26
" -- Io non ti capisco, Lorenzo. Tu non vuoi essere felice. Non prevedi neanche la possibilità di provarci. Allora perché non ti rassegni? Vivi alla giornata e non rinunci alla cosa più cara che hai : pensare a te stesso come a un perdente. "
La mattina mi sta risuonando violenta nelle orecchie ed ho la vacua impressione che il mio rigirarmi fra le coperte stia solamente temporeggiando l'insulsa giornata che già prevedo.
Il mercoledì mi sta sempre scomodo e mi ritrovo a credere che per davvero ci sia quella piccola parte di persone che non detesta il lunedì, bensì un altro giorno, qualsiasi questo si appresti ad essere.
Emetto versacci con il viso contro il cuscino grigio esattamente come le coperte, mentre le gambe strisciano per inerzia verso il bordo del letto e cerco di sollevarmi dal materasso caldo e poggiare i piedi al freddo pavimento che mi attende. Così mi avvio verso l'armadio, passeggiando nel disordine che aleggia indisturbato in camera mia, per afferrare qualcosa da indossare anche stamattina.
Già la sento, io, mia zia, a muoversi frettolosa fra le cianfrusaglie di camera sua, con il fondotinta da spalmare sul volto in una mano e l'agenda in un altra, con un tacco sì, l'altro ancora da cercarsi, che si lamenta delle taglie in più che ha acquistato e di Barbara D'Urso.
Alzo la tapparella di camera mia e nemmeno ci faccio caso, in un primo momento, a Jacopo che sta preparando il suo zaino sulla scrivania di fronte alla finestra e che mi fa segno di muovermi, in quanto, ovviamente, sono in ritardo.
L'eleganza inebriante del dito medio che viene seguito dalle sue risate --- inutile dire che mi pare di sentirle che mi risuonano nelle orecchie fresche come sono, vispe, un po' spezzate e bramose di aver quel pizzico di allegria in più che, dice Jacopo, non guasta mai, ma che gli sembra non arrivi mai. Le risate le percepisco toccarmi, perché mi fa bene, sentirle, e lascio che mi accompagnino e mi ammetto che per ora mi va bene, insomma, che siano da contorno.
Inizialmente, come si ascolta spesso in giro, stanno lì, le tue follie, a farti sorridere. Poi ti staranno scomode e ti verrà da disperarti e cercare un dannato strizzacervelli, ma mi ricordo che non è il caso di pensarci da subito, che i fatti facciano il loro corso disinvolto.
Apro la porta di legno di camera mia con le varie borse appese ad essa che minacciano di cadere e c'è la voce di mia zia, ora, a ripetersi nella mia testa, -Un giorno soffocherai nel tuo disordine, Celeste !- ma come accade spesso, fingo semplicemente sia troppo lontano da qui perché me ne debba far una preoccupazione.
Mi trascino con la felpa ed il jeans, presi nell'armadio, fra le braccia ed i calzini, che non so che fine abbiano fatto, verso il bagno ed entro senza bussare.
Di questo dannato mercoledì mattina di certo non mi aspettavo di ritrovarmi zia che piange col culo appoggiato alla lavatrice bianca ed un giornale fra le mani, uno di quelli che raccontano storie di ogni tipo, di quelli che vendono l'agognata felicità che, guarda caso, vaga sempre nelle vite altrui. Quel laconico ricercare la felicità, in questi diciassette anni, talvolta mi ha avvilita ; prima, però, mi sono detta in quelle rare occasione, di farmi abbattere da un ideale miseramente descritto tra le pagine di qualche giornalista dalla discutibile serietà, avrei dovuto capire di cosa stessimo parlando.
Per il vecchietto che stava ogni sabato nel locale, quando ancora non era passato a miglior vita, felicità era far sedere me ed Andrea al tavolo con lui, davanti una bottiglia di liquore che pagava e di cui non usufruiva, semplicemente per raccontarci di quando a sette anni si ruppe una gamba e che fu il fratello a portarlo dalla suora del suo bel paesino che, ridendo ed asciugandogli le lacrime, lo aveva fatto visitare da un medico e, poi, a piedi, lo aveva riportato a casa ed aveva chiesto ai suoi genitori di non rimproverarlo perché aveva il cuore d'oro. Suor Gelsomina, ci diceva quel vecchietto paffuto e dagli occhiali rotondi di cui non ricordo mai il nome, si chiamava e per egli, starsene seduto a rivangare i bei andati tempi e venti, era felicità.
