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28

"Conferma la sua versione dei fatti?"

Claudia è rimasta a cena da noi, ieri sera. Mi ha guardata studiare letteratura latina e ha scosso la testa, cercando sotto ad un cuscino la forza per studiare lingue morte. Il cuscino, dopo, gliel'ho buttato dietro ridendo.

-No, sono seria, Celeste. A cosa ti serve questa roba?-

-A non far nulla in eterno, Claudia.- le ho semplicemente risposto, tornando a studiare sui libri trasandati.

Sono sempre nuovi, quando zia me li compra. Comincio a torturare gli angoli, ad un certo punto, e con le unghie rovino la carta spessa della copertina. Poi, girando le pagine, presa dalla fretta di chi vuole sapere troppo e subito, strappo gli angoli e delle pieghe cominciano a rovinare ciò che c'è scritto. Sottolineo, ci studio su e prendono ad essere come Celeste, altro non potrebbero.

Quel che è nostro, che si plasma da noi o che a noi viene, ciò che tocchiamo anche per errore, assume un qualcosa di noi ; non si può riflettere su altro di esatto, se non al mischiarsi di quello che si sfiora. È natura, credo. O solamente l'impressione di una ragazzina folle. 

Cammino a passi rapidi in questa cittadina, noto con la coda dell'occhio un uomo con la gonna ed il trucco che esce dalla salumeria. La borsa ricade delicata dal suo polso e tiene il portafogli fra le dita dall'ossatura grossa. Il suo sguardo è in cerca di consenso, di un qualsivoglia giudizio (suppongo speri in opinioni positive) e cammina prostrando in avanti il seno o, comunque, il suo petto. Diverse persone lo osservano, alcune parlottano fra loro, altre disgraziatamente gli lanciano occhiate di dissenso. Lui non ne ha bisogno, lui persiste a camminare e si passa anche un palmo nella chioma di boccoli biondi. 

Aggiusto una bretella dello zaino nero ed inciampo quasi in un tombino, lasciando che seguano imprecazioni dalla mia bocca per il posto scelto per questo dannato coperchio di ferro. Non è mia, la disattenzione, non è proponibile che si tratti di me. Che sia io, ad aver errato ; pressappoco, il meccanismo è quello : accettare di essere caduti nel torto si infrange con il solito ego che circonda l'essere umano. Ego marcio, quanto il torto, ma siamo troppo pigri per concedercelo.

Vibra anche il telefono, in questo mentre pindarico e comico, ma scelgo di ignorarlo spudoratamente ed in questo modo anche le restanti notifiche, imponendomi di fingere di non sapere chi mi ha scritto. Ma il problema è che lo so, ma ignoro. Ignoro e non mi spiego il perché, me lo proibisco e stop, assorbo solo ciò, non mi dovrebbe servire di concepire alcuna cosa, mi dico !, ma sta lì, quel senso di malinconia impudica e che non demorde.

Non mi spingo neppure a guardare chi ci sia davanti la scuola, a spendere attimi in un parlare reciproco, carezze fasulle e qualche sigaretta che sprona al farsi riconoscere.

Saluto con un cenno Andrea che mi sta già sorridendo, ha alzato la mano e l'ha mossa seduto sul gradino del marciapiede con un libro scadente fra le mani, uno di quelli che ti assegnano a scuola, e poi torna a dargli la lettura adeguata. So, anche se oramai l'ho superato, che pronuncia più accuratamente diverse parole, quelle che gli sembrano più adatte al libro che tiene fra le mani. Le scandisce direttamente con le labbra, non le mangia con velocità come con la maggior parte, quelle pretende che lo assopiscano e che gli diano una motivazione a progredire nel leggere.

Supero il gruppo dei ragazzi accanto alle moto e alle vespe, sono già intenti a dividersi le scorte di erba quotidiana e ridono allegri, con orologi costosi ai polsi ed il casco alla mano. Scuoto la testa, non sono di certo meglio di loro. Non sono meglio, quasi simile, piuttosto. È che a vedermi potrei apparire ridotta all'epopea del fantasma di me stessa.

