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29

"Le famiglie felici, lo sono tutte allo stesso modo. Quelle infelici, lo sono in modo diverso. Le une diverse dalle altre."

Oggi, a tormentarmi, c'è l'insonnia, mentre mi rigiro nel letto con la pazienza amara e fradicia di essa stessa a consolidare le mie mosse scocciate.

Per l'ennesima volta in questa notte, afferro il cellulare sul comodino e guardo l'orario, lasciando ricadere, subito dopo, l'appena sollevata testa all'indietro, per l'orario sconveniente.

Ossequio formale è quello che sto donando a questo meschino tempo che di passare non ha proprio voglia.

04:56, neppure l'alba e non ho chiuso occhio, con il silenzio da contorno al tutto e l'ansia che le ore notturne sono solite portare. L'incredulità accidiosa del mostriciattolo stronzo sotto al letto, il battito cardiaco che accelera ad ogni minimo rumore che si percepisce ed il ticchettio dell'orologio in cucina che rimbomba nelle orecchie. Che se ci pensi, ti perdi, e la notte striscia via con i suoi demoni che ti impongono, quasi, la voglia di pregare per sfuggire alla solitudine.

La speranza di un bambino che si stringe nelle coperte, così devo apparire, per smorzare la cattiveria delle stelle che vestono il cielo.

Chiudo gli occhi, ancora, e fingo che il sonno mi stia afferrando e portando ovunque il tempo passa velocemente e di mattina ti viene da dire È già passata?. Mi sistemo sul fianco destro e scavo con il mento nella stoffa colorata che ricopre il cuscino, una mano al di sotto di esso e gambe intrecciate col pupazzo, la testa che nuoce ai sensi e sembra parlare e non avere intenzione di stare zitta.

Si ripetono, così, canzoni e frasi nel mio cervello; si susseguono sbadigli stanchi e brontolii uscenti dalla mia bocca, mentre il passare cronologico si burla scadente del mio stato d'animo.

Rotolo sull'altro fianco, mi guardo attorno e sbuffo, scoprendomi appena e ricoprendomi subito dopo. Gioco coi lembi di coperte, mi improvviso psicoanalista e provo i tantissimi rimedi contro l'insonnia che ho trovato su internet, senza alcun risultato. Sospiro e prendo nuovamente il cellulare : 05:17.

-Non ho nemmeno le cuffie, cazzo.- biascico, lamentandomi. Strofino il palmo sul braccio e districo le gambe dalla presa del morbido pupazzo, mettendomi a sedere.

Le tapparelle sono abbassate, ma non ci metto molto a supporre che ancora non è alba, quindi tengo fra le mani il telefono e viaggio fra i social addormentati. Poche notifiche, poche nuove cose da sbirciare e si enfatizza il possente nome della noia davanti a me che alle cinque e un quarto sto a gambe incrociate a leggere un libro su uno schermo troppo luminoso.

Il dito scorre e gli occhi infastiditi viaggiano fra una parola ed un'altra, mentre cambio posizione per l'euforia della mancanza di vivacità nel mio agire. 05:46 e decido che nessuno me ne vorrà se mi alzo e mi vesto in fretta, annullando la quiete di quest'abitazione dormiente.

Mi sollevo e trascino fino al bagno con i vestiti fra le braccia, il viso probabilmente pallido e sento il bisogno di fumare una sigaretta, peccato che le abbia buttate e non ce n'è traccia, in casa.

Sollevo le ciocche di capelli mossi e le tengo su con una molletta, prima di girare la manopola del rubinetto e portare al volto l'acqua fresca, rabbrividendo. Asciugo mani e viso, posando subito dopo l'asciugamano sulla lavatrice, e mi do una mossa nel vestirmi, canticchiando parole delle canzoni che durante la notte si sono ripetute indisturbate nella mia testa.

-Lately, I've been losing sleep. Dreaming about the things that we could be.- gomito che batte allo spigolo e qualche imprecazione dopo, infilo la felpa nera ed i pantaloni, sedendomi sul letto per mettere i calzini e lamentarmi un attimo in più del non poco leggero dolore che percuote il braccio.

-But baby, I've been praying hard. Said, no more counting dollars, we'll be counting stars!- persisto nel cantare, nonostante la mia voce stonata e mi muovo per ballare nel piccolo bagno, anche se priva della maggior parte delle energie.

