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"Tu non sei un ragazzino, tu sei un vecchio, sei antico, uno di un'altra generazione. Ti nomino mio antico cavaliere."
Il telefono squilla dal ripiano della scrivania e distolgo l'attenzione dal mio romanzo, muovendomi pigramente per appoggiare le piante dei piedi a terra rispetto al morbido letto ed afferrare l'affare vibrante.
C'è della leggera neve ai bordi della finestra di camera mia, il freddo si è accentuato in questi ultimi giorni e promette di continuare durante queste vacanze natalizie appena iniziate.
La casa è avvolta da un caldo confortante, sebbene l'umidità possa tranquillamente sentirsi, e i miei abiti di lana mi tengono ben distaccata dalle temperature basse che, invece, Jacopo sembra amare.
Cammino per inerzia e mi siedo sulla scrivania, rispondendo senza notare chi mi chiama. Tono pacato, con molta probabilità apparirà assonnato ed indifferente, e mani che cercano di tenere i capelli in una coda fatta male. -Pronto?-
-Sono Filippo.- solita scarsità di affermazione e la voglia di chiedere il permesso anche per rivolgere le parole di cortesia.
-Ciao anche a te.- sbuffo, premendo sullo schermo il tasto del viva voce e tentando di sistemare alla meglio le indisciplinate ciocche nere da poco lavate e profumanti di vaniglia, mentre sento dall'altro capo lui che zittisce qualcun'altro.
-Era sottinteso.-
-Sto per attaccare.- avverto, mordendo leggermente la lingua coi denti mentre il maglioncino rosa viene tirato su dalla contrazione provocata dai miei movimenti di considerevole frenesia.
-Già dovresti sentirti onorata che ti sto parlando.-
-Ti serve greco.-
-Guarda che ho preso nove al compito, io-
-Dimenticavo. Tanto prendi sempre nove.- lo scimmiotto divertita, guardandomi allo specchio per aggiustare con le forcine le imperfezioni troppo evidenti della pettinatura improvvisata. Mi sporgo in smorfie annoiate nel momento in cui cerca di interpretare un uomo delicato e di sublime educazione che tenta di chiedere con gentilezza quello di cui ha bisogno.
È tipico di Filippo, far questo. Se non ti sta contraddicendo o si rigenera dilettandosi nel ridere per qualsiasi cosa gli passi per la testa oppure disegnando ciò che ha sognato la notte prima, prova a spiegarti la situazione con paroloni e si immedesima in un personaggio di cui magari ha letto. Starà anche toccandosi il ciuffo corvino che recentemente ha tagliato e reso più corto. Adesso che ha alzato con divagare premeditato il suo tono sempre cauto, si sarà mosso dalla sua prima posizione per gesticolare, portandosi anche indietro gli occhiali lungo il naso.
-Quindi è Natale fra due giorni,- è l'unica parte del suo monologo di cui assorbo quale traccia. Intanto rido di come mi rifletto nello specchio un po' sporco di camera mia. Raggiungo l'apice del divertimento quando fingo di essere una fotomodella perché di parlare a telefono non mi va e ridacchio con eccessiva voce e -Sì, lo so che non ti interessa il discorso. Ma è importante.- ora potrebbe essersi alzato e, (ne sono certa) chiudendo una mano intorno ad una delle gomme a portata di presa, gioca con ciò che sa mi infastidirà affinché io gli rivolga l'attenzione che vuole.
-Hai incontrato il figlio della professoressa di italiano al supermercato anche oggi?- gli pongo il quesito con palese presa in giro e lui sbuffa, stringendo con probabilità i denti nel labbro (me lo immagino esattamente così, in questo momento) e continuando nel perpetuo gioco con l'adorata gomma.
-Guarda che è vero. Stavo al supermercato ed è arrivato questo ragazzo. Io ho detto: "Ma tu sei il figlio della professoressa di italiano?" e lui: "Sì! E tu sei Filippo?". Sei tu che non mi credi.- impone, convinto che qualcuno gli creda. Magari è, nell'esatto attimo, vinto dalla gestualità e proverebbe, se mi avesse di fronte, a convincermi con una delle sue intime occhiate per incuterti confusione.
