Non volevo
Riccardo
Mi domando come abbia fatto, come abbia potuto investire lei. Alexandria.
Ero ubriaco. Credo. Avevo ingerito anche qualche pasticca, presa tra gli anti-depressivi di mia madre, imbottita di medicinali non se ne sarebbe neanche accorta.
Non ero in me, non ricordo neanche dove cavolo ho trovato la forza di mettermici in quella maledetta macchina, ma l'ho fatto e ho guidato e guidato senza neanche vederla la strada e poi è stato un attimo. Li ho visti e avevano quel sorriso che io non ho mai avuto e mai avrò. Li ho visti ed erano felici, mentre io volevo solo scomparire una volta per tutte. Li ho visti e ho osservato l'amore che io non ho mai conosciuto sui loro volti. Li ho visti ed una rabbia per quello che loro avevano ed io non ho mai avuto si è impadronita di me. E non volevo, non volevo farle del male. Io non volevo. Non ero in me, non lo sono mai stato. Volevo solo gridare e scappare lontano, così puntai il piede sull'acceleratore, ma avevo gli occhi pesanti, la vista appannata, le mani che tremavano, il cuore in gola, la testa che mi stava scoppiando ed è stato un attimo. Un solo attimo e la macchina non era più sulla strada, si era fermata. Non sentii nulla, solo una voce che gridava. Non avevo forze, ma uscii lo stesso dalla macchina quasi strisciando, tentai di alzarmi e ci riuscii a stento, mi ressi con un braccio sulla macchina e barcollando cercai di raggiungere le urla che sentivo. Furono pochi passi e poi la vidi. Alexandria era stesa a terra, non si muoveva e Matteo era accanto a lei che la chiamava, ma lei non rispondeva. Lei non poteva rispondere ed era colpa mia, io le ero andato addosso con la macchina, l'avevo investita. Ma non volevo, non volevo farlo. Io volevo solo andare via, lontano, a spegnere da solo questa mia vita senza senso. Non volevo toglierla a lei, non volevo. Non mi ero accorto che la macchina aveva sbandato, non volevo andarle contro, non volevo. Volevo solo chiudere gli occhi e basta.
Sono stato tante cose nella mia breve e schifosa vita ma questo no. Io non volevo essere un assassino. Ma su quella strada è quello che mi sono sentito di essere. Un assassino.
Alexandria sembrava morta e lo avevo provocato io. Ma io non ero quello. Io non lo ero. Io odiavo la mia vita, l'avevo sempre fatto e tante volte ho pensato che avrei fatto un favore a tutti togliendomi dai piedi, ma non avrei mai tolto la vita ad altri. Io non ero quello. Non lo ero.
Non so cosa ero, non l'ho mai saputo davvero.
Quando ero piccolo ero un bambino, ma è durato poco, perché mio padre ha deciso troppo presto di abbandonare me e mia madre. Credo non ci sopportasse più o forse non l'aveva mai fatto. D'altronde lui aveva sposato mia madre solo per interesse e aveva avuto una gran fortuna, lei veniva da una ricca famiglia di imprenditori, avevano una catena di ristoranti diffusi in Italia e all'estero, mentre mio padre invece era solo uno spiantato senza prospettive. Mia madre è stata la sua svolta, ma il loro matrimonio è sempre stato una farsa, lui l'aveva tradita tante di quelle volte che non si contavano e lei credo lo abbia sempre saputo, ma lo ha sempre lasciato fare, non aveva il coraggio di mollarlo e iniziò a bere e a bere.
Nessuno dei due stava mai con me, ero lasciato alle cure della cameriera. Non so cosa vuol dire l'amore di un padre e di una madre. Non l'ho mai provato. Nessuno di loro veniva la sera a spegnermi la luce, non mi avevano mai portato a scuola, non erano mai venuti alle mie recite, alle partite di calcetto. Avevo troppi giochi e nessuno con cui usarli.
Un giorno mio padre uscì e non tornò più e mia madre iniziò a prendere gli anti-depressivi. Tante volte l'avevo trovata svenuta in bagno o in salotto, le avevo tenuto i capelli mentre vomitava e avevo ascoltato le sue parole ripetermi che era tutta colpa dello stronzo di mio padre se si era ridotta così.
E poi c'era mio nonno, lui venne a stare da noi dopo che papà andò via e ogni volta a cena ripeteva sempre che non avrebbe permesso che io facessi la fine di mio padre e mia madre. Ma da quel giorno le cose andarono sempre peggio, ogni brutto voto a scuola era una punizione, ogni partita giocata male un rimprovero. Io non potevo sbagliare, io dovevo essere come lui. Perfetto. Io avrei dovuto essere a capo del suo impero e ad ogni sbaglio mi ripeteva sempre che ero uno sbandato, un senza speranze come mio padre.
