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"Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti."


Se n'è andata, alla fine. Simbolicamente o concretamente non saprei dirlo, ma mi ha accompagnata a bere un bicchiere d'acqua fresca e mi ha asciugato le lacrime sgretolanti. Ha utilizzato il suo solito fazzoletto di stoffa preservato e non si è curata di tenere le piante scalze dei piedi al freddo pavimento, mentre mi chiedeva se avesse potuto fare altro.

-Hai bisogno di qualcosa?- spingevano le ricerche di spiegazioni nei suoi lineamenti ancora induriti, sebbene tacesse l'insolenza e la mascherasse con affabilità com'è consono per zia Maddalena.

Ho persistito nello scuotere la testa, ho ignorato richieste implicite di curiosità crescente da esistente soddisfatta e ho ben deciso che, un giorno o un altro, andrò da un prete per maledire una volta e per tutte questi miei peccati insignificanti. Se la religione dà risposte -- per quanto assurdo mi appare riporre me stessa in una qualsiasi entità tuttofare e completamene giusta mi confonda e non poco -- le esigo con ogni mio straziato sentimento. Esigo di starmene bene con me stessa, di non detestare l'immagine talvolta grassa che si riflette nello specchio in camera. La libidine è soltanto una metafora, per me, probabilmente deve essere così. Quello che c'è in più è ciò che io dovrò tagliare, quando giungerà il momento, e che non fa di me Celeste, ma un'immagine martoriata di un essere umano con troppi dilemmi.

Quel che appare, a me, se non ad altri, è una visione determinista della mia immagine sbiadita.
Sbiadito, in realtà, è il mio buon senso che neppure prova a raccomandarmi di smetterla di cercare soluzioni nel mio corpo svuotato e che dovrei vivere, per capire chi essere.

Questo fardello è prezzo esatto per il mio egoismo, per la mia scarsa fiducia e gelosia marmorea, che si intruppa e si divincola dallo stesso organismo, perché se fosse logica, ontologicamente spiegabile, non starei qui a scervellarmi su come apparire più delicata per far visita a Jacopo e comunicargli quanto, questa mattina, io mi disgusti.

Invece, strofino di più le mani sottili al volto scalfito dalle situazioni, ottenendo un minimo di fisicità che la tristezza -- presumo tipica di questa età -- comporta e faccio un'attenta analisi su quanto male possa ancora squarciarmi ogni volta in maniera più radicale, decisa, intraprendente. Pare si sia stancato, il male, e che ora tenti di porre un punto : determiniamo una fine, piagnucolona !, è come se mi sussurrasse prima di prendermi alla sprovvista in pieno petto o alla vescica, alla gola e quella nausea, la sensazione di remissione nella propria totalità che annienta l'animo.

C'è la percezione di tutti i peli che sorgono sul corpo, la concretizzazione di tutti i muscoli e mi sembra che le ossa siano bucate dalle evenienze.

Con la matita traccio il contorno dei miei occhi spenti, facendo attenzione affinché la linea sia più calcata possibile, e poi afferro con velocità il mascara accanto al lavabo, trattenendo altre fissazioni emergenti dallo sguardo ed allungo le ciglia quanto mi pare esatto, prima di coprire i difetti del viso con tanto correttore. 

I polpastrelli freddi premono sulla pelle stranamente calda del mio volto, le occhiaie si sbiadiscono man mano così anche i brufoli, permettendo al mio viso di assumere nuova compostezza.

Sciacquo rapidamente le mani, muovendole con frenesia per smaltire i residui di bagnato e le asciugo sui jeans che fasciano le mie gambe, prima di muovermi verso la camera ed infilare un paio di scarpe da ginnastica, prendendo il cellulare dal comodino -- non mi preoccupo neppure di controllare la batteria -- e mi sbrigo a mettere la giacca ed uscire di casa, legando i capelli mentre scendo le scale.

Dimentico cosa è stato detto ieri sera, non ci penso neanche, o, con molta probabilità, il fatto riaffiora e lo spingo nel dimenticatoio con insistenza prepotente.

Le scarpe quasi strisciano generando attrito, i miei movimenti sono meccanici e pieni di speranza, di sentirmi meglio, se vado da Jacopo. Il mio egoismo non ha limiti, lo so con tutta la consapevolezza di questo mondo, ma persuado che anche questo finisca in un angolino ricco di ragnatele.

Apro rapidamente il portoncino e lascio che batta dietro di me, piegandomi soltanto per infilare i lacci delle scarpe sciolte all'interno di esse, per evitare di allacciarle. Porto una ciocca ribelle dietro l'orecchio e tossisco, avviandomi al vialetto della casa famiglia.

Ignoro ogni circostanza, ignoro il freddo che perviene dal tempo freddo di dicembre e dimentico persino di indossare una semplice maglietta leggera; leggiadro il tessuto, leggiadra la sensazione che butta fuori ogni altra sua simile, per insinuarsi e star comoda in un organismo oltraggiato da se stesso.

Sono davanti al cancelletto verde, stavolta decido sarebbe opportuno bussare e, subito dopo averlo fatto, tiro su la cerniera del giubbotto nero, stringendo le mani in pugni serrati e nascondendo il meno nel collo del tessuto di pelle nera. 

Il giardino pare così curato, potato, sentito come proprio. Funzioniamo come pianti, noi uomini. Che se siamo abbandonati a noi per troppo scorrere temporale, finiamo per crescere disordinatamente ed ammalarci per l'eccessivo freddo.

Sì, siamo proprio come piante da giardino. Mi piacerebbe essere come una di quelle tenute con cura estrema, non la felce che viene tagliata non appena notata.

Ti tagli, Celeste. Non ti tagliano. Sei tu che fai dolore a te stessa, lo crei con essenzialità estremista e stai ben attenta che tu possa incolpare altri.

La voce pacata di Stefano si fa sentire attraverso il piccolo microfono, attenta e vigile, nonché assonnata, mentre cerca l'attenzione di chi è venuto a cercarne un po'.

-Sono Celeste, buongiorno.-

-Ciao, cara. Prego, entra pure.- la frase viene accompagnata dalla vibrazione del cancello ed il suo aprirsi immediato.

Prendo un respiro, riduco in brandelli l'introversione momentanea ed entro, chiudendo con delicatezza la porta in metallo.

La figura di Stefano, alta e dalla capigliatura folta, si fa ben presto vedere all'ingresso, con braccia conserte ed un sorriso acceso, proficuo, gentile e cordiale. Il suo muoversi, lo considero sinonimo di pacatezza, di voglia di dare un buono esempio. Inclina il capo ed apre le braccia, stringendomi dalle spalle con le grandi mani e salutandomi cortesemente.

-Qual buon vento?-

-Hm, ci sarebbe Jacopo?- si spegne leggermente, incupisce di proposito il suo viso come per dire Ed io lo sapevo! e tenta di divincolare la sua attenzione dai miei occhi curiosi.

-In realtà, pensavamo fosse con te, ora che me lo ricordi. È uscito verso le otto,- cerca di non regalarmi troppe informazioni, ma io sto già viaggiando. Già, io, non assorbo più un cazzo di quello che la sua bocca educata mi offre da ascoltare. Già, io, sto immersa nel nulla e già so dove Jacopo possa essere e con chi, nonostante finga di non farlo palesare con fretta. 

Deglutisco, fingo un sorriso ed annuisco, minacciando il mio corpo di reagire e il mio sguardo di ristabilire il contatto con Stefano ancora in piedi davanti a me. La testa minaccia, il resto delle cellule e di pelle non capisce mica, piuttosto si smarrisce maggiormente in meandri di difficile accettazione.

-La ringrazio, vorrà dire che gli direte che sono passata.- faccio per andarmene, per tornarmene nel silenzio disordinato di quell'appartamento soffocante, sola, con le mani in tasca ed il respiro scaduto, ma -Resta con noi!, ci farebbe tanto piacere averti per la torta di colazione.-

-Io non vorrei --

-Sciocchezze, entra pure!- sta cercando di rassicurare una povera disperata che a diciassette anni non sa che farsene della sua intera esistenza. Eppure, sono un'adolescente. Dovrei ridere, scherzare, fumare per piacere, --- non è così, che funziona? Io destabilizzo me e me ripete ad io di smetterla. Non funziono da tempo ed adesso sto assimilando il tutto -- rinnovo la mia idea di adolescenza in tale modo sconsiderato.

Il calore del camino della confortevole nuvola per ragazzini oppressi e disconnessi mi accoglie, un odore di miele invade le mie narici e il rumore aleggia infatuato di ogni parete vecchia.

Una voce che riconosco nell'immediato si fa spazio nel fracasso e supplica per avere la fetta più grande, mentre io percorro il lungo e stretto corridoio fino alla piccola ed accogliente cucina.