Prendo il cellulare dal mobiletto del lavabo e ricerco velocemente gli One Republic, per poi passare con rapidità ai RadioHead, per inaugurare come si deve questa già sfiancato giornata.

Cuffie nelle orecchie e mi affretto ad indossare le scarpe seduta sul letto ancora disfatto e a prendere dal secondo cassetto del comodino cinque euro. Mi blocco, subito dopo, guardando con colpevolezza la mano che è già in tasca, ma ignoro lo stimolo di rimetterli a posto e corro fuori di casa, avendo afferrato la giacca e lasciato un biglietto a zia.

Scivolo lungo le scale a passo veloce, quasi non percepisco i miei passi taciturni, ed apro il portone con la chiave difettosa, muovendomi al di fuori del palazzo piuttosto nauseata dall'impatto con l'aria fredda di dicembre.

Con le mani porto i capelli su una spalla, zaino a cedere alle braccia e strada secondaria per quel vecchio tabacchino, cammino col mento che scava nel vecchio scalda collo e le mani che giocano coi fili in eccesso nelle tasche.

Passo per il vialetto dietro all'edificio che ospita la casa famiglia e calcio qualche sassolino, respirando affannosamente l'aria mattutina.

Mano tra i capelli, senso di colpa a perforare le tempie e soldi nella macchinetta che impiega un attimo a darmi ciò che ho chiesto. Mi regala una macchina da morte cara, non deve farsi pregare per darsi una mossa.

La plastica che ricopre il pacchetto è liscia al mio tatto e mi osservo attorno, appoggiandomi con le spalle al muro dai mattoni rossi, e lo rigiro in un palmo, poi in un altro. L'occhio attento scruta ogni dettaglio, consuma la coscienza adagiata nel mio far male e buca con avidità il senso di colpa. E sono percorsa da brividi improvvisi, un cedimento rapido e la scarica di adrenalina mancante che scuote le fibre del mio corpo.

La testa, la sollevo e tocca il muro con più forza, stringo le dita intorno al cartoncino con su scritto Fumare uccide te e chi ti sta accanto, e decido che posso concedermi una frivola sigaretta sulla strada del ritorno e, prima di avviarmi, mi accomodo sul bordo del marciapiede, il tessuto dei pantaloni si tende al mio movimento e mi sembra di sentire il cemento freddo al contatto con la mia pelle.

In realtà, mi pare di sentire ogni pelo delle mie braccia, ogni capello che ricade disinvolto ed ogni centimetro del mio pallore che fa di me Celeste; sì, mi pare di percepire tutto e, a propagarsi, è un insolito vuoto nello stomaco che lascia immediatamente il posto al senso di dover rimettere e sputo a terra, mantenendo il peso morto del mio capo con le mani. Il pacchetto di sigarette ora è ai miei piedi, lo scaccio e lo riprendo.

-Vaffanculo, Celeste!- lo dico fra me e me, mi alzo stizzita e aggiusto lo zaino sulle spalle, correndo per la strada, con la vana speranza che l'aria regolarizzi il mio esistere, che mi faccia meno disgraziata, più consapevole di quello che sto passando.

Sono di nuovo nel vialetto che si affaccia al giardino della piccola casa famiglia ed accendo la sigaretta, con disinteresse, ma non la porto alle labbra. Non inspiro, sta qui tra le mie dita ed io sono inerme, perché non posso. Non voglio e i miei occhi si bloccano alla vista di un ragazzo con le lentiggini che dà l'acqua ai tulipani.

Lui non mi nota, persevera nel canticchiare fra sé e sé e si stringe nel suo giubbotto per il freddo. Noto l'orario, sono appena le sette meno un quarto e lui già è qui, con la sua solita vitalità, con i suoi confortanti gesti e lascio che la sigaretta cada sul cemento, proprio accanto alle mie vans e tendo le braccia in avanti, fletto la destra, così che possa scavalcare la piccola ringhiera che contorna il giardinetto ricco di piante.

Un passo, poi un altro, e sto a cavalcioni sul freddo metallo arrugginito, spingendomi, dopo qualche atteso secondo, dall'altro lato. Ancora non si accorge di me, lui sta esistendo, oggi, proprio come me, ma esiste un po' di più. Non si perde nei pensieri di ciò che potrebbe essere, è Jacopo e annaffia la pianta rampicante dalle radici.

