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Il perdono

( Ho diviso questo capitolo in due parti perché è venuto più lungo di quanto credessi.
La seconda parte l'ho già pubblicata così potrete leggere tutto insieme)

Riccardo

Guardavo fisso la porta davanti a me, la testa e la schiena poggiata al muro, le ginocchia piegate sul petto, le mani ferme su di esse.
Era passata un'altra notte senza dormire, con gli incubi che perseguitavano ogni mio sogno ed io che mio ero rifugiato contro questo maledetto muro come quando ero un bambino.
Mi ero alzato appena le luci del giorno avevano fatto capolino dalla finestra, mi ero vestito, avevo anche mangiato qualcosa ed ero tornato a chiudermi qui dentro, al solito posto che ormai non abbandonavo quasi mai, tranne quando le cameriere dovevano pulire. In quel caso mi rifugiavo in giardino dove nessuno mi avrebbe mai trovato, non che qualcuno mi stesse cercando o l'abbia mai fatto.
Mia madre era persa, ubriaca e imbottita di pillole chissà dove, forse nel suo letto, forse in qualche bar di lusso addormentata sul bancone o in macchina.
Mio nonno usciva presto e non tornava mai prima di sera per fortuna, dopo la sera dell'incidente scaricò tutta la sua rabbia su di me nei giorni successivi.
Quando uscii dal commissariato dopo quella maledetta notte, quando ormai il giorno era arrivato, quando l'avvocato di mio nonno trovò il modo di evitarmi il carcere,  tornai a casa con l'autista, lui era in piedi in salotto ad aspettarmi, lo sguardo nero come i suoi occhi, l'espressione burbera, un accenno di barba bianca come i suoi capelli, mani in tasca e il disgusto verso di me sul volto. Non disse una sola parola, solo lasciò che una delle sue guardie del corpo mi picchiasse, due pugni sul volto e poi qualche calcio alle gambe e uno allo stomaco, giusto per ricordarmi per sempre quella notte, così disse prima di lasciarmi lì a terra dolorante. Ma lui mica lo sapeva che quella notte me la sarei ricordata per sempre e non per quei pugni e quei calci, ma per essermi trasformato in un qualcosa che mi ripugnava. Avevo quasi ucciso una persona e nessun pugno o calcio mi avrebbe mai fatto più male di quello che ero stato capace di fare. Mi facevo schifo, lo facevo anche agli altri e forse avevo dato un senso al disprezzo che mio nonno mi aveva sempre riservato.
Solo Arianna, la cameriera che lavorava per mio nonno da prima che nascessi, si preoccupava per me.
Mi aveva cresciuto lei, era l'unica ad avermi rimboccato le coperte, ad avermi coccolato, sgridato, lavato, vestito, solo lei.
Ma dopo tutto ciò che era accaduto forse anche a lei facevo schifo, forse era solo per obbligo che si preoccupava a vedermi stare appoggiato al muro tutto il giorno, che mi pregava di mangiare, di parlare. Era stata lei che quella notte mi aiutò ad alzarmi da terra e raggiungere la mia camera, era stata lei a medicarmi il volto. Forse l'unica a mostrarmi qualcosa che era affetto o solo pietà, non lo sapevo, non lo sapevo più e comunque ero sicuro che qualsiasi cosa fosse io non la meritavo.

Solo il bussare leggero alla mia porta mi scosse e me la immaginai Arianna con i suoi capelli a caschetto castani, la divisa di colore blu scelta da mio nonno addosso, gli occhi color ambra nascosti dietro gli immancabili occhiali e un vassoio in mano con il pranzo preparato per me.
"Non voglio mangiare Arianna, per favore vai via"
"Riccardo, hanno bussato, c'è qualcuno per te. Esