21
"If all goes wrong, Darling just hold on."
-Vuoi andare in un posto?- non gli basta mica esserci visti due sere prima per andare a fare la spesa e la seguente cena che zia aveva voglia di conoscerlo per davvero.
Jacopo, ora, di sabato pomeriggio, appellandosi al fatto che domani non c'è scuola, mi sta tenendo al telefono con l'assurda briga di portarmi da qualche parte.
-È la quinta volta che mi telefoni in sette minuti, stronzo, cosa ti fa pensare che io ne abbia improvvisamente voglia?- sputo al cellulare, rigirandomi fra le coperte del mio morbido letto in cerca di tranquillità che, a quanto pare, non posso avere.
-Andiamo, sarà divertente.- lo sento che sta cercando di auto convincersi, ma in realtà sta solo divagando perché non ha idea di dove diavolo portarmi, né come.
-Ti stavi annoiando?- sbotto, posando, ancora con gli occhi chiusi, il cuscino sulla testa e -No, non necessariamente.- si starà passando una mano tra i capelli, innervosito, che non sa cosa dire. Ma questo Jacopo mi piace di più, quello vero, non egoisticamente vestito di falsi propositi. Questo Jacopo qui è capace di farti sentire a casa nell'inettitudine dei fatti e non diresti mai che è con la sua solita nonchalance che lo sta facendo.
Zia, due sere fa, ha dialogato con lui su quanto la sua vita fosse diversa alla casa famiglia e -No, non per invadenza. Se non vuoi, posso capirti.-
Lui si è massaggiato fra loro le braccia, stringendosi nelle sue inconsce paure perché Jacopo non sa raccontarsi, senza avere paura del giudizio altrui.
So poche cose di questo ragazzo che in circa quindici giorni mi ha buttato in faccia un'amicizia completamente campata in aria, senza che ci siano solide fondamenta alla base. Sta ferma, sospesa, che se ce l'avessi di faccia, così, all'improvviso, bestemmieresti su quanto questa possa cadere e travolgere un po' tutto.
-Volevo un pretesto per parlarti,- e poi, ci sono le cacciate che ogni tanto fa e tu non sai quanto serio sia in realtà. Parla, si affoga di parole e gesticola, solo perché vorrebbe dirti qualcosa e ci sta girando intorno.
Jacopo, la razionalità, ce l'ha tutta corrotta. Jacopo non sa come distinguerla dalle paure che indossa come se fossero il suo cappello col ponpon, la sfrutta come scusa per ogni discorso interrotto prima che potesse finire e tutte le sue apologie da credente e non praticante.
Poi, -Che c'è?-
-Hai mai fatto pipì nella doccia?- ora sì che apro gli occhi sconcertata e percepisco le risate ancora assonnate farsi spazio nella gola, senza un vero motivo.
Perché Jacopo è -- e no, no che non lo conosco. Poiché ha così tante sfaccettature che ha la voglia di darsi, raccontarsi ad infilarsi nelle sue viscere, ma è abbastanza codardo da farsi corrodere senza annunciarsi per davvero.
-Che razze di domande fai alle tre del pomeriggio?- rido al telefono, sollevandomi a sedere, mentre lui deve starsi struggendo le mani fra di loro, non consapevole di quel che ha da dirmi.
-L'hai fatta o no?-
-Ovviamente, chi non ha mai fatto pipì nella doccia, Jacopo?- porto la mano sinistra, con ancora l'anello di ieri all'anulare, davanti alla bocca, solo perché sono presa dalla spontaneità dei fatti.
-Tu sei senza freni inibitori, oh! Ma lo sai che non è igienico?-
-Perché, tu non hai mai pisciato nella tua cavolo di doccia?- sto ancora ridendo e non capisco dove il discorso voglia andare seriamente a parare.
-Intendo, non è igienico.- ha il tono esitante, sta covando qualcosa che proprio non ha la forza di buttare fuori.
-Sì, ma se sei sotto la doccia è consono che ti venga da fare pipì e la fai in quel posto, dove ti trovi, cioè,- lo sento leggermente assente dalla conversazione, quindi -Ehi! Non mi stai ascoltando!, sto dicendo--
-Mi insegni ad andare in bici?- ora percepisco il tono di quel ragazzo con le lentiggini serio, che ha davvero la voglia di pronunciare ciò che sta dicendo e non solo per temporeggiare. C'ha l'arte del divagare nelle vene che è abbastanza frivola, ma da lui.
