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41. Harry è qui

Sally

È la voce preoccupata di mia madre a darmi il bentornata a casa quando scendo lentamente dalla macchina, con il miglior sorriso di finzione che riesco a formare sul mio viso irrigidito dal pianto.

«Amore... che ti succede?»

Mia madre e il suo impeccabile radar materno. Ha sempre capito tutto quello che mi passava per la testa, intuendo se i miei malumori fossero solo frutto di "cambiamenti mensili" o se si trattava di qualcosa di più serio. Non sono mai stata un tipo loquace, e nemmeno lei in realtà, eppure era sempre riuscita a capirmi; con il tempo avevamo formato un particolare tipo di rapporto che mi ha sempre permesso di contare su di lei al cento per cento. Sapevo che lei ci sarebbe sempre stata per me, anche se in silenzio, anche solo per donarmi una carezza; era lei che mi era stata più accanto, alternandosi con Ian quando gli attacchi di panico si erano fatti più frequenti e pesanti qualche anno fa.

Qualche istante prima ero scesa dalla macchina cercando di mostrarmi al meglio, non voglio farla preoccupare inutilmente, ma il mio meglio fa evidentemente schifo abbastanza da farle notare che c'è qualcosa che non va. Papà non c'è, deve essere fuori per lavoro: preferisco di gran lunga così, visto che sarà già abbastanza difficile evitare mia madre per rinchiudermi in camera mia e non uscirne fino al secolo prossimo.

«Sto bene, mamma... sono solo stanca», provo a mentirle.

Giro la testa per afferrare la mia valigia dal sedile posteriore e nascondermi dal suo radar, ma ormai è troppo tardi.

«Oh, no... tesoro, hai di nuovo quella faccia», commenta raggiungendomi.

Ian fa il giro della macchina e mi prende la valigia dalle mani.

«Non ho nessuna faccia, mamma», provo ancora con la sceneggiata, «sto bene.»

«Che cosa è successo?» Mamma, insoddisfatta delle mie risposte, decide di rivolgersi a Ian.

Quando fanno così lei e mio fratello, che confabulano tra loro come se io non ci fossi e non potessi dire la mia, mi irrita e non poco.

«L'hanno licenziata e ora non si sente molto bene... forse ha la febbre o quelle... quelle cose lì di voi donne», spiega un po' imbarazzato, le guance che gli si chiazzano di rosa. Se mia madre riesce a indovinare perfino le mie bugie - e mi sono sempre considerata abbastanza brava a raccontarle -, con Ian vince già in partenza: mio fratello è la tipica persona a cui puoi leggere l'intera vita in una singola espressione del viso. È completamente trasparente.

Mia madre finge solo di credergli e, con un cenno, ci invita a entrare in casa; percorro la scalinata che porta all'entrata, attraverso il salone principale della villa, con Ian al mio fianco e mia madre dall'altro; in silenzio mi accompagnano verso la mia camera al piano di sopra, e sono grata della capacità rispettosa di mia madre di non fare domande, di non chiedere quando sa che non saprei cosa risponderle. Ormai è abituata.

Rientrare nella mia camera dell'infanzia, nonostante i brutti ricordi racchiusi entro queste quattro pareti, mi fa sentire più calma, più al sicuro, e so che qui posso riposare qualche giorno per potermi rimettere in sesto, ritornare la Sally che devo essere e ricominciare una nuova vita.

Mia madre si fa davanti a Ian e, delicatamente, lo lascia fuori dalla mia camera, chiudendo la porta alle sue spalle dopo aver preso la mia valigia e avermi lasciato il tempo di ringraziarlo per quanto ha fatto per me.

Anche se mia madre non dice nulla, so che mi sta scrutando molto attentamente. Mi accompagna al letto, mi fa sedere come se credesse sul serio al mio malessere fisico e insiste per fermarsi con me.

«Davvero, non ho bisogno di niente, mamma... credo solo che mi stia venendo la febbre, tutto qui», provo a dirle.

È sempre strano ritornare nella propria casa dopo qualche tempo, nei luoghi cari del proprio passato, lontano o recente che sia, e percepire quell'ondata di familiarità che ti coglie nonostante il tempo trascorso e ti dà il benvenuto, come se in fondo non te ne fossi mai andato via. E lo stesso benvenuto lo forniscono anche certi gesti dei tuoi genitori, quelli che continueranno a perpetrare nonostante gli anni passati, che non fanno altro che farti ritornare a forza indietro; così come fa mia madre, che si avvicina passandomi una mano sulla fronte per tastare la mia bugia.

«Non hai nessuna febbre», osserva sedendosi sul letto accanto a me. «Hai passato un brutto periodo? Me ne vuoi parlare?»

I suoi tremendi e scrutatori occhi azzurri si avvicinando pericolosamente ai miei, quel colore che avrei tanto voluto ereditare anche io come Ian, quando invece la ciambella senza buco è uscita pure con una tonalità di verde erba seccata al sole. Ho preso tutto da lei: i capelli biondi, la forma del viso morbida e leggermente arrotondata, le labbra carnose, il disegno del naso, a parte gli occhi e quella maledetta altezza che è sempre stato il mio cruccio: quella stupida altezza che ha deciso di giocare alla roulette russa con le generazioni, finendo per colpire proprio me dopo aver condannato mia nonna a una vita sotto il metro e sessanta.