Un tavolo si trova al centro, i fornelli non sono su un piano grande quanto dovrebbe e le sedie sono di un numero maggiore rispetto a quello che il tavolo può portare.

Mi fissano ed io sciolgo la mia rigidità, accennando con la mano un saluto e sussurrando un -Buongiorno.- troppo biascicato.

Alessia si volta per ultima, allargando un sorriso sulla bocca e aggiustandosi i capelli che porta a caschetto. Le sue labbra sono colorate come ieri mattina di rosso e mi sento stranamente di nuovo a mio agio.

-Ma che piacere !- strisciano con facilità, le parole, al di fuori della sua tempra contenuta, tenendo sollevata la mano con la quale stringe il coltello.

-Spero di non disturbare.- sorrido imbarazzata, unendo le mani all'altezza dell'ombelico.

-Ciao, Cele!- Lello si sposta velocemente e lascia campo libero per la torta al cioccolato che giace sul tavolo, correndomi incontro e salendomi in braccio non appena mi accovaccio.

-Ciao!- sono gli altri, ora, a dirlo all'unisono e ad avvicinarsi, per tenermi per qualche secondo la mano o per toccarmi le gambe, nonostante il bambino paffuto -- che mi sta dicendo che fra esattamente un mese farà sei anni -- stia ancora adagiato fra le mie braccia.

-Lello,- Stefano interviene, incurvando il busto perché lui vada tra le sue grinze, ma il bambino paffuto sceglie che sono più comoda e che vuole starmi vicino -- prova ne è il fatto che avviti le gambe attorno al mio bacino.

-Non è pesante, ce la faccio.- assicuro, muovendomi verso il tavolo.

-Sei così gracilina, sei sicura?- Alessia taglia la torta e mostra la sua particolare e meticolosa apprensione, scusandosi un attimo consecutivo.

-Forza, apriamo il tavolo e facciamo questa colazione !- annuncia Stefano, grattandosi il capo coperto dai capelli brizzolati ed Alessia annuisce, accompagnandolo nei movimenti. I bambini, contemporaneamente, aggiustano i loro posti ed aggiungono una tazza in più.

Capito accanto a Ginnie, tutta attenta a mescolare il suo latte col cacao e non perdersi neppure un'evoluzione dei granelli che si sfumano.

Lello, invece, addenta la sua torta dal mio ventre, non preoccupandosi della decenza -- ricordandomi il bello di essere bambini.

Alessia lega i suoi capelli castani e si siede tra Stefano e Carlo, silenzioso esattamente come ieri. Mi ha detto Jacopo che ha quattordici anni e parla raramente. Non sa nulla di lui, mi ha riportato, soltanto che detesta la confusione ed il fuoco. Deglutisco, mangiando un altro pezzettino di torta che tengo fra le dita.

I chiacchiericci sono moderati, ma spontanei. Ognuno racconta cosa pensa di fare, cosa ha sognato, cosa vorrebbe diventare da grande. I bambini non hanno filtri, i bambini assorbono talmente tanto che pare un ossequio formale, ammetterglielo. 

Sara e Carola bisticciano fra di loro, coetanee, nei loro dieci anni, e poi si abbracciano subito dopo. La prima, vanitosa, arrotola fra le dita i boccoli biondi, nonostante Alessia la rimproveri. La seconda, invece, persiste nell'avvicinare gli occhiali più che può col minuscolo indice.

Silvestro stamane non vuole scoprire i suoi capelli brunastri e li tiene coperti da un capello, tenendo anche oggi il volto basso anche mentre parla.

Jasmine, infine, fra Carlo e Stefano, imbocca inutilmente il suo pupazzo rosa scolorito, storcendo il naso se poi le briciole cadano a terra. -E dai, Pippino, mangia la torta.-

Deglutisco, nuovamente, e porto alla bocca l'ultimo pezzo della mia fetta. La loro diversità mi intimorisce ed i loro modi di fare sono inconsapevoli, puri, non vinti.

-Pippino, stamattina, mi ha detto che ha male al pancino. Mangiala tu, la torta, Jasmine.- le afferma gentilmente Stefano, scompigliandole i capelli neri che risaltano la sua pelle color caramello.

-Vuol dire che gliela conservo per quando ha fame.- si imbroncia, tornando a parlare col suo pupazzo che ha l'aria di uno che ne ascolta di tutti i colori.

matta, pensa che il pupazzo parla.- mi sussurra Lello ed io ridacchio, scuotendo la testa. Lei, però, lo sente e si alza in fretta, correndo con il pupazzo che si trascina sul pavimento, verso camera sua.