Per Andrea, felicità è ritrovarsi a parlare con la nonna o con i genitori del ragazzo che gli piace e non doversi vergognare per la sua sessualità. Di poter appendere il suo poster di Justin Bieber sul muro di camera e non doverselo tenere in silenzio nel cassetto perché pervaso dall'ebetudine di chi non comprende che essere se stessi non può divenire un male, piuttosto !, il contrario. Gli starebbe a pennello, racconta a Claudia quando pensa che entrambe stiamo dormendo in una delle nostre strambe serate insieme, che non debba più cambiare il nome al femminile quando scrive nel suo diario dei ragazzi che gli passano accanto e che lui fissa per ore, nonostante gli insulti, poiché la mamma non resiste e va a curiosare. Ragazzo d'oro, Andrea, non che ora vi c'entri, questo mio pensiero, ma mi viene solo da dirlo : ragazzo d'oro.
Per mia zia, felicità, è appoggiarsi alla lavatrice di mercoledì mattina con un tacco nero e l'altro rosso, la camicia ancora non abbottonata ed il trucco sbavato a leggere uno dei suoi articoli sulle donne che hanno trovato il proprio posto.
-Hai bisogno che me ne vada?- è piuttosto ambigua, la situazione, ma non c'è mai stato qualcosa che non lo fosse nella mia vita, perché altrimenti non sarebbe essa e non ci sarebbe esistenza e tutti, tutti !, vogliono esistere per qualche attimo (lo scrive spesso anche Baricco) ed allora fingo di non darci conto, in apparenza.
Scuote la testa, porta la mano con le unghie smaltate di rosso alla bocca e poi con il suo fazzolettino di stoffa si asciuga qualche lacrima. La finestra aperta sembra fatta apposta per far uscire l'angoscia che ogni tanto penetra questa forte donna e che per far andare via le sue malinconie si chiude nel cesso per non tormentare altri, -Tanto poi mi passa, cara.-
-Che è successo?-
-Si chiamava Donatella, la ragazza.- capisco si stia riferendo all'articolo ed allora le faccio cenno di continuare, muovendomi nella piccola stanza per abbassare il coperchio della tazza del water e cominciare a vestirmi, mentre lei trattiene i singhiozzi e batte il giornaletto un po' dappertutto per trovare un modo per farlo tacere. La conosco, so che quello che ha letto si sta percuotendo con se stesso all'interno della testolina che si ritrova. E lei, mezza vestita, si scaraventa nelle crisi che definisci premestruali.
-Lei abitava a Venezia, si svegliava tutte la mattine affacciandosi dalla finestra dalla quale ammirava tutta la sua fantastica città. Lei era cresciuta lì e voleva restarci.- già sono in piedi e mi sto allacciando il jeans e prevedo lei non sia nemmeno a metà del suo monologo sulla forza dei sentimenti. Allora, silenziosa, mi avvio verso il lavabo e mi do una mossa a lavarmi i denti. La sento che bisbiglia, per poi riprendere e -E lui Carmelo, era di Milano, una città grigia. Così grigia da far paura, Celeste, ma lei, Donatella, intendo, di Venezia e dell'amore, si è innamorata di quest'uomo della città grigia e spoglia.-
Sta sussurrando parole impastate e si ritrova annebbiata dall'autocommiserazione e da ciò che i giornalisti vendono.
-Sono una zia terribile, non riesco neppure a non annoiarti.- ed eccola, la scarsa autostima che questa donna maschera con falsa alterigia che riesce a mettere in scena alla perfezione. Si china leggermente, rinuncia alla bella postura che ha adattato alle mura che ha attizzato attorno a lei e unisce due dita agli angoli degli occhi, cosicché possa smettere di piangere, ma -Cosa dici, zia, continua.- la lascio sfogarsi, per una volta.
-E vedi, la città grigia gli ha portato il tumore, a lui, - (cara zia, potevi risparmiartelo quel a lui) -E lei ha accettato a seguirlo lì, abbandonando la sua Venezia magnifica, per curare il suo tumore e gli è stata accanto per tutte le chemio, preparandogli il caffè ogni mattina --- metteva su la macchinetta proprio in ospedale, Celeste !, e lui è stato meglio.- la felicità che le hanno messo davanti certamente è ricca di falsità e di uno sbiadirsi del conosciti ed amati al quale dovrebbero realmente mirare.
Ma zia sta piangendo ancora, nonostante abbia abbottonata la sua camicetta e abbia ritoccato il trucco, lei continua a piangere, a lamentarti e a ripetersi quante cose deve fare oggi.