Non gliele faccio, io, le domande, dico solo -Fatti trovare giù fra un quarto d'ora, coglioncello.- so che sta sorridendo e mi va meglio di tutte le spiegazioni montate fra loro di impatto che potrebbe offrirmi.
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-L'importante è l'equilibrio.- dico, tenendo salda la presa sul manubrio nero della bici che Angela mi regalò, cosicché possa sentirsi maggiormente sicuro.
Lui, con la felpa nera e larga, i pantaloni di tuta larghi ed i capelli disordinati a decorargli il volto un po' spaventato.
-Non è difficile, ti do una mano.-
-È facile per te, dirlo. Io non ho idea di come si faccia.- solamente che nessuno ha mai voluto insegnarglielo, quando lui ne parlava, mi ha ammesso e che poi, la forza di parlarne, non ce l'ha avuta più. Si è ben stretto il palmo sinistro a sé, quando lo diceva, ma non gli avrei chiesto altro, lo sapeva.
Stringe le mani al manubrio e posa i piedi sui pedali, provando a stare in equilibrio, riappoggiando, subito dopo, le piante dei piedi a terra.
Nel vialetto davanti casa, con l'erba che esce dal cemento, sto insegnando ad un ragazzo per due mesi più piccolo di me ad andare in bici, nonostante le occhiate di chi passa e di mia zia che sta sorridendo dalla finestra della cucina.
-Dai, riprovaci.- gli dico, spostandomi davanti alla bici, indietreggiando ai pochi passi con cui si sposta, rifermandosi appena senza che l'equilibrio sta cedendo.
Annuisce, stringe, ancora, in maniera salda il manubrio e riprende a pedalare. Si muove un po' di più, ma percepisce che è precario e si ferma.
Chiude gli occhi e respira profondamente, prima di annuire nuovamente e di riprendere, seppur inutilmente a pedalare, ma -Non sono capace,- fa per lasciare la presa ed afferro le sue mani, facendo sì che mi guardi.
-Invece sì.- so che cerca quella sicurezza trasparente che in realtà possiede, ed è tanto sottile e pura che nemmeno si accorge di averla fra le dita sottili e lunghe. Tocco col mio palmo la sua mano sinistra, si sposta, ma non glielo permetto e la stringo, non interrompendo il contatto visivo.
Gli occhi color cacca di cane riflettono la sua richiesta di non lasciarlo lì, come se fosse incapace.
Poi, sorride. Non è forzato, trattiene fra le gambe la bici e si risiede, per riprovare.
-Dai, Jacopo, fai come prima.- e così passa un'ora, con lui che teme e si ferma, con lui che si blocca e pensa di non essere in grado.
Stiamo provando ancora una volta poco più lontani dalla posizione iniziale e sento ciò che viene detto, anche lui e sento che ha voglia di gettare a terra la dannata bici, ma non lo fa e non capisco.
-Mamma, ma quel ragazzo non sa andare in bicicletta?- avrà poco più di cinque o sei anni il bambino che ha rivolto le parole alla madre e lei, da brava donna, nemmeno lo sgrida, lo accompagna con delle risate che se non fossi occupata a trattenere con le mani la bici mollata qui da Jacopo, preso dal fuggire, le direi di andarsene a 'fanculo.
Perché se la vita fosse bella, ma non lo è, o, semplicemente facile, io ora me ne starei pronta a casa per andare a lavorare e non avrei chiamato Renato per far finta di non sentirmi bene, ma È una femmina, cazzo ! e se l'è bevuta, senza che nemmeno capisse cosa gli avessi detto.
Se la vita fosse gradevole, io, ora, già sarei tornata a casa con del latte caldo fra le mani, ridendo con un amico dell'accaduto.
Ma, invece, sto girovagando per i probabili viali che può aver imboccato correndo, mancando di esito positivo nella ricerca.
Non ho riposto la bici nel garage, non sono stata attenta ad avvertire zia, ho solo preso ad inseguirlo che non ce la faceva; la vita, infatti, non è gradevole e tutto, a volte, sembra sbagliato anche senza che qualcosa di brutto sia necessariamente accaduto.