Mi stringo nella mia giacca di pelle nera, a braccia conserte e passo svelto. Tengo il capo leggermente abbassato e trattengo la stramba noia che sgorga dai miei sensi, dai miei pori, persino dai miei movimenti.

Il cemento del viale è rovinato dalla sporcizia agli estremi e da diverse inspiegabili buche. Così le mura sembrano reduci di tantissimi racconti, l'intonaco che si stacca pare un apposito ricordare quanto un edificio, qualcosa di irremovibile, vivi da un tempo che l'uomo solamente sogna.

Sto entrando nell'istituto quando il telefono suona un'altra volta, vibra nella tasca del jeans e sospiro, decidendo, di punto in bianco, di impiantarmi davanti al banco dei bidelli e di afferrarlo. Guardo lo schermo per un po', lo tengo fra le mani e tremo con esso, soffermandomi sull'ambiguo dolore che si propaga nel petto vuoto.

-Ai miei tempi, se uno chiamava, l'altro rispondeva.- Rosa mi affianca, sporgendosi in avanti per agguantare con fine invadenza il nome e poi, satirica ed ignorante, dice -Se non gli rispondi, ti ha fatto qualcosa. Ai miei tempi, si risolveva tutto.-

-Posso venire con lei in questi tempi?- il telefono cessa di squillare, lei ride ed altri ragazzi entrano nell'atrio, non curandosi dell'ignota ragazzina che scambia due parole con la bidella che regala sigarette ed accendini. Alcune volte ha poggiato un portacenere sul lavabo per farci godere il disequilibrio che il fumo ci portava.

-E chi ci torna ! Io ora ho il mio telefono e ho Pou.- ridacchio e scuoto la testa. Lei si aggiusta una delle forcine che le tengono ben sistemati i capelli e caccia dalla tasca del suo grembiule rosa uno smartphone e comincia a cliccare sullo schermo con le unghie lunghe. -Questo affare non funziona mai, mannaggia --

-Signora Rosa, se bestemmia il preside la convocherà di nuovo.- le ricordo, lei sbuffa avvilita e ripone il cellulare nella tasca, appoggiandosi al bancone e richiamando con un'occhiataccia il collaboratore zoppo e con gli occhiali.

-Quel vecchio babbuino!, ci vuole qualcuno che lo sculaccia.- si lamenta, adirata. Si appoggia al ripiano con i gomiti e curiosa fra le carte di Giuseppe che la becca immediatamente, togliendole dalla visuale della vecchia pettegola. Così, inviperita, gliene canta quattro ed io vengo attratta dal risuonare dell'aggeggio che ancora ho fra le dita e d'introspezione saprei che mi toccherà dargli una misera spiegazione, prima o dopo.

-Quindi non posso tornare lì con lei?-

-No, non puoi.- nota il suono del telefono nonostante il gran baccano attorno a noi. Giocherella un po' con il suo orecchino d'oro e si riflette nello specchietto che porta sempre con sé ; non me l'aspetto, ma -Se ti ha fatto del male, non voleva fartelo.-

-E lei che ne sa?-

-Stava scritto sulla lavagna della terza classico. Penso lo dice Socrate.-

-Sì, lo dice lui.-

-Non serve aver studiato, per conoscere una persona. Quindi, o vai a fumare nel bagno senza sporcare o rispondi : non ci sono alternative.-

-Questo lo dice lei.-

-Chi ha cinquantotto anni, qui, signorina?- schiocca le dita e mi dà le spalle, inseguendo con fare maldestro Giuseppe che se ne sta in un angolo tranquillo a leggere le sue carte. Comincia a correre, appena vede la vecchia invadente, ma sa perfettamente che la signora Rosa, nelle sue ciabatte, l'avrà vinta.

Le sigarette non le ho, però, traccio così col dito sullo schermo per rispondere e -Era ora, ti sto chiamando da non so quanto.-

-Ciao, Jacopo.- sussurro fredda. Prendo a camminare all'interno dell'edificio, percorrendo il solito tragitto; passo per l'aula magna, ignoro eventuali occhiate ed aspetto che mi degni di una risposta.