Mi avvicino, in silenzio, lo zaino è cedevole lungo le braccia e lo sposto su con un meccanico movimento. Ora sì che mi vede, sorride preso da una vicenda inaspettata, come se fosse colto nel momento sbagliato.

-Buongiorno.-

-Ciao.- stride la mia voce nel frescura del mattino e prego perché taccia, perché io possa comprare del silenzio d'assenzio.

-Potrei denunciarti, sei entrata qui senza permesso.- sorrido, illuminandomi. So che se ne rende conto, ma persiste nei suoi affari bislacchi e mi concede soltanto l'attenzione effimera di un inizio.

-Accipicchia, cosa mai farò!- butto indietro i pensieri impropri, le utopie materialistiche che stanno struggendo la mia mente da ieri sera. Mi appoggio al muretto dove, nel terreno sui margini di esso, sono piantate diverse rose. Aggroviglio le cuffie fra le dita e lo ascolto ridere, poi -Fossi in te, sarei preoccupato, ho intenzione di spedirti in gattabuia.-

-Chi dice gattabuia, Jacopo?-

-I delinquenti, l'ho letto un romanzo.-

-Sì, ai tempi di Petrarca, forse.-

-Ah!, la punti su Petrarca. Attenta che potrei dire alcune cose cattive sulla tua crush letteraria.-

Rido. Porto la mano alla pancia e la tengo, liberando gli sfoghi negativi di una notte, le violenze ai sensi e i genuini encomi a me stessa.

-Quel gobbo.-

-Intanto ---

-Era gobbo, zitta.-

-A casa mia, mi hanno insegnato che nessuno può zittire nessun altro!- continuiamo a ridere dispersivi, mentre lui dà l'acqua alle piante ed io scuoto la testa, disorientata. Sto disorganizzando me stessa, con questo ragazzo; sto disorganizzando l'immagine fasulla ed accettabile della mia esistenza e fa meno paura di quanto mi aspettassi.

-Non è carino, immagina se tu avessi la gobba.-

-Non scriverei alla figlia del mio portiere, se l'avessi.-

-Tu non hai un portiere.-

-A maggior ragione.- scoppiamo nuovamente nelle risate fragorose e per nulla discrete, persino sorreggendoci l'un l'altra, nel piacevole incontro delle insicurezze.

È come quando si è disoccupati, immagino, l'adolescenza. Studi perché t'è d'obbligo, ma non sai che farne di te stessa. C'è una bislacca preparazione al futuro incerto, alle sue disinvolte conseguenze, nella crescita, e siamo così tardi nel rendercene conto.

-Perché dai l'acqua alle piante alle sette del mattino?-

-Devi sapere che doveva farlo Lello, ma ieri ha litigato con quegli stronzi dei suoi compagni e non voglio che sia costretto a parlarne.- il tono di Jacopo è fisso, immobile, instabile nel traballare. Anche gli occhi sono leggermente abbattuti, vige l'inconscio, ora, in questo ragazzo e lui ci sta litigando.

-Cosa gli hanno detto?- non so perché detto, immagino sia così. Ai bambini le parole fanno male, più dei gesti. Il muoversi è fraintendibile, a quell'età, le parole si ricordano. Le si deve imprimere, le parole, si pensa a quell'età, cosicché non si dimentichi la pregustata vendetta -- quella che mai giungerà.

-Che non è normale non avere la mamma e il papà. È tornato a casa e non ha voluto mangiare. Ripeteva solamente che vuole sapere se il suo papà ha i suoi occhi. Esilarante.- si allontana di qualche passo, con le mani tremolanti gira la manopola della fontanella e riempie la borraccia che sta utilizzando di acqua, ritornando poi alle sue piante. Lo guardo sconcertata, unisco le braccia al petto, sotto al seno, e -Esilarante perché?-

-Suo padre è un pezzo grosso di un'associazione illegale, condannato all'ergastolo per centodiciassette omicidi.- non vacilla nel parlare, inclina la voce nell'attenzione quando occorre e lo sguardo persevera nell'accompagnamento della voce satirica che commenta.