Sara e Carola continuano a battibeccare e Carlo a starsene zitto, mentre Silvestro si alza a sua volta e si reca con ponderante azione in bagno, per tirare ripetutamente lo scarico.

Alessia sospira, afflitta. Stringe il tavolo di legno fra i polpastrelli e si muove indecisa su chi aiutare per primo. Stefano, intanto, si alza e segue Silvestro -- che, tra l'altro -- si è chiuso dentro.

Stringo Lello che sta cominciando a piangere perché non voleva di certo e batte le mani, in un atto di isterismo, sul tavolo. Le urla di questo bambino dai capelli color grano mi perforano i timpani e tento di immaginare cosa avrebbe detto Jacopo, al suo amico, per farlo calmare.

Ma lui piange, grida e sia Alessia che Stefano non sono qui, impegnati con altri problemi. 

Mi mordo il labbro, guardandomi attorno e -Vuoi un altro po' di torta?- ma strilla di più.

-Una caramella?- ancora, i suoi pianti sono disperati e trionfa la cruda esistenza di questi bambini. Loro non hanno un'infanzia, loro si fanno corrispondere a chi per primo li prende con sé.

Scuoto me stessa, scuoto con leggerezza il corpicino che ho in braccio mentre scalcia e -Vogliamo finire la stazione?- si placa. Solleva il capo dalle mani incrociate e si asciuga una fervida lacrima, annuendo sconcertato.

Mi sollevo, straziata dalla scena, e lo porto con me in camera di Jacopo, cogliendo l'attimo per chiedere il permesso a Stefano che annuisce, impegnato a raccontare una favola a Silvestro che ha aperto l'acqua della doccia.

Sono passi veloci e ci ritroviamo nel bel mezzo del fracasso a costruire le celle di una prigione ben fatta. L'ascolto che mi racconta di quello che ricorda, di quello che vorrebbe. Vuole il papà, Lello. E io non so cosa rispondere ad una richiesta così tortuosa.

I suoi occhi sono chiarissimi, praticamente limpidi. Trapelano i sentimenti contrastanti che avvalorano il suo percorrere e mi dice che vuole qualcuno da chiamare papà.

-Tu lo sai chi è il mio papà?- mi cade il pezzo di lego dalle mani e spalanco le labbra, tentando di dimenarmi da questi rovi che stanno districando una conversazione fra una depressa ed un bambino che avrebbe le motivazioni di esserlo, ma che si spinge a vivere meglio.

Mi mordo l'interno guancia nella stanza parzialmente soleggiata, incrociando le gambe sul tappetto classico ed aspettando che la giusta affermazione giunga d'ispirazione.

-No, non lo so chi è il mio papà.-

-Io so che sta qui,- indica tranquillamente una delle celle e punta le sue gemme nel mio liquido coesistere con tanta miscela di infamia in un mondo.

-Chi ha scelto la stazione?- propongo, riprendendo ad unire i mattoncini e respirando a fatica. Il dolore mi si scioglie nelle arterie.

-Io.- lo dice rassicurato, fiero, terminando un'altra cella e mettendovi dentro quello che prima ha detto essere il suo personaggio preferito.

Percepisco le lacrime aggrovigliarsi in gola, a guardarlo. Non balbetta, non trema, non mostra tristezza. Perché chi sa cos'è, la tristezza, non perde il tempo a parlarne. La vive come se fosse quotidianità, la trasmette quando meno te lo aspetteresti nel consono agire.

-Se non è con te, con chi sta Jacopo?- lo guardo assorta, assopita e rigiro nell'organismo la nausea insistente, il significativo arrotolarsi nei lembi della disgraziata compassione che mi procura malessere.

Scrollo le spalle, -Magari con un amico.-

-Tu sei la sua unica amica.- ammette -Jacopo ha paura delle persone.-

Lo osservo incuriosita, noto che lo veda e -Sì, quando è venuto qui la prima volta è stata questa estate. Ma non ci parlava e i signori brutti lo hanno portato da un'altra parte. Poi è tornato un mese fa. I signori brutti hanno detto che lo psichicologo ha fatto un buon lavoro.- sorrido per l'incepparsi delle sue affermazioni. Ma la curiosità raggiunge il sopravvento e -Chi sono i signori brutti?-

-Quelli che chiami per aiutarti.- sto zitta, la voce di Lello si è raffreddata, sta smorzando l'incapacità di parlarne, per ora, e cerca di non esserne frastornato. 