-Hm, ti ha detto che la professoressa si è rotta una gamba?-
-No, quello è il figlio della prof di arte in profumeria.- accenna ad un risolino che nasconde con neutralità. -Mamma, ci sto parlando ora.-
-Dai, cosa ti serve.- dico secca, aprendo qualcuno dei miei cassetti e ascoltandolo divagare sull'importanza della pace nel mondo e dello sciopero dei pullman, mentre cerca di incastrare fra loro i vari tentativi di temporeggiare fino a che, tutto saldo e per nulla scomposto, -Vieni al centro commerciale con me? Non so cosa regalare ad Andrea.-
-Mi dimentico che adesso siete amici.-
-Che parola grande amici. Poi sembra che io la disprezzi di più quando sei tu a pronunciarla. È come se la affrettassi alla fine, Celeste. Perdi quattro punti sulla scala della considerazione che ho di te.-
-Ci porti tua sorella al centro commerciale, ti avverto.- trattengo una risata esilarata e lui sospira, riconducendo la colpa alla globalizzazione e al figlio del professore di filosofia che ha incontrato in panetteria.
-Tu non vai in panetteria.-
-Okay, ma non importa. Mi accompagni o no?- vago con la testa fra i regali che ho già comprato e realizzo di non aver ancora scelto un pensiero a Claudia ed uno a Jacopo, perché indecisa su ciò che ho trovato girando su Amazon. Annuisco, emettendo un lieve sì al microfono e aspettando che riporti alla madre la mia risposta e chieda un orario entro il quale passarmi a prendere.
-Mezz'ora va bene?-
-Certo, ti aspetto al portone.-
-Scrivimi l'indirizzo.- afferma soltanto ed attacca subito dopo, lasciandomi però ascoltarlo mentre urla alla madre che ha qualcuno con cui passare il tempo oltre i suoi amici.
Infilo velocemente il caricatore nella presa di corrente e vi aggancio il cellulare, sperando si carichi abbastanza per il tempo che passerò al centro commerciale. Accosto la sedia alla scrivania e metto al loro posto diverse cianfrusaglie sparpagliate altrimenti sul ripiano di legno, prima di aggiustare le coperte del letto e sistemare in libreria il romanzo di Pennac che ho quasi terminato.
Apro l'armadio, liberando un respiro di fretta e frenesia, piuttosto ricco di voglia di passare il mio tempo al di fuori di queste quattro mura. Afferro rapidamente dei jeans e un maglioncino grigio che scende sulle spalle con eleganza. Dono un'ultima occhiata alla camera d'apparenza ordinata e mi muovo verso il bagno canticchiando le parole delle prime canzoni che mi passano per la testa.
Gioco con quello che mi appare della mia figura se osservata con silenziosa nostalgia dei tratti spensierati di una bambina, nonostante la mancanza di realtà cruda con la quale affaccendarsi per davvero. Vi trovo un sorriso accattivante, un visino delicato (eccessivamente piccolo, a mio parere) e degli occhioni che paiono supplicare per tranquillità anche mentre mi dondolo nell'allegorica felicità che attualmente risiede nella mia esistenza. Ho lo sguardo io, e ne provo vergogna, che implora aiuto e minaccia di cedere da un attimo ad un altro.
Le pieghe che assume il mio volto sono disilluse, raccosciano un intero meccanismo di chiusura minimale ed effimera, da farsi, e ciò mi disintegra. Il corpo grasso, adesso magro, troppo formoso, ora piatto, il non piacersi è puramente spirituale per un adolescente. La frivolezza che trapela dalla storiella della bella Elena amata soltanto per i suoi lineamenti è devota alle contorte menti di chi balla fra un'etichetta ed un'altra. Il ragazzo è la figura maggiormente stereotipata di un mondo che caratterizza a priori e, sebbene questo già ci sia, il suddetto pretende di arrogarsi l'intima espressione della novità, di un non apprezzato differenziale cambiamento. È che siamo tutti simili e cerchiamo tutti qualcosa che ci dia gloria.
Sciolgo i capelli, io, mentre i pensieri divorano l'essenzialità del mio ragionamento e il senso di inadeguatezza si sistemi indisturbato nella mia pancia.