-Ciao? Celeste, non ti fai sentire da ieri. Anzi sono giorni che non ci sentiamo per davvero.- porta nel tono qualche nota di rancore, ma mantiene la voce bassa e pacata. Sarà frustato e lo immagino nel passarsi un mano nei capelli e nell'evitare le occhiate che riceverà per star parlando con rabbia e timbro basso ad un telefono.

-Sì, ciao. Sono stata impegnata.- bugie, bugie. Volevo solo proteggere il mio piccolo mondo fatto di certezze vane ed improprie, timori insensati e un'esistenza poco rincuorante. Mi appoggio al muro verdastro del corridoio, nascondendomi dietro una sporgenza e quasi mi chino, per recuperare le forze per uno dei suoi tanti modi per spiazzarmi. Sollevo il capo appesantita dalle colpe, quando -A fare?-

-Studiavo.-

-Oggi ti manca greco ed hai assemblea nelle ore di italiano e matematica. Studiavi per educazione fisica?-

-Certo.- mi scappa quasi una risata per la bruttura di questa conversazione. Mi sta struggendo, Jacopo, e neppure lo sa. Butta giù parole, starà ben attento a far sì che escano come si deve perché io non fraintenda e mi chiedo quando hanno cambiato le porte delle classi. È più semplice perdersi in altro, la realtà non è sempre rose e fiori per i sensi. Ed entro nel bagno, mi guardo nel vecchio specchio pieno di ammaccature ed arriva quel momento in cui un uomo smette di fare per sano egoismo e si riflette nelle consapevolezze. Per molti è un bell'attimo, per altri c'è soltanto delusione per aver ignorato le conseguenze per tanto.

-Sei una lurida bugiarda.- il fatto sconcertante ristora nel mio saperlo, questo. Nel mio essere colta dalla riflessione che mi lascia inerme davanti ad un vecchio specchio, con un telefono fra la mano sinistra e l'orecchio, un vecchio zaino sulle spalle e la mia immagine che non mi rincuora, piuttosto mi spaventa.

Osservarsi per davvero è raro, è molto conveniente darsi alla superficialità quando ci si specchia. Ma io ora vedo un mostro ricoperto di correttore per il pallore e di matita per nascondere il baratro che c'è negli occhi.

Sta suonando la campanella e Jacopo sta parlando, abbassa il tono sempre di più e mi appare come se avesse voglia di mollarmi qui in mezzo al manicomio, ma -Devo andare.- gli attacchi il telefono nel mezzo del suo monologo fine a se stesso e trattengo le lacrime, correndo verso la classe.

Di sentimenti ne ho sempre capito poco. Di quello che ho nel baccano intimidatorio nella mia testa, ancora di meno. Quindi attribuisco al caso, alla necessità e, pertanto, all'insalubre egoismo, il mio scappare dalla confusione che mi persuade a ricercare i motivi. È recrudescenza per non averlo ascoltato ed impotente odio quando Tiziana, indossante un maglioncino rosso che le risalta il seno, per la prima volta in due anni che sono qui, mi saluta con cordialità e quasi vuole intraprendere con dialettica un parlottare.

-Ieri sono uscita con Jacopo.- penso mi dica, mentre mi siedo ed annuisco per inerzia, con lo zaino sulle gambe e la corsa di poco prima a martellare nelle tempie. -È davvero carino, grazie per avergli parlato di me.-

-Ma ti pare?-

-Lui dice che sei speciale, ho sbagliato a giudicarti, fino ad ora.- ha la voce delicata, gli occhiali sul naso e qualche lentiggine. Sorride e gioca con le dita sul banco verde. Tenta di mascherare l'interesse verso il ragazzo con cui è stato la sera prima.