-E . . .-

-Oh, certo. Aveva sedici anni ed è stata venduta dalla famiglia per qualche migliaia di euro. So che si è tolta la vita, lui non ne ha idea.-

-Da quanto è qui?- minuta, disperata, la mia domanda percuote le mie necessitazioni. Quel bambino è nato dall'odio e vuole conoscere il fautore di un destino tanto indiscreto.

-Due anni, o tre. Non ha ricordi, pensa che i suoi genitori lo abbiano lasciato qui per poi ritornare dopo un lungo viaggio. Ripeto, esilarante.- ritorna alla fontanella per dell'altra acqua e -Crede gli porteranno un pensierino, ti rendi conto?- ora sta cadendo, quasi si piega in due e non è più una risata amara quella che riecheggia, ma un pianto lieve, lascivo. C'è della lascività implicita verso la bramosia di benessere. È vinto da questo insolente vizio.

-E poi, se delle coppie, disposte a dare una famiglia a questi bambini, vogliono intervenire, le istituzioni fanno di tutto per impedirlo. Visite mediche, incontri dagli psichiatri, carte su carte e poi ci sono bambini che crescono male. Perché questo non è crescere, neppure lontanamente. Ascolto costantemente i miei fratelli dire di voler tornare a casa dai quegli psicotici dei genitori perché, piuttosto che non averli, se li tengono alcolizzati, drogati o delinquenti.- sta in piedi accanto alla fontana piccola di pietra calcarea, tenendosi con le mani salde ad essa ed io ho l'insazietà delle precauzioni per il rispetto alla gola, la consapevolezza a palpitare e il conoscere che c'è chi ha passato di peggio. C'è chi soffre di più, ma ha le forze necessarie per farcela. Ho i sentimenti a corrodere le pareti del mio stomaco mentre tento qualche passo di avvicinamento al ragazzo triste. Le immagini di bambini che sognano i propri genitori, anche se li hanno uccisi interiormente, si ripetono nella mia testa.

-Vedi, io lo so, cosa si passa. Sono stato con quel pezzo di merda per anni, prima che a quindici anni mi portassero via. Ero contento, insomma, nella mia mente mi avevano salvato. E invece --- No!, era solo cominciato l'inferno. Non si dimentica la mancanza di un'infanzia, Cele.-

Lo sto abbracciando in silenzio, lui stringe le mie mani che si posano al suo addome con affetto. Ho il mento a scavare nell'incavo del suo collo e lui, con rapidità, si volta, stringendomi con affanno e speranza.

-Mia madre non aveva idea di chi potesse essere mio padre. Un giorno si è ritrovata incinta e la collega voleva portarla ad abortire, ma era probabilmente troppo tardi. Quando sono nata, hanno ricostruito gli appuntamenti, le visite, e l'ha ritrovato.- rido tra le lacrime che stanno scivolando anche lungo le mie guance. Annuisce, aspetta che ci sia altro oltre gli schiamazzi amarognoli -Certo che l'ha ritrovato. Un uomo sposato con tre figli e una moglie ammalata di tumore. Lui disse che non c'era spazio per una bastarda.-

Prendo un respiro, non svincolandomi dall'intricarsi dei nostri arti e -Quando la moglie morì e l'ultimo figlio compì l'età di diciotto anni voleva riconoscermi e portarmi a vivere con lui. Mia madre rifiutò e da allora invia assegni che quella rimanda indietro con tanto di 'Puoi metterteli nel culo' ad ogni raccomandata con ricevuta di ritorno.-

-Ecco da chi hai preso la tua finezza sedentaria.- sa che abbiamo bisogno di sdrammatizzare, ergo ridiamo.

-Sì, proprio da lei.- scuoto il capo, slego l'abbraccio e lo fisso negli occhi con serietà, lui fa altrettanto.

-Forse,--

-Ti prego, non dirlo. Non ho legami che mi uniscano a quell'uomo, se non il sangue. Non c'è stato quando doveva, non ho bisogno dei suoi soldi del cazzo.-

-Non sai perché l'ha fatto.-

-Non importa quali possano essere le motivazioni, se sarebbe stato --- fosse, cazzo. Queste conversazioni di mattina mi fanno male.- sorride.