Gli eroi che si alzano ogni mattina e si fanno un culo enorme per la famiglia sono passati di moda, ora vince chi fa per amore e basta, senza considerare che anche questo qui sia amore. L'adulazione dell'accrescimento di questi miti esilaranti mi fa ammattire e mi ritrovo con la foto di Donatella e Carmelo fra le mani, mentre zia mi passa la merenda per la mattina e quando sto uscendo di casa e salutando Andrea mi chiedo se Donatella sia felice.
Però, insomma, nella foto sorrideva.
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-Stai studiando?- per telefono la voce di questo ragazzo risulta più ovattata, meno spezzata di quanto appaia se lo guardi proprio lì, negli occhi scuri andati a male.
Sospiro per conferma, provando ad imparare questo passo di letteratura che sembra non voglia entrare in testa neanche oggi. Prendo appunti, ne ho sempre presi, mi piace farlo in maniera disordinata. Non bisogna capirci molto quando si prendono appunti, in fondo, non sono parole tue !, punzecchi quello che hanno detto altri, non servono altarini per quello che già c'è, che mi preoccupi, qualche volta, di risaltare quello che faccio io. Ma siamo macchine programmate per l'autodistruzione dopo un susseguirsi di un ego dissoluto e incoraggiante che funge da ricovero per una mente finita e probabilmente in cerca di complimenti da chi non ne avrà mai.
-Hai tanto da studiare?- la pone che già quel che vuole per risposta, questa domanda, Jacopo e sospiro un'altra volta, lanciando un'occhiata fredda e rapida ai libri di inglese e matematica che sembrano implorarmi di dar loro un po' di attenzione. Pensi solamente alle tue lingue morte, Ce'. , sembra mi dicano e mi ricordo di aver bisogno di uno strizzacervelli.
-Dipende da ciò che vuoi fare.-
-Chi ti ha detto che voglio fare qualcosa?- ironia palese, ma non rido perché smascherarlo con poco non è propriamente divertente, quindi lascio scivolare dalle dita la matita che rotola sul tavolo della cucina ed indietreggio con la sedia, che cigola al tocco vispo col pavimento, e guardo velocemente l'orologio, notando che non è molto tardi.
-Se potessi essere lì, ti guarderei trastullarti quei tuoi poveri pollici ed arrossire perché ti ho appena beccato, quindi spara, coglioncello.-
-Parli troppo come Pennac, mi irriti.-
-Addirittura, conosci Pennac, sconvolgente ed ottimo al medesimo tempo, Jacopo.- sorrido nelle mie stesse parole e lascio le parole adagiarsi sul palato spontanee e ricche di voglia di starlo a sentire mentre fantastica su qualsiasi cosa desideri prima che butti fuori il reale motivo per cui ha fatto squillare il mio cellulare.
-...-
-...-
-Vuoi venire da me, dopo?- mi strozzo quasi con la mia stessa saliva ed impallidisco. Da lui, vuol dire dall'altra parte della finestra, dove si rifugia quando il mondo gli pesa eccessivo sulle spalle e dove non fa entrare neppure Stefano, lo dice sempre, perché -È posto mio, Celeste.-
-Quando?-
-Dopo cena, vorrei fare una cosa, ma non sono capace. Ho bisogno della tua attenzione alle asimmetrie.- stridono le parole nel suo tono ovattato, si starà dondolando sui talloni ed avrà tolto i guanti, dice che li porta sempre, ma non in camera sua. Sento l'incertezza della proposta del ragazzo toccarmi con propria insistenza e giustizia, fatta a proporzione per buttare giù la figura di Jacopo.
-Mi sfrutti.- so che ha bisogno che io alleggerisca il tutto, ora, qui, che io e lui siamo fatti in questo modo e va bene così, altrimenti non saremmo noi.
-Sì, esatto.- sta ridendo, io con lui. -Vieni?-
-Sì-
-Mica devi studiare tanto?, intendo faremo un altro giorno.-
-No, no, ce la farò.-
-Sicura?-
-Ce la farò, coglioncello.- e premetto che qualche settimana fa, io, Jacopo, non lo conoscevo mica, ma ora, seduta su una sedia che cigola nella scura cucina di casa con il lampadario a farmi scarsa luce, so che sta sorridendo. Io con lui.
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-Che hai detto a tua zia?- mi fa entrare dalla finestra e le mie orecchie assorbono, ma la mia concentrazione è tutta al luogo che ho davanti agli occhi e che, cheto e leggero, si addentra nella mia curiosità, sfaldando tutte le priorità che mi sono imposta di mantenere.
