi neanche una volta.
Sono quasi arrivata alla fine del lungo corridoio che sento risuonare dei passi pesanti lungo le scale.
Mi blocco non sapendo che fare. Non ho vie di fuga e posso solo sperare di non incontrare qualcuno di ostile.
La porta che si affaccia sul corridoio viene spalancata con forza e due uomini armati e con un passamontagna quasi mi travolgono.
Troppo tardi! Mai una volta che qualcosa vada per il verso giusto!
Sto per urlare quando uno di loro mi tappa la bocca con la sua grossa mano e m'immobilizza passandomi un braccio intorno alle spalle.
Un secondo uomo, magro e vestito di nero, si piazza davanti puntandomi una mitraglietta.
Li sento parlare in arabo e poi vengo trascinata in avanti fino a raggiungere una stanza dove c'è un tavolo con delle sedie.
La paura mi attanaglia fin dentro le viscere al punto che non riesco nemmeno a tentare di scalciare o liberarmi.
Mi scaraventano su una sedia e mi impongono di non muovermi.
E chi si muove? Le mie gambe non mi reggerebbero nemmeno per fare mezzo passo per quanto sono terrorizzata.
Sto rivivendo lo stesso incubo di quella sera in cui ci furono gli attentati a New York. La mia paura che quella terribile notte potesse ripetersi ancora una volta purtroppo si sta avverando.
Uno degli uomini, all'improvviso si toglie il passamontagna e mi mostra il viso.
L'altro, quello magro, protesta, ma il primo si mette a ridacchiare come se gli fosse venuto in mente qualcosa di divertente.
«Mi è venuta un'idea!» sghignazza, mentre un brivido mi percorre la schiena.
«Sai dov'è finito Kam?» chiede l'uomo rivolto al suo compagno. «È già da un pezzo che deve aver disattivato il sistema di videosorveglianza.»
Giusto in quel momento la porta si apre finendo per sbattere contro il muro.
«Parli del diavolo...»
I miei occhi s'incrociano con quelli dell'uomo che è appena entrato e mi sento mancare.
Possibile? Non posso credere che colui che poco prima mi aveva intimato di tornare di sopra è complice di questi due criminali. Era nei corridoi perché stava manomettendo l'impianto d'allarme: come ho fatto a non capirlo subito?
Mi guarda dall'alto in basso come se volesse ridurmi in cenere.
Forse prima mi stava dando la possibilità di fuggire, ma non penso che gli altri due uomini siano della stessa idea.
«Che volete fare?» chiede con una voce fredda e priva di intonazione.
«Pensavo di usarla come ostaggio per uscire di qui dopo che abbiamo finito» gli risponde l'altro.
"Finito cosa?" mi chiedo, ormai domata dalla forza di quelle braccia che mi tengono ancora ancorata sulla sedia, nonostante mi abbiano anche legata.
«Vi ha visti in faccia...» si lamenta lo smilzo con il volto ancora coperto.
«Non importa» proferisce l'uomo che da quanto ho capito si chiama Kam, «perché oggi andrà in paradiso a prepararci una calda accoglienza per quando la raggiungeremo!»
Ora il suo atteggiamento è diverso. Così freddo e scaltro da lasciarmi perplessa: le sue parole mi sembrano quasi uno scherzo.
«Dammi la tua cintura» chiede poi all'uomo magro che prima esita, poi con lentezza afferra il bordo del passamontagna per sollevarlo e guardarmi con sfida.
Non credo ai miei occhi: è Ibrahim!
Rimango immobile, incerta se rivelare o meno di averlo riconosciuto, ma sono certa che sul mio viso passa tutto ciò che provo in quel momento: sgomento, sorpresa, rabbia...
Lo guardo con odio per ciò che ha fatto, per quello che è diventato, ma lui non si lascia scalfire dal mio sguardo. Si toglie la giacca e poi si libera di una specie di fascia che porge a Kam.
Quest'ultimo la prende con cautela e non capisco di che cosa si tratta fino a quando non me la fa indossare.
Oh, mio Dio! È una cintura esplosiva!
«Non ti muovere!» mi ordina mentre la incastra al mio petto in modo da non poterla più togliere.
A quel punto mi rendo conto che non è uno scherzo e comincio a tremare come non ho mai fatto in vita mia, ma non emetto un solo fiato.
Se devo morire, voglio morire a testa alta, senza mostrare paura o debolezza.
Chiudo gli occhi invocando silenziosamente una preghiera o rievocando ricordi felici pur di non pensare che ciò che mi sta per succedere sia reale.
Penso alla mia amica Leyla, ma non oso chiedere a Ibrahim se sia ancora viva. In realtà ancora non mi capacito che il fato abbia permesso ai miei passi di portarmi sulla stessa strada percorsa da suo fratello.
Forse era già scritto che doveva andare così.