Un giorno però alle elementari conobbi Matteo e da allora non fui più solo, avevo trovato un amico. Passavamo tutto il tempo insieme e iniziai ad andare sempre più spesso a casa sua e fu lì che capii per la prima volta che cosa significava avere una famiglia e loro sono sempre stati comprensivi con me. Matteo poi quando veniva a trovarmi a casa non diceva mai nulla, ogni volta che vedeva mia madre dare di matto non ha mai giudicato. Insieme facevamo degli scherzi alle cameriere ed al nonno. Gli rubavamo i sigari che teneva nello studio e poi facevamo finta di nulla andando in giardino a giocare a calcetto. Era così divertente poi ascoltare le urla del nonno che puntualmente sgridava le cameriere, convinto fossero state loro a buttarli o rubarli i suoi "preziosi" sigari.
Io e Matteo eravamo inseparabili, ma crescendo le cose sono cambiate.
Io agli occhi degli altri ero solo la sua ombra. A casa mio nonno non faceva altro che dirmi che io non avrei combinato mai nulla, che avrei dovuto essere come Matteo e che magari suo nipote fosse stato lui e non io.
Da quel giorno feci di tutto per far indispettire mio nonno, iniziai ad andare male a scuola, uscivo e tornavo tardissimo o non tornavo affatto. E ogni volta che andavo a casa di Matteo e vedevo quello che lui aveva ed io no sentivo montarmi su la rabbia. Ero invidioso della sua famiglia, della sua vita e non riuscivo ad accettarlo.
Io sentivo solo un grande vuoto farsi enorme ogni giorno. Iniziai a comportarmi da stronzo con tutti, soprattutto con Matteo. Non lo sopportavo, ma in realtà non sopportavo me stesso. E da allora iniziai a prendere gli anti-depressivi di mia madre, magari potevano aiutarmi a stare meglio, ma non era così, stavo peggio ogni giorno e nessuno se ne era mai accorto. A chi importava in fondo?
Matteo inizialmente cercò di capire che diavolo mi stesse succedendo, ma poi con l'arrivo di Alexandria fu preso da altro e ancora una volta lui aveva qualcosa che io non avevo. Un amore. E allora decisi di comportarmi come avevo fatto. Non poteva avere sempre tutto. Cercai in ogni modo di mettergli i bastoni tra le ruote e mi avvicinai ad Alexandria solo per indispettirlo. Volevo mettere lui in cattiva luce per una volta, non sopportavo più che fosse considerato perfetto da tutti.
In realtà credo semplicemente che io volevo essere come lui, anche io volevo una famiglia, qualcuno che si preoccupasse per me, qualcuno che mi amasse come Alexandria amava lui. La rabbia verso di lui era rabbia verso me stesso, per non essere stato capace di farmi amare dai miei genitori, da mio nonno e da nessuno.
Quando fui espulso da scuola mio nonno fece una delle sue solite scenate. Non poteva accettare che il suo nome fosse accostato al mio o meglio a quello di mio padre. Eravamo uguali io e mio padre mi disse, due buoni a nulla che avrebbero fatto meglio a sparire dalla circolazione, non eravamo degni di far parte della sua famiglia.
Disse che mi avrebbe spedito in collegio pur di non dover sopportarmi più.
Ma io non volevo andare in collegio, volevo solo accontentarlo e sparire in quel nulla che secondo lui ero.
Ecco forse credevo di saperlo quello che ero. Un nulla, partorito da due persone che non mi hanno mai voluto davvero.
E quando mi resi conto di quello che avevo fatto ad Alexandria, oltre al nulla, ero diventato anche un assassino.
Quando Matteo mi prese a pugni quella sera, restai immobile a farmi picchiare. Mi meritavo tutto. Tutto il suo odio e anche quello degli altri. Quando i poliziotti ci separarono
e vidi Alexandria andare via con l'ambulanza pregai di non aver commesso l'irreparabile, pregai che fosse viva e che non morisse. Io non volevo farlo, non volevo.
Ripetei queste due parole in continuazione, davanti ai poliziotti, all'avvocato, a mio nonno e anche davanti a mia madre che mi guardava piangendo.
Non volevo. Io non volevo. Non ho mai voluto...
Passai la notte a ripeterlo, a dirmi che io non potevo averlo fatto, che io non potevo aver ucciso nessuno, che ero un nulla ma non un assassino.
Io non volevo.
Dopo che risposi per tutto il tempo a domande che non capivo, mi arrestarono.
L'avvocato pagato da mio nonno prima che mi portassero via, quando ormai si era fatta mattina, mi disse che Alexandria non era morta, era in coma e forse si sarebbe salvata. Pregai perché fosse così.
Non volevo essere un assassino, non volevo aver tolto una figlia a sua madre, non volevo spegnere una vita.
Dovevo rispondere delle mie azioni, lo sapevo che era giusto. E lo volevo anche. Io non potevo non pagare per quello che ero stato capace di fare e di diventare.
Ero un nulla, lo meritavo.
Ma non volevo, non volevo. Io non volevo.
Ero un nulla ma non volevo.
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