Ma quegli occhi azzurri che mi ricordano tremendamente Ian sono ancora puntati su di me, con attenzione e circospezione, come fossi una granata pronta per esplodere da un momento all'altro: radar-mamma-acuto attivato, meglio ritirarsi al più presto sulla difensiva.

«Vorrei riposare, mamma. Solo questo... domani starò meglio e mi metterò a cercare un lavoro qui», le dico.

Non risponde, così apro soltanto un occhio per capire le sue intenzioni, e l'azzurro cielo è ancora lì, pronto a trovare un varco nella mia muraglia difensiva. Prova a sorridermi con affetto, ma non posso fare a meno di notare il suo disappunto, la sua delusione nel vedermi tornata a un passo dal mio periodo più nero. La depressione, gli attacchi di panico, le settimane passate lontana da scuola perché non riuscivo a mettere piede in classe... sono un'inetta del mondo, lo so. Lo sono sempre stata. Mi butto giù; anzi, mi autodistruggo di proposito: lo psicologo me lo faceva notare di continuo durante le nostre lunghe sedute, ma sapere e riuscire a praticare sono due cose differenti. E questo lo so fin troppo bene.

Potrei anche chiedermi: ma che cosa sto facendo qui, a piangermi addosso, a chiudermi inesorabilmente in me stessa, a imboccare la via dell'autodistruzione, quando potrei tranquillamente avere quello che voglio? Quando potrei avere Harry? Sarebbe così semplice, facile...

Ma la mia mente non sembra intenzionata a permettermelo. Il dolore lo conosco, ha fatto parte di me per anni, ed è più facile adagiarmi in esso più che percorrere nuove strade sconosciute.

Prima di Harry e dopo aver superato il mio periodo peggiore, tutto sembrava un po' più sopportabile, più chiaro e semplice: quando cerchi poco dalla vita, quando vivi a corto di emozioni da dare e da provare, allora vivere non ti sembra così difficile quando trovi un tuo personale equilibrio. Ma quando assapori la serenità, e perché no, anche la felicità, quando conosci qualcuno che potrebbe completarti alla perfezione, allora lasciarlo per la sua strada per non precludergli nulla che non sia la sua vita felice, allora sì che la questione si fa difficile, amara, al limite della sopportazione.

Nonostante le mie bugie, mia madre non sembra intenzionata a lasciarmi sola; mi passa una mano sulla spalla frizionando appena e lì la lascia, restandomi accanto ma senza pronunciare parole. E a me va bene così. Prende ad accarezzarmi i capelli e io resto a bearmi di quel tocco materno, escludendo ogni altra cosa, ogni altro pensiero, fingendo per qualche minuto di essere tornata piccola, nei pomeriggi invernali quando mi coglieva l'influenza e lei mi stava accanto per assicurarsi che la febbre non salisse troppo.

Con la sua vicinanza mi sento meglio, abbastanza calma per potergli scrivere un messaggio; è da qualche giorno che non lo chiamo, e ora credo proprio di aver bisogno di lui. Non so come spiegarlo a mia madre, a Ian, ma credo alla fine di dover mostrare loro una parte di quello che ho sempre tenuto dentro. Sono sicura che capirebbero e mi chiedo perché ho voluto nasconderglielo per così tanto tempo. Ma io lo so, è per vergogna profonda.

Sfilo il telefono dalla tasca dei pantaloni e lo accendo con cautela, concentrandomi soltanto su quel messaggio, sul nome di Theodore, senza badare a tutte le chiamate deviate alle segreteria che sono arrivate dal numero di Harry.

Ho bisogno di parlarti... sono a casa... casa mia. Mamma è qui, puoi venire, a questo punto non mi importa se sanno di te e di me; forse non posso ancora raccontare ogni cosa, ma è un inizio, no?

C'è sempre un primo scalino, lo hai sempre detto tu, e questo è il mio primo.

Ti aspetto.

Io e mia madre restiamo per qualche tempo sul letto, lei che si è infine infilata sotto le mie coperte, mi ha abbracciata e mi ha tenuta stretta al suo cuore.

Non so quanto tempo sia passato quando sento dei rumori al piano di sotto: pneumatici che percorrono il vialetto, portiere sbattute, la voce di Ian che si alza di parecchio contro qualcuno che all'inizio non riesco a identificare. Mi chiedo come abbia fatto Theodore ad arrivare così in fretta.

Mia madre si siede, preoccupata e in all'erta; volta la testa di scatto verso la porta quando entrambe sentiamo dei passi pesanti salire le scale con velocità. Non ho il tempo di chiedermi e ipotizzare chi possa essere, perché la voce calda e profonda nel pronunciare il mio nome con foga me lo fa riconoscere immediatamente.

Harry è qui.

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Spazio Dory:

Spero tanto che il capitolo non vi abbia annoiato... non ne sono molto soddisfatta a dire il vero.

A chi avrà scritto il messaggio Sally?

Aspetto come sempre i vostri pareri  e non dimenticate di votare! ;-)

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