Un forte odore di benzina arriva alle mie narici.
Spalanco gli occhi quando capisco che questi uomini vogliono far esplodere l'intero museo.
Mi guardo intorno, ma nella stanza siamo rimasti solo io e l'uomo che mi farà saltare in aria: Kam... Conoscere il suo nome mi fa uno strano effetto.
Sono immobile da chissà quanto tempo che ho quasi la sensazione che persino il sangue abbia smesso di scorrere nelle mie vene.
Stringo i pugni così forte ma non sento nulla nemmeno quanto le mie unghie si conficcano nella carne.
Le mani di Kam si muovono in fretta e quando è certo di aver bloccato la cintura intorno al mio corpo, mi guarda negli occhi e sono follemente fiera di me quando la sua espressione si fa interrogativa.
Pensava di trovare il terrore sulla mia faccia, invece sono orgogliosa di averlo sorpreso.
Poi, con un ultimo gesto, attiva qualcosa che s'illumina, un timer che scandisce il tempo.
Quanto manca prima che quella bomba esploda? Non voglio saperlo.
Le tenebre mi avvolgono e mi lascio scivolare senza oppormi in quell'oblio che mi porterà alla morte senza sentire nessun dolore. Non ho paura di morire, anzi per me sarà un sollievo che sarò felice di accogliere.
L'uomo estrae qualcosa dalle sue tasche e me la posiziona sulle gambe.
Non mi muovo e lascio il mio sguardo fisso davanti a me.
Lui però a quel punto rompe il silenzio e mi indica l'oggetto che ora si trova sul mio grembo.
«Leggi» mi sussurra abbassandosi alla mia altezza.
Io chino il capo e mi accorgo che quell'oggetto è il Corano.
«Hai capito cosa ho detto? Non farmelo ripetere...» mi scuote questa volta con un tono carico di rabbia con il quale vuole incutermi timore.
Sembra seccato dalla mia completa mancanza di reazione. Forse ce l'ha con me perché avrebbe fatto volentieri a meno di questo diversivo.
Lo affronto guardandolo in faccia e lì capisco di aver fatto uno sbaglio: la sua mascella è serrata, ma i suoi occhi sono così suggestivi e magnetici che in qualche modo m'infondono forza e sicurezza. Quella forza che sprigiona tutta la sua persona e che mi fa perdere il discernimento. Può mai sembrarti così bello il tuo carnefice?
«Leggi» mi ripete ancora, ma ora lo fa con un tono diverso, come se, con i nostri sguardi, tra noi si fosse creata una connessione.
Annuisco quasi in modo impercettibile e quando riesco a mettere a fuoco, comincio a leggere:
Noi siamo vostri alleati in questa vita e nell'altra, e in quella avrete ciò che le anime vostre desidereranno e quel che chiederanno.
«Leggi il versetto precedente» continua senza staccare gli occhi dai miei.
Gli angeli scendono su coloro che dicono: «Il nostro Signore è Allah», e che perseverano sulla retta via. Dicono loro: «Non abbiate paura e non affliggetevi; gioite per il Giardino che vi è stato promesso»
La mia voce ora è stranamente calma.
Sollevo il viso non temendo di fondere ancora una volta i miei occhi con i suoi. Se quest'uomo crede in Dio, non può essere tanto malvagio come vuol far credere. Penetro il suo sguardo alla ricerca di un riflesso della sua anima: le sue iridi scure si adombrano ancora di più, come a voler celare i suoi cupi pensieri.
Anche lui scava in fondo ai miei occhi con intensità ed è una sensazione strana quella che provo, come se ci fossimo riconosciuti ognuno negli occhi dell'altro, come se le nostre anime si fossero ritrovate dopo aver vagato in un'altra dimensione senza spazio e senza tempo; un'emozione che mi toglie il respiro come un pugno nello stomaco per quanto sia sbagliata e contro ogni razionalità.
È proprio vero: l'oscurità e il mistero che in essa si nasconde sono una forza che ci spaventa e ci attrae nello stesso tempo.
Il suo alito caldo mi solletica la guancia facendomi rabbrividire. Lo guardo, mentre annaspo schiudendo le labbra in cerca d'aria.
«Continua a pregare» mi chiede rubandomi il respiro.
La sua voce è tornata a essere un sussurro rauco che s'infrange sulle mie labbra, che sono così vicine alle sue che per poco non si sfiorano.
Quelle parole spengono per un attimo la mia mente facendomi tornare indietro nel tempo... al mio angelo... al mio Malak...
Lui mi salverà?
Forse ho parlato ad alta voce, perché lui adesso sorride beffardo.
«Non sono un angelo: io sono il Diavolo!»
Colonna sonora di questo capitolo: "Sand me an angel" degli Scorpions.
https://youtu.be/RF6YjviCVCU
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