Io la guardo, ho dell'odio -- io che non credo né in questo, né nel contrastante amore, a perforarmi l'anima destabilizzata e -E perché mai? Soltanto perché un ragazzo che vuoi te lo metta dentro lo dice, non vuol dire sia vero.-

Adesso è lei ad essere destabilizzata, mi percuote con ardore il notare che abbia toccato il cellulare e si sia imposto di non dimenticare (al massimo falsare) alcuna delle mie parole, mentre il sorriso finto le si trasforma in un'espressione stupita. Assottiglia gli occhi e stringe le mani in pugni, muovendosi inviperita -Non sono come te, non spero che qualunque essere vivente mi scopi.-

-Che peccato, perché io, in questo modo, piaccio tanto a Jacopo.- lo zaino cade sullo sporco pavimento e sono in piedi. Lei da un lato, io dall'altro. E ci stiamo gridando le intromissioni di due anni. -Stai alla larga da Jacopo, puttana, a me interessa seriamente.-

-Cos'è, stai perdendo i pezzi della santarellina?- rido, mi mantengo con enfasi la pancia e gioisco del suo starsi ammattendo graduale.

-Sei tu che hai sbottato !, volevo essere gentile.-

-Mi hai tenuta sulle palle per due anni soltanto perché sono io, Tiziana. Perché ero dannatamente estroversa e parlavo sempre. Puoi tornare a farlo --sebbene io mi sia zittita perché sono idiota, e . . Oh!, già che ci sei, fatti anche Jacopo.- e mi siedo. Credo --- anzi, sono certa, dica altro, ma non l'ascolto. Ignoro il suo sbizzarrirsi, i richiami di Roberto che vuole gli appunti di filosofia e la confusione durante l'assemblea.

Ora sono muta. 
Sono muta da quando mi hanno detto che non ero fatta bene.
Neppure ora sono fatta a modo.
E faccio silenzio.
Oh, che dolce suono il mio silenzio.

-------

Salgo in silenzio le scale di casa, arrovellandomi fra i miei stessi pensieri. I piedi, li trascino sui gradini di media altezza e cerco con le mani la ringhiera. Capita, una volta o due, che con l'andatura cedevole pensi di farla finita. Non c'è davvero una motivazione, ma ti ripeti che stai perdendo la pazienza e, dalla mattina alla sera, sbuca la voglia di abbatterti.

Prendo con scatto rapido le chiavi di casa dalla tasca laterale dello zaino, ma cadono a terra appena le afferro. Spalanco la bocca, mentre -Cosa ci fai qui?- mi chino per raccoglierle per il portachiavi di Los Angeles, che Andrea mi portò assieme all'accendino.

-Tu cosa credi?- scioglie l'aggrovigliarsi delle sue dita per il nervosismo e flette la gamba sinistra, per fare un passo. Io indietreggio.

-Ho da fare, oggi.- dico frenetica, avvicinandomi alla porta e facendogli segno di spostarsi, ma -Non me ne vado finché non mi parli.- e la porta viene ritirata con forza, le chiavi di nuovo a terra, tra i nostri piedi, e finalmente permetto che i nostri sguardi entrino in contatto.

Ha ancora la mano al pomello graffiato e, l'altra, la stringe in un pugno ferreo. -Hai pianto?-

-Ti ho detto che ho da fare.- sibilo.

-Non è così che voglio che mi parli.- il tono, adesso lo sta alzando innervosito e tiene salda la presa al pomello, come per temperare la rabbia che sta prendendo piede in lui.

Aggravo il peso sulla gamba destra, compro un po' di silenzio ed aspetto che lui distolga lo sguardo, che se ne vada rammaricato. E resta qui, si morde le labbra sottili ed aspetta che io faccia qualcosa. Continuo a tacergli le risposte.

Mi muovo per raccogliere le chiavi, fingo di non curarmi della sua presenza nel piccolo e scuro pianerottolo dalle mura rossa. Che è tardi, per non curarmene, lo so. Compro anche il silenzio della mia coscienza perché non mi torturi più di quanto già non lo stia facendo io.

-Celeste,- lo bisbiglia e si avvicina.

-Vattene.-

-Dimmi che c'è.-

-Non c'è niente.- è più vicino, ora.

Sospira, infastidito. Si passa sconcertato le mani fra i capelli e borbotta frasi tra sé e sé ; io sto qui, a giocare con i fili nelle tasche del mio giubbotto nero.