-Che venivo qui, cosa le dovevo dire?-
-E le è andato bene?-
-Certo, ti ha conosciuto, Jacopo.- mi fa cenno di sedermi sul letto che si trova subito dopo la scrivania. È piccola la camera, rispetto alla mia. Sarà una metà ed è stretta e lunga, con un armadio di legno chiaro proprio affianco alla porta e dall'altro lato c'è un altro letto, senza coperte, però, ed altrettanta scrivania ed armadio.
-Potrebbe arrivare un ragazzo, un giorno.- risponde quando gli rivolgo un mezzo sguardo incuriosito. Mi volto spregiudicata e vivo attentamente ogni dettaglio, dalle pareti di un acceso blu ai poster dei suoi Linkin Park sulle pareti. Ha una serie di libri su delle mensole appese alla parete più stretta della camera, corrispondente al suo lato di stanza. Sulla scrivania ci sono diversi libri sulla vita e le opere di Van Gog e del Brunelleschi, di Michelangelo, di Donatello e, ciò che più mi impressiona, Frida Kahlo.
-Frida?- domando, afferrando il volume spesso e dalla copertina viola dalla scrivania dagli angoli smussati.
-Un genio che non tutti hanno realmente compreso. Mi sembra la idolatrino tanto perché sarebbe sconveniente, altrimenti.- e proprio mentre mi risponde, lo vedo che con le mani coperte dai suoi guanti (avrà fatto uno strappo alla sua solita regola e mi intristisco più di quanto sia prassi) nasconde il blocchetto scuro che da giorni non lo notavo tenere più tra le mani.
-La smetteresti di adulare camera mia, non ti sposa mica, sa'.- propone del fasullo sarcasmo ed io sforzo un sorriso, muovendomi imbarazzata, e tracciando con le mani il tessuto dei miei jeans e ficcanasando col mento dentro il colletto della mia felpa.
-Hai finito di studiare?-
Mi innervosisco poiché so che ha capito che sto fissando -Uhm, certo.-
Scuote la testa, osservandomi divertito, mentre scava nel cassetto della sua scrivania e tira fuori una scatola dei giocattoli lego, posandomela davanti.
-E cosa devo farci?-
-C'è un mio amico, Lello, che non sa montare questa stazione ed ha chiesto aiuto a me. Ma sono un inetto, ti prego, aiutami.- rido, lui con me. Prendo fra i palmi la scatola della stazione di polizia e frugo fra l'età di riferimento, ma -Sì, ha cinque anni. Stefano ha sbagliato a leggere --- sai, ti ci troveresti bene con Stefano, anche lui non si decide a mettere degli occhiali. Dicevo, Stefano voleva fargli un regalo perché la maestra ha detto che ha fatto dei progressi con la dislessia, ma ha preso qualcosa che non riuscirà mai a montare.-
-Sei logorroico, Jacopo.- mimo con la mano la parlantina del ragazzo e mi regala un mezzo inchino con tanto di dito medio, così ridacchio.
-Forza, montiamo questa stazione.-
-Sei sicura di farcela?-
-Quanto può essere difficile?- mi guarda soddisfatto quando, aprendo la scatola, mi trovo davanti ad un'infinita di pezzetti da unire fra loro racchiusi in tantissime buste trasparenti con un libretto delle istruzioni che pesa a primo impatto.
Ride, anzi, implode dalle risate ai miei primissimi tentativi di impaccio con la costruzioni e termino per minacciarlo di lasciarlo, letteralmente e gergalmente, col culo nell'acqua.
-Hai detto culo?-
-Ho balbettato?-
-Sei spumeggiante, oggi.- lo ignoro, prendendo a montare pezzo dopo pezzo (direi, con più appropriato lessico, pezzettino dopo pezzettino) la sede centrale della costruzione che deve venir fuori. Lo prego di smetterla quando minaccia di buttarla giù e si fa altre quattro risate, poi ritorna serio, che io ho quasi finito, e mi fa domande strane.
-Qual è il tuo artista preferito?-
-So che per artista comunemente si intende un pittore o uno scultore, raramente un architetto, ma anche gli scrittori sono artisti, quindi ti risponderò Leopardi.-
-Sei una di quelle persone?-
-Se parli del mai na goia leopardiano che tutti gli attribuiscono, ti dico di no. Se ci riferiamo al giusto pessimismo che bisogna per davvero attribuirgli --- perdona la ripetizione, allora sì. Sono una ragazza altamente contagiata dal pessimismo leopardiano.-
-Sembri star parlando con un professore,-
-Non c'è motivo di sminuire l'arte se siamo io e te, a parlarne. Siamo io e te, e okay, solitamente ridiamo assieme, ma possiamo anche discutere di Leopardi o Frida Kahlo, nessuno può condannarcelo.- sto attenta a mettere per bene insieme i pezzi del tetto, ma giurerei di sentirlo bruciarmi con lo sguardi, attento a fermare quest'inettitudine che pare compormi come una fotografia nella sua testa ed afferra alcuni pezzetti, girando un'altra pagina per capire cosa montare.