-Achille e il suo oro, Ercole e le sue colonne, Platone e i suoi cavalli, Ettore e la sua Troia, Socrate e la sua ironia. Vi pare di starvene impassibili in un universo di grandi e tanti eroi. Questi eroi vengono fuori dalla testa di un uomo, e di un altro e un altro ancora!, non c'è nessuna eroicità nell'essere di già destinati.- ce lo urla spesso ultimamente il professore di filosofia, innervosito dalla negligenza scolastica che sta ottenendo dai suoi studenti. È che si fida, e fidarsi di un ragazzo che pensa di aver già capito tutto è affidarsi alle iene. Anzi, supporre di aver già perfettamente inteso ogni cosa è cadere tra le iene, pronte a divorare la sinfonia delle tue supposizioni. -Oh, Platone!, vedo il cavallo e non la cavallinità. È ciò che mi passa in testa tutte le volte che metto piede in questa classe e mi tocca fingere di non accorgermi dei vostri cellulari o dell'alterigia con la quale disintegrate l'opportunità di progredire.-
-È che gli adolescenti passano la vita ad immaginarsi l'età che li attende, non posso pretendere altro.- ammise, un giorno, e mi domando perché mi tocca ripensarci davanti ad uno specchio lavandomi i denti. -E non dico la vita fino ai diciassette. Sarebbe troppo banale; un ragazzo non cresce mai. Dice bene, Baricco, che i sedici sono l'unica età che immaginiamo. Prima e dopo, non cresciamo mai davvero, mi dispiace di dovervelo anticipare con tanta noncuranza.-
Aggiusto il maglioncino dopo averlo indossato e vago, costantemente, con l'attenzione nelle superflue divagazioni di un uomo sulla sessantina che gioca ancora a calcetto con i nipoti. È che se, le parole, te le incide sulla pelle qualcun'altro, potresti anche pensare di non badarvi, ma ti bruceranno finché non permetterai loro di scalfirti l'orgoglio e la presunzione di possedere una risposta a prescindere. È che le parole hanno un significato, siamo noi ad evitarlo con ignoranza. Le parole, noi, le usiamo come piume, libellule; le gettiamo ovunque ce ne capiti occasione e non consideriamo il loro poter interpretare alla perfezione il ruolo di una lastra d'acciaio radente lungo la tua dignità. Le sfreghiamo e le urliamo, le parole. Le lanciamo disinvolti, le detestiamo, le sussurriamo, le promettiamo e, talvolta, le travisiamo. Non siamo esperti di valori, noi uomini, ed ancora è da accertare l'immensità di oro che si può scorgere all'interno di una sola frase; e quindi le catapultiamo, le stimoliamo, le innervosiamo, le parole, senza renderci consapevoli del sentimento che ciascuna di esse porta in ogni singola lettera.
È che siamo superficiali, noi uomini, senza rincrescimento o lamento: siamo meravigliosamente superficiali ed è ciò che meglio adempiamo.
Lavo i denti con velocità, esco dal piccolo bagno ed ancora ho dell'acqua che scorre dalle labbra al collo, ma non me ne preoccupo. Allaccio le scarpe e controllo che la casa sia, per lo meno, presentabile, ponendo i piatti sporchi in lavastoviglie e raccogliendo i rimasugli delle mie giornate con Jacopo.
Intanto, mentre tiro giù le varie tapparelle, il telefono prende a squillare e so che è Filippo ancora prima di sbirciare allo schermo.
Chiudo i vari cassetti aperti ed afferro rapidamente il telefono, scrivendogli che sono per le scale. Tanto lo sa che mi manca di chiudere la porta e che ha da aspettare; è sempre il Tempo a sfasarci in un inganno ben organizzato, privo di sforzi.
Muoviti a chiudere la porta, infatti digita ed invia probabilmente con un soddisfatto sorrisetto tipico della sua smorfia, vantandosi di aver capito.
Rido, io, indossando il giubbotto di piuma d'oca, e corro lungo le scale, non appena chiusa la porta, scivolando alla ringhiera ed assicurandomi di far abbastanza baccano.
Do un'occhiata fugace dietro di me e scivolo fuori dal portone, ritrovandomi accolta da un freddo e pacato vento invernale, dalle sottigliezze taglienti che penetrano i lembi di pelle di improvviso. Le case sono più spente, di inverno, perché l'energia della vita si accresce progressivamente e l'accortezza verso ciò che si ha attorno cala e, come una vecchia amica, viene a mancare salutandoti con la mano. Per dirti Mi avevi, ti sei stancato, io ti aspetto a primavera.
La sinergia di attenzioni che accoglie questo postaccio di estate consente di guardare alle beatitudine che un luogo del genere possiede, perché meno abitato e realmente più tenuto.
Affondo il collo nel calore dei miei indumenti e cerco con lo sguardo l'auto della madre di Filippo, signora incantevole, ed un ragazzo all'interno completamente catturato dal gioco sul suo cellulare.
Trovo entrambi, macchina e ragazzo, e cammino disattenta fino a raggiungerli, entrando con una richiesta di cortesia accettata dalla donna dalle mosse educate al volante.
I sedili profumanti di cannella mi incastrano, il ritmo quieto di una familiarità diversa mi investe risultando persino confortante, e il sorriso candido della donna mi saluta con spettrale gentilezza.