Continuo a camminare, stringendomi infreddolita nella mia felpa, le maniche allungate a coprirmi le mani e i capelli sciolti e mossi sulle spalle, e mi affaccio in ogni vicolo, poi -Che idiota,- faccio retromarcia e raggiungo correndo il parchetto poco lontano dai nostri palazzi, scommettendo con me stessa il cappello che sia lì, il ragazzo dalle lentiggini che mi ha catturata a modo suo.
Imbocco l'entrata, riprendendo fiato, avrò le guance rosse per la corsa, e mi sporgo con la testa, alzandomi sulle punte, per cercarlo fra le varie giostre abbandonate.
Chiudo gli occhi, facendo qualche passo con le vans sporche e il suono cigolante di un dondolo si fa spazio nelle mie orecchie; rimarco un sorriso rassicurato mentre seguo il rumore, ritrovandomelo a dondolarsi su quella giostra tutta rotta.
Faccio passi piccoli, ancora col fiato da riprendersi, e di spalle, gli poso le mani sulle spalle, e, non so esattamente per quale motivo, mi spingo fino ad abbracciarlo: la bocca nell'incavo del suo collo, la sua posizione stante, infastidita, inizialmente, i miei capelli a solleticargli il viso e percepisco le sue mani andare a stringere le mie, in un sospiro confortato.
Restiamo fermi che posso ascoltare quel suo stupido cuore battere al ritmo incessante del mio, stretti in un sorriso e nella frequenza degli sbagli che ci permettono di notare quanto siamo soli, per la nostra età.
Non avremmo bisogno di chiedere aiuto ad un Dio o a quant'altro per andare avanti, per non buttarsi giù quando si passa su un ponte, se per primi non avessimo la netta sensazione di solitudine a dominarci l'organismo.
Ma tutti, adolescenti o anziani, perché una volta che la storia è andata, fatta, finita, cos'è che si fa?
-Mia mamma andava sempre in bici, ma non ha avuto la forza di insegnarmelo.- sussurra, silenzioso, attirandomi più in avanti, fino a farmi sedere dinanzi a lui, che ancora stringe le nostre mani assieme, in un ardito fremito di necessità di presenza, di uno sguardo. Di qualche ora da passare insieme in una giornata, ma solo insieme, per poi averne qualche altra per ricordare, troppo profanati dagli eventi.
Lo fisso, incastro le iridi ed è come se volesse rubarsele, le mie, tanta l'intensità dei suoi occhi sprofondati in un'angoscia fatta per chi vive quel dolore.
In questo modo, noto la tristezza. Macchina audace che fa sì che le venga dato il buongiorno, quando arriva. Macchina che si pavoneggia fra i lineamenti spossati di un solo umano, uno solo e basta, convinto di avere abbastanza cicatrici da poterle collezionare.
La tristezza che ha volto quando c'è quella smorfia di dolore strambo, che non vedi spesso sulle persone. Tristezza, ho avuto maniera spesso di averci a che fare, tornando a casa e dando un'occhiata alle panchine abitate. Tristezza è ora, non dopo, non pensandoci, è quando passa come un treno in tutta corsa e ti travolge, senza farti morire, solo soffocandoti, cosicché dirai : è la Tristezza.
Tristezza è quando, come adesso, ripensandoci ti verranno gli occhi di vetro pari ad un bambino che avverte il mondo per la prima volta, quello essere spaesato e dire : questa è la mia tristezza !, perché ve ne sono tante, taluna proporzionata a quell'inetto che vive standosene alle condizioni altrui, un'altra che, qualche volta, si ferma davanti ad un povero uomo e dice Sono la tristezza, facciamo sì che diventiamo vecchi amici, io e te.
Ed ora, Jacopo, c'ha fra le mani, nelle viscere, sul volto, la sua, di tristezza e vorrebbe buttarne fuori un po' perché non indugia, essa, a perforare le vene, i polmoni, a stare parassita in un corpo col senso di nausea a far da padrone.