-Cosa ti piace fare quando sei sola?-
-Perché queste domande?- adesso lo sto guardando e sto lasciando trasparire un dolce sorriso sulle mia labbra alla vista di lui con la lingua da fuori che tenta di montare una finestra senza accorgersi che l'aggancio è al contrario.
Avvicino le mani alle sue e gli faccio capire che lo sta facendo nel modo sbagliato ed arrossisce, insicuro, guardandomi bislacco. Non mi ha mai guardata con questo sguardo, Jacopo, di certo con lo conosco.
Siamo vicini, ora, e -Guardaci, a parlare di arte e
a montare robe della lego.- ghigna e scuote il capo, divertito. Sorrido ancora, ritraendo le mani.
-Se qualcuno ci vedesse, sicuramente direbbe --
Non mi lascia finire, che annulla un po' di più la distanza fra di noi -Che il mondo è pieno di pazzi, spiritati, andati. Siamo fottuti, Celeste.-
Non so cosa stia succedendo, so che ci stiamo guardando ed imbambolata, io, gli sto stringendo le mani nelle mie mani e sento solo che ho ritrovato il suono del mio cuore, proprio stando qui a stringergli l'esistenza con la mia.
-Jacopo ! Hai finito la mia stazione?- un bambino dall'altezza media ed i capelli di un biondo grano fa il suo ingresso indisturbato in camera e si tiene appeso alla porta con la mano destra e spalanca gli occhi quando mi nota, avvinghiata al suo amico in ginocchio, per terra.
Gli occhi che ho l'impressione siano verdi si illuminano e, acceso come quando è entrato, scappa via e lo sentiamo solamente urlare -Stefano !, Alessia !, Jacopo si è trovato la fidanzata. Jacopo ha la fidanzata, sta in camera !-
-Oh cazzo,- lo esclamo e lui mi segue a ruota libera, mentre ci affrettiamo ad alzarci e a prendere le dovute distanze.
Il bimbo torna a correre nel corridoio e riprende -Carola !, Silvestro !, Jasmine, Ginnie, Carlo e anche tu, Sara !, Jacopo ha la fidanzata e si stavano -- sta in camera con noi e Jacopo gli posa una mano davanti alla bocca prima che sia troppo tardi e lui continua a fissarmi peperino e con l'ambiguo bagliore negli occhi.
Un uomo di una certa età, probabilmente Stefano, si avvicina alla camera e mi squadra, subito dopo aver guardato Jacopo, da capo a piedi e mi sorride con i denti ingialliti che, contrariamente a ciò che si possa pensare sentendoselo dire, gli donano un'aria fatta a misura per lui, con i capelli brizzolati e la figura di un gigante buono.
-No, io, me ne stavo andando. Perdonate.- mi affretto a prendere il giubbotto e il ragazzo dagli occhi color cacca di cane mi osserva muovermi imbarazzata e travolta dalla vergogna ed anche mentre mi rivesto per uscire dalla finestra, ma -Forse è meglio che questa volta vada via dalla porta.- ridacchio, altri bambini, alcuni più grandi di Lello, una, dai capelli rossi, sembra anche più piccola. Non so perché, ma deduco sia Ginnie.
-Mi dispiace per l'inconveniente, buona serata.- sorrido a Jacopo e all'uomo che ride fra sé e sé e mi fa cenno di star tranquilla e di fermarmi, dopo che ho superato la porta.
-Sei la nipote di Maddalena?-
Annuisco, i bambini mi fissano esattamente come Lello e mi sento notevolmente a disagio ; lancio, per far fette un po' di tensione, un'occhiata all'orologio e -Davvero, non volevo disturbare. Vado a casa, grazie per tutto. Buonanotte.-
-Sei bella come dice spesso Jacopo.- e lui, ovviamente, tappa di nuovo la bocca a Lello, mimando che stia dicendo stronzate.
Sorrido ancora e, inciampando ancora, sono fuori di casa con Stefano che, alla porta, mi dice di tornare quando ho voglia.
E, mentre sto percorrendo le scale, mi dico che, come se la figura imbarazzante non fosse abbastanza, devo anche finire di studiare.
N/A: ultima canzone ascoltata?
Il sentiero dei nidi di ragno.
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