-Buonasera,- incomincio, io, dalla mia solita scarsità di argomentazioni, il mio arrancare davanti all'introversione che nuoce al mio carattere, l'insolenza di non badarci e il volto di una bambina impacciata. Ma lei sembra rifletterci, un po' vorrebbe chiedere al figlio che razza di persona ha per amica, ma immagina che il ragazzo non le direbbe altro che non sono sua amica.
Annuisce, quindi, mettendo in moto e stringendo il volante. Gli occhiali da sole posti sul naso le donano l'aria di una a cui la prassi è imposta, ma che se potesse, l'abbandonerebbe al primo vico. I nei che le valorizzano il viso la fanno una madre piena di impegni (o meglio, questa è l'impressione di una ragazzina) e la camicetta abbinata al cardigan mostra il suo buon gusto. La posa è poco eretta, piega infatti le spalle come per abbracciare e la voce non è altro che tipica di una donna curiosa. Sorride senza fraintendimenti o interruzioni, poi, pervasa dalla puntigliosità che noleggia il climax cedevole trasudante in auto.
-A che ora pensate di finire, Filippo?- la guardo appena, con la fronte al finestrino e il telefono che viene strutto dalle mani nello scabro silenzio che agguanta l'atmosfera. Svincolo la sua occhiata attraverso lo specchietto e fingo di essere intenta a smanettare col cellulare.
-Non tardissimo,- le afferma il figlio, tornandosene con le cuffie alle orecchie e le dita ad aggiustare gli occhiali dalla montatura nera, e corruccia la fronte disornato di voglia, come annoiato.
Donna sulla quarantina, dai modi raffinati e le toms al piede, corrompe le buone maniere e si domanda cos'è che deve fare dopo. È assai buffa, mi trovo ad ammirarla di sottecchi mentre muove le labbra per dedicarsi ad un'accesa conversazione con se stessa, la quale viene appena interrotta nel momento in cui deve augurarci (sempre per prassi) una buona giornata.
-Pensa che è la stessa donna che, da piccolo, mi minacciava di morte se avessi fumato.- si lamenta, Filippo, stringendo fra i palmi larghi e le dita lunghe nonché sottili il telefono. A volte sembra che non gli stia in mano, ma -Ho vinto una borsa di studio. Non potevo non comprarlo, capisci? Non potevo,-
-Direi che ha funzionato, ad ogni modo.-
-Fumare è da stupidi.- potrebbe dirlo diversamente, ma sono consapevole che abbia dalla sua parte la misera e spigolosa ragione, senza altro da concepire. -Voglio dire: se ho dei soldi, li spendo diversamente. Non voglio tornarmene a casa e vantarmi di aver speso tanto dietro non so quale liquore. "Ho bevuto da pazzi ieri sera!"- gesticola anche, assorto nel suo discorso ed impiega poco a raggiungermi sul marciapiede che conduce al modesto centro commerciale fuori città. I magazzini già intristiscono i passanti col grigiastro spento che li colora, le varie insegne sono sporche e rovinate, il parcheggio non dei più ordinati. Le nuvole scure del pomeriggio non favoriscono l'ambiente esterno che accoglie i vari personaggi che si riducono a comprare due giorni prima di Natale.
-Ognuno fa le sue scelte.-
-Assolutamente d'accordo, non dico di no.- allunga le braccia in avanti, la camicia a quadri che indossa si stroppia leggermente ed aggiusta gli occhiali, prima di -Ma non puoi negare che se fai una cosa dovresti avere la posizione. Roberto ha la posizione del sad boy, Piera ha quella della fumatrice, Andrea è il menefreghista e tu, anche se non ho idea si possa o meno definire una posizione, sei l'indecisa.- spiega, storcendo il naso e prendendo piccole pause di tanto in tanto soltanto per assicurarsi di avere una scaletta da visualizzare con lo sguardo puntato al cemento, -E se io ho una posizione, allora certo che posso fare quello che mi pare. Ma se lo faccio perché è di moda o è dovere, qui non condivido più. Sei idiota e basta.- schiocca le dita, rimuginando sul senso che potrebbe aleggiare in ciò che ha pocanzi affermato.
Compro un po' di silenzio, un frivolo brandello in confronto alla lunghezza e alla caparbietà di un'intera esistenza intrinseca di miliardi di questi brandelli. Le mie mani abbandonano la bellezza ed abbordano la tenace sicurezza del percuotere qualcosa se si è confusi. Così, gioco con voracità con la cover del cellulare e continuo a camminare anche oltre le porte di ingresso, senza sperdermi nei dettagli delle decorazioni natalizie.