-Carlo non parla perché a scuola gli dicono che è strano.- confida, io in silenzio aspetto che sia pronto a farmi parte di sé.

-Mentre Silvestro, ho sentito Alessia dirlo, quando stava con sua mamma e suo papà usava l'acqua per non sentire loro che litigavano.- aggiusta i tasselli perché stiano bene nelle loro posizioni, -Jasmine parla col pupazzo perché ha visto il papà che picchiava la mamma, lo ha detto Stefano.-

-Tu vai in prima, no?- blocco il suo tentativo di rammaricarsi. Questa creatura tenta di ritrovare una nota positiva in ogni dove, ma non vi è e perde i granelli del suo altruismo. Vorrei cullarlo in un'ottima buonanotte.

-Sì, ma la maestra dice che sono strano.-

-Davvero?-

-Lo pensa.- stiamo in silenzio, persistiamo nel rafforzare la nascente struttura in lego.

-Comunque, Tiziana non è bella come te.-  fa d'improvviso, inchiodandomi nel suo sguardo cristallino.

-Allora lo sai con chi sta Jacopo.- lo scimmiotto e gli scompiglio i capelli; lui se la ride, migliorando la resa delle sue guance piene e annuendo furbo.

-Sì che lo so, pensa che non l'ho sentito mentre ci parla a telefono. Allora, mi sono affacciato mentre lui è uscito. Non voglio mica che lui si dimentica di me.- schiudo le labbra, lo incito a continuare.

-Lui ha corso per andare da lei.- si alza, avvicinandosi al letto del ragazzo dagli occhi color cacca di cane e -Da te viene felice. Chi è felice, non corre.-

Sto in silenzio, di nuovo, e mi sbrigo a terminare questa diavolo di stazione inquietante ed andarmene. Lui sale sul letto, non ci presto attenzione, ma lo sento mentre armeggia con cassetti ed afferra cose.

Poi, torna e prende la mia attenzione, pizzicandomi il braccio da assorta. -Guarda qui cosa piace a Jacopo.-

Mi porge un raccoglitore scuro e mal messo che io conosco. I miei ricordi sfuggono a settimane prima, quando Jacopo usava portarlo con sé nei nostri incontri pomeridiani. Lo chiudeva non appena possedevo l'occasione di darci uno sguardo.

-Non sarebbe giusto,- lo allontano da me.

-Sarà il nostro segreto. Tanto tu conosci Jacopo, sono sicuro che te lo farà vedere un giorno o un altro.- mi istiga con occhi innocenti.

Non dovrei -- so perfettamente di non dover aprire questo apparente mondo dei sogni di Jacopo eppure l'egoismo si mescola con la curiosità prorompente e le mie dita prendono il vecchio raccoglitore, aprendolo con nonchalance e divina opinione secondo la quale, se il ragazzo dalle lentiggini dovesse scoprirmi, potrebbe arrabbiarsi per davvero.

Nella tranquilla camera, i miei occhi si spalancano e le mani tremano incerte. I miei sensi vengono attutiti dalla meraviglia che viene contenuta e rappresentata da questi fogli ruvidi.

-Sono -- cerco approvazione nel tono, Lello annuisce.

-Mani. Jacopo disegna mani perché, me lo ha detto quando non riuscivo a dormire, sono la parte che non lo spaventa delle persone.-

Ripercorrono la mia mente tutti i momenti in cui stava fermo a fissarmi le mani, quando teneva lo sguardo su quelle di Andrea o Roberto. La mia memoria mi conferisce ottima visuale di lui che nasconde disperatamente le sue, vergognandosi della cicatrice cheloidea che avvolge una di esse.

I disegni mi donano disperazione, speranza, sconcertante inquietudine. Ho riscoperto la bellezza dell'arte viaggiando coi polpastrelli sulle ombre da lui tratteggiate.

Noto le diverse date, la sua minuscola firma al di sotto di esse e tutte con un oggetto che le caratterizzasse. Alcune, le più frequenti, posseggono dei fiori alla base, proprio sul polso. Un fiore meraviglioso, contornato con una maestri che non credevo possedesse.

Questi disegni mi donano tranquillità, mi fanno sentire a posto e sono totalmente concentrata a possederne le emozioni che a stento ascolto ciò che Lello ha voglia di raccontarmi. 