-Lei mi voleva bene, se ne è andata solo troppo presto.- sussurra nuovamente, stringendomi le mani con forza e paura, mentre le labbra si muovono -Ero troppo piccolo per capirlo, ma se n'è andata. Non è che ha scelto di non averci più a che fare con me, se n'è, . . . Ecco, sí, se n'è andata che sembrava addormentata.-
-Come si chiamava?- oso, lui annuisce.
-Clara, si chiamava Clara.-
-E lui?- sa perfettamente a chi mi sto riferendo, sa pure che se lo necessitasse, ci alzeremmo seduta stante ed andremmo a discutere sul miglior gusto di gelato in un negozio. Ma, altrettanto, spero scacci qualche nota della tristezza.
-Lui si chiama Giuseppe.- lo sputa quasi questo nome e -E lui era la rovina di mia madre. Lui non la rispettava, non aveva nemmeno i soldi per curarla. E di mia sorella. Sì.- tiene salde le mie mani, come a bloccarmi la circolazione, che digrigna i denti, travolto dalla rabbia -E non cercava un lavoro, no!, no che non lo cercava. Andava a giocarsi la vita da alcolizzato alle macchinette e tornava a casa, la picchiava, lui, esattamente così, e poi. .- ora sento e so che non ha la forza di continuare, so che doveva gettare queste parole, affogarsi di essere da parecchio tempo; so diverse cose che al col tempo risultano nulle, ma lo blocco, sollevandomi e stringendolo a me.
Le sue mani alla base della mia schiena, il suo capo a premere fremente sul mio ventre. I miei palmi che afferrano in pugni il suo cappuccio e lo lascio piangere leggermente, -Il libro che finisce, non ce la fai a non leggerlo più, Jacopo. Proprio come la tua storia, tu la vivrai all'infinito finché non sarà l'ora di andarsene e di sperare di brillare in cielo. E tua mamma sarà lì, lì a sperare che l'allocco- lo ascolto ridere, beandomene - che aveva per figlio vinca quel tutto sbagliato, perché, insomma, bisogna andare avanti.-
-Potrai odiarmi, dopo tutto questo casino.-
-Penso che resterò qui.-
-Non te ne vai, quindi?-
-Ho in programma di romperti il cazzo ancora per un po'.-
Mi blocco, prendo un respiro e scelgo di sganciare la bomba: sarà colpa mia. -E tua sorella?-
-Giorgia è scappata di casa quando io avevo appena dodici anni. Lei ne aveva venti e non si è badata di altro. Una mattina, in preda alla rabbia, si è alzata e: io vi odio.- tira su col naso, giocando con le maniche della felpa eccessivamente lunghe. Tiene gli occhi bassi.
-Non l'hai più sentita?-
-L'ho sentita dire soltanto America. Né una parola in più, né una in meno.- risponde piatto. Dovrei fermarmi, certo, ma spingo la mia curiosità ancora un passetto avanti, scrutandolo attentamente ben devoto alla vena afflitta.
-E ti manca?-
-Prima, enormemente. Ma lei era come mio padre: sprucida ed egoista. Le volevo bene, ovvio, ma non sono riuscito ad alimentare quest'affetto ed adesso mi appare quasi indifferente il suo ricordo.-
Sorride sul tessuto che mi copre, attirandomi più vicino che può ed io gli accarezzo i capelli, coccolando la sua tristezza. Non ho la minimale idea delle sensazioni devastanti che penetrano questo ragazzo, né delle sue esperienze o di quel che possa aver provato. Perviene un mistero. Un mistero incredibilmente ricco di bontà. Quindi ascolto il dolce frastuono del suo silenzio, permettendogli di sentirsi voluto.
-Quando va tutto storto, quindi, devo andare avanti?- interrompe, dopo un po', il climax intimo e nocivo.
-Sì, semplicemente vai avanti.- e lo stringo ancora di più.
N/A: questo capitolo è senza un dannato senso, ma pazienza. Ora nasce la vera storia, Jacopo si è fidato abbastanza di Celeste da raccontare una piccola fetta di sé e a chiederle, addirittura, di aiutarlo ad imparare. E' molto importante per la storia, anche se fa cagare, okay.
scusate, non aggiornavo da un po' e boh triplo aggiornamento YEAH
Vi va se Jon Sudano diventa il nostro per sempre?
STAY STRON AND LISTEN JON SUDANO
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