-Ma insomma, sono le migliori.-

-Vai a scrivere canzoni.- lo spintono scherzosamente e mi tira per un braccio verso di lui. Le nostre affannose risate echeggiano indisturbate e cominciamo a battibeccare in un incantevole cortile rincorrendoci. Sto esistendo, a distanza di qualche ora, e lo sto facendo nella bellezza dell'esistenza stessa.

Le lacrime sono asciutte sulla mia pelle chiara e sulla sua ricoperta di lentiggini. Ora stiamo coesistendo e ci sta bene: da adolescenti, insomma. La solitudine delle cicche un attimo prima, quello dopo ci si ritrova con una canna in mano e i sensi inebriati.

-Sei sempre stata una schiappa nello scapocciare.- dice, prendendomi dalle spalle e attirandomi a lui mentre tenta di scombinarmi i capelli, nonostante io tenti di divincolarmi e mi trascino con le ginocchia sul prato bagnato.

-Da quando?-

-Da sempre.- le mani coi guanti nei capelli e le risate cristalline, pure, disinibite, noncuranti dell'orario, dell'educazione o di qualsivoglia prassi.

-Mi risulta il contrario.- mi do una spinta e salgo sulla sua schiena, ribaltando la situazione e lego le gambe al bacino, mentre sfrego il palmo sui suoi capelli smossi e corposi. Ridiamo ancora, non ritenendo utile voltarci per notare la presenza di Stefano, inerme davanti alla porta con un bel sorriso.

-Mi arrendo !, mi arrendo ! Voi donne siete migliori, lo giuro !- prova a liberarsi dalla mia dinamica presa con pessimo risultato ed è solo adesso che focalizziamo la razionalità a ciò che abbiamo visto. In un attimo, scendo dalle spalle di Jacopo e abbasso il capo verso il mio zaino che, nella confusione, è caduto a terra.

-Buongiorno.- faccio imbarazzata, massaggio il braccio sinistro vinta dalla vergogna. Jacopo è rosso in viso ed ha preso delle distanze dal mio corpo, per pudore assurdo.

-Buongiorno a te, cara.- ma lui non ce lo fa pesare, allarga le braccia in un gesto affettuoso e sorride paterno, compiendo qualche passo. -È un piacere rivederti.-

Subito dopo, quando sto raccogliendo lo zaino, quel bambino bizzarro fa la sua uscita, probabilmente con la voglia che qualcuno esaudisca la sua richiesta. Ma, mentre sta per parlare, si deve essere accorto di me e -La fidanzata di Jacopo!-

-Bambino stronzo.- sussurra il ragazzo accanto a me, con una mano in volto e l'imbarazzo a defluire. Sorrido.

Stefano è confuso, evidentemente, il volto assume pieghe che non conosco e inclina il capo verso il bambino che mi fissa indispettito e vivace, continuando a ripetere che io sia bellissima.

-L'hai portata a fare colazione con noi, Jacopo?- si avvicina e tira l'amico più grande, il fratello, per la manica della giacca e si appende per dondolare.

-Oh, no, io. . .-

-Puoi restare, è un piacere.- Stefano assorbe nuovamente il comando delle sue azioni, la lucidità perduta per lo stupore e mi fa cenno di seguirli all'interno.

-Io ---

Ma io sto guardando Jacopo, con la vana speme che capisca che necessito un suo assenso. Dubito mi guardi, ma lo fa improvvisamente e mi pare mi stia pregando --- di farlo, di stare con lui.

-Dai! Ti prometto che puoi baciare Jacopo a tavola.- annuisco, non presto attenzione alle parole e afferro per il braccio il mio compagno per entrare, dopo uno Stefano che opta per la discrezione e Lello che grida ai quattro venti che avrà un nipotino.

-Ti voglio bene, Cele.- me lo sussurra che stiamo entrando e nessuno ci guarda.

-Ti voglio bene anche io, Jacopo.-

N/A: non è stato un periodo felice ; in generale non lo è mai, ma non è stata soltanto noia, piuttosto aggraverei il nome della tristezza poiché ho percepito quella e basta. E' stato un capitolo complicato perché ero appesantita dalla mia esistenza mal contenta, sono desolata per il ritardo.

Faccio una domanda, dai non mi appendete che sono già vuota di mio. Cosa fate quando siete da soli? Ballo, mi muovo, parlo con i miei personaggi.

Ciao, jon sudanine.

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