-Tiziana mi ha scritto quello che le hai detto.- getta le basi per un litigio ed io gliela do vinta, stanca di provarci.

Rido e -Ovviamente, te l'ha riportato.-

-Sei stata scortese con lei.-

-Non ti puoi permettere di stabilire cosa sia la scortesia. A lei hai dato della piccola viziata, ieri sera?- sto incastrando gli occhi ed indietreggia destabilizzato.

-È questo il problema?- è nuovamente vicino, quasi lo sento farsi due risate.

-Non c'è nessun problema.- alzo il tono, tiro fuori le mani dalle tasche e sono pronta per esplodere.

-Tiziana non è te,- rimarca.

-Hai ragione, sono l'unica piccola viziata che conosci.- assumo distacco, lo spingo per aprire la porta ed armeggio frettolosa con le chiavi, non trovando quella giusta.

Sento le lacrime che si arrogano di poter già recitare la loro parte e so di non poterle corrompere affinché non escano. Inclino il capo perché il volto sia coperto ed impreco sottovoce.

-Ti ha dato fastidio che sono uscito con lei?-

-Ma figurati.- lo percepisce, lui, il tono rotto.

-Lei non è te.-

-Puoi non ripeterlo, sai? Ho capito.- continuo a non guardarlo, ma sento le sue mani prendere le mie e la sua presenza si assomma alla mia, avvolgendomi in un caldo abbraccio che vivo appieno. 

-Nessuno è come te, Cele.- mi sussurra fra i capelli e mi stringe fra le braccia forti. Mi accoccolo fra il sapore dell'affetto e l'odore della speranza. Verso ugualmente le lacrime, ma è la felpa di Jacopo ad accoglierle nel piccolo e scuro pianerottolo.  

-Tutti mi lasciano, Jacopo. Nessuno mi vuole per quella che sono; o sono troppo puttana, o troppo me stessa. O sono ---

-Se ti ho chiesto di darmi un mese di te, Cele, è perché l'ho capito subito che sei fatta a modo tuo e sei bellissima fatta così.-

-Mia madre non mi ha voluta, mia zia è una povera disgraziata costretta ad addossarsi la nipote negligente e Claudia-- singhiozzo, prendendo fiato -e Lorenzo e chiunque mi sta accanto perché non ha alternativa. Non so fare niente e sono così strana e ---

-Sei Celeste e nessuno è come te.- so che sta sorridendo e mi stringe di più.

-Lo hai già detto.- ridacchio fra le lacrime amare.

-Sì, perché è così.- ride con me. Il silenzio non mi piace più, io e lui assieme è meglio.

-Non promettere, se non puoi.-

-Dammi un mese della tua vita, un mese di te, Ce'.- ripete e differenzia, allo stesso tempo, le parole e -Questo me lo hai detto un po' di tempo fa.-

-Mancano cinque giorni alla fine del mese.- sottolinea, io mi scanso. Tengo le mani nelle sue e gli occhi a viversi contemporaneamente, i respiri da casa momentanea. Lo Jacopo indisponente e pianificatore di rabbia si è trasformato in uno dubbioso del futuro e dalle gote meno rosse di prima.

-Da quanto?-

-Da oggi, ieri erano sei.- scoppio a ridere di nuovo. Scuoto la testa e gli faccio cenno di entrare in casa con me, mentre apro la porta e butto d'una via lo zaino all'interno.

-Poi mi dici perché sei stata così poco carina con Tiziana.-

-Io sono sempre poco carina.-

-Con lei più del solito.-

-Resti a pranzo qui?- per elargizione del fato, scanso la discussione con una deviazione piuttosto buona, ma ride mentre maneggio con le pentole per mettere l'acqua sul fuoco.

-Quello che c'è tra me e te non è fatto di Tiziana. Siamo io e te e, fidati, non penso di poterlo lasciare andare ora come ora.-

Fingo di non ascoltarlo e -Resti a pranzo qui?-

Lui si siede sul divano, poi si stende, ridendo -Certo.-

Ma io l'ho ascoltato e posso ammettermelo adesso che sto di spalle e sorrido ebete. -Nemmeno io.-

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