Un grande albero ornato di luci e letterine si erge al centro del circolare padiglione, dalla sua cima si liberano colori che esplodono nell'allegria dei compratori. I negozi si prostrano vinti dall'armonia: i loro commessi lavorano con un cappello da elfo a decorare la situazione. La capanna con il vecchio travestito di rosso è stata allestita accanto alla seconda entrata e i bambini promettono una fila lunga.
-Che schifo il Natale.- chiude maggiormente il palmo intorno all'affare e si guarda attorno tra i vari e grandi corridoi che compongono questo posto echeggiante.
-Me l'ero dimenticato, che sei il Grinch.- alzo in aria gli occhi, facendogli la linguaccia e lui, immediatamente, risponde con uno sguardo indifferente, piuttosto apatico, per informarmi dei punti che vado perdendo dalla sua scala della considerazione.
-Tutti felici, tutti appisolati nella sensazione di una famiglia riunita e divertita. Ma la realizzazione di questi principi dov'è? Sveglia, c'è altro oltre una festività per condividere.-
-Giusta osservazione.- rimbecco, abbastanza smussata dal sentimento di inferiorità intellettuale che mi pizzica quando Filippo cerca di esprimere un suo concetto. Non mi spiego il motivo della sua scelta di non accerchiarsi di tante persone, compresa una fidanzata, ma la capacità cognitiva di questo ragazzo mi sbalordisce.
-Non ti senti mai solo?- borbotto, di getto, piena dei pensieri che torturano una mente di suo distratta. I suoi occhi scuri d'immediato slittano al mio viso annichilito, i miei lineamenti gentili accolgono la sua espressione costantemente indurita. Stiamo entrando in una libreria, adesso, privi di una reale meta.
Non mi risponde, continuiamo a muoverci fino a raggiungere il padiglione dedicato alla musica e qui si blocca, mi spia con disinvoltura e si avvicina ad un angolo nascosto, per assicurarsi non ci vedano.
-Ovviamente sì. Voglio dire, a chi non piacerebbe abbracciare la propria fidanzata e non doversi fare seghe da sé?- mi scappa una risata alla scelta dell'utilizzo di un linguaggio più audace, premendo il peso del mio corpo sulla gamba destra, gravitandovi, e allacciando le braccia al petto, in attesa di un continuo, -Ma io lascio perdere. Appena mi rendo conto che non è serio, abbandono l'idea. Mi capisci? Non mi interessa il contatto se non è sincero, confidarmi se rischio di marcire sulla sponda della sfiducia o definire amico qualcuno solamente perché condividiamo qualcosa.-
Schiudo le labbra, si morde innervosito il labbro e tende a darsi pizzicotti per non sfigurare in meandri della conversazione che ancora non devono venire a galla. Il suo portamento è storto, chiude le spalle esattamente come la madre e non dimentica il dover chiedere il permesso anche se gli spetta.
Le persone ci camminano intorno, un ragazzino dagli occhiali verdi ed un disco dei Coldplay fra le braccia ci sta a squadrare per un tempo minimo e poi altri ed altri ancora ci passano accanto. Io guardo lui, lui guarda me.
E non avviene in un trascorrere assai interminabile: non si tratta nemmeno di un minuto. Scaduto, ritorna tutto a muoversi con sufficienza, con mancanza di delicatezza e privo di insonorizzazione. E' devastante l'andatura di un mondo.
-Vedi, quando ti guardo, non mi trovo davanti ad una puttana. Probabilmente sei tu ad affibbiarti quest'etichetta. Hai fatto sesso con una discreta quantità di persone, ma non perché è di moda, ma perché tu in quel momento ne avevi bisogno. È sbagliato, secondo me, ovattarti di questa voglia di sbagliare; non condividerò il tuo modo di fare, ma non posso dire che tu non sia una persona.-
-E ora ti stai confidando.- mi espongo, desiderando una minimale considerazione dai suoi riguardi. Non mi perviene la radice di tale bramosia, ma è cruenta, consolidata. Non si tratta di un devo picergli, ma mi piacerebbe piacergli.
-Non sei una ragazza stupida, Celeste. Anzi, sei intelligente e mi stupisci, qualche volta.- dice soltanto, superandomi un attimo dopo e chiedendomi quale album credessi sarebbe stato perfetto per Andrea.
Suppongo di aver detto Lana Del Ray, ma quello che c'è stato dopo, non l'ho assorbito, mi sono accovacciata nella beatitudine di un momento condiviso e ho riso molto, per ciò che non pensavo potesse farmi ridere.
-Cosa pensi dei Coldplay?- gli ho chiesto, ad un certo punto, mentre compravo il regalo a Jacopo nel reparto adatto.
-Che lo sciopero dei pullman è superficiale.- ed abbiamo riso.
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