Trascorro, in questo modo, ammaestrata ed assopita gran parte della mattinata, ritrovandomi, di conseguenza, invitata a pranzo.

-Ci piace la tua compagnia. Lello adora la tua presenza.- mi assicura Alessia, con un sorriso deciso, prendendo dalle mie mani il giubbotto che, intenta ad andare via, avevo afferrato dall'attaccapanni.

Jasmine, a pranzo, mi fa parlare col suo Pippino ed io sono lieta di fingere di ascoltare quello che mi dovrebbe star affermando. Così, aiuto Silvestro a scaricare quando viene in cucina -- che stavo aiutando Alessia con i piatti da lavare -- dicendo che si fosse bloccato il gabinetto.

Sto, adesso, parlando con Jasmine e Pippino di nuovo quando la porta si apre e ne entra una figura alta, dal passo rapido e l'andatura che sento mia. Quasi palpita, il petto, che mi accorgo si tratti di lui. Mi affaccio dalla sedia del piccolo salottino di fronte alla cucina e Jasmine continua a raccontarmi di come le abbiano regalato il suo adorato pupazzo.

Non si accorge di me, passando, poi ritorna indietro, aggrappandosi allo stipite e corrucciando lo sguardo ad osservarmi intenta a coccolare una sua sorellina mentre vaneggia su assurdità.

-Che diavolo ci fai qui?- ride leggermente, stringendo il palmo coperto dal guanto. Jasmine si volta attenta e -Perché Celeste non può stare qui? È più brava di te.-

-Sono più brava di te, Jacopo.- gli strizzo l'occhiolino e scuote la testa, camminando nella nostra direzione e guardandoci perplesso, mentre rivolgo parole di cortesia ad un pupazzo rosa scolorito.

-Sai che mi piace scrivere, Celeste?-

-Ma davvero? Pippino, tu lo sapevi?- sorride, Jasmine, stringendosi nelle mie braccia e facendo annuire l'affaretto che ha nelle mani.

Jacopo si siede sul divano affianco alla poltroncina, ridendo di sottecchi e non perdendosi neppure un passaggio della conversazione.

Poi, -Devo andare a mangiare il dolce. Penso che Pippino non lo vuole,- annuisco, silenziosa, e la lascio scendere dalle mie gambe e liquidarmi con un affettuoso bacio sulla guancia.

-Da quando sei qui?- fa, io scatto innervosita. Il senso che mi attanagliava stamane, è ritornato guerriero.

-Da stamattina. Ero venuta a cercarti, loro mi hanno trattenuta.-

-Sei incazzata? Sapevi che sarei uscito con Tiziana.-

-Non sono incazzata, Jacopo. Anzi, penso andrò via.- mi alzo e lui fa altrettanto, allungando la mano verso il mio polso. Percepisco un deviarsi, voleva fare altro. Lo sento, lo conosco, cerco di intuire, ma sta inerme a trattenermi con questi meravigliosi occhi e quasi sento di appartenere ad un posto.

-Puoi stare qui.-

-Sì, immagino posso.- Mi risiedo, ridicolizzando la mia effimera volontà e chiedendomi cosa cazzo stia succedendo a Celeste. -In fondo, sono più brava di te.-

Ridiamo. -Sei proprio idiota.- si siede su di me, attirandomi in un abbraccio pieno, vissuto. Mi schiaccia col suo peso maggiore, ma ascolto soltanto il suono delle nostre risate che ci picchiamo divertiti.

Mi scompiglia i capelli e mi tira giù a terra, tenendomi fra le braccia come nessuno fa da anni. Mi sento protetta, adesso.

-Oggi finiremo a fare i babysitter, che vita entusiasmante.- si lamenta.

-E, invece, domani che faremo?- scimmiotto.

-Ci daremo al dog sitting.- ridiamo ancora, in un tortuoso abbraccio.



N/A. quattromila parole melmose yessaaaaaa

Tipo wattpad dice che ponderante non esiste come vocabolo ok. MA COSA VUOI DA ME SE ANZI CHE IL CAFFE' IO COME MI SVEGLIO LA MATTINA PENSO AD ANGELAAAAAA 

Il vostro film preferito? Da qualche giorno, assolutamente, Manchester by the sea. Assieme a Pretty Woman perché sotto sotto mi piacciono le storie fra mecenati e prostitute. Che romanticona

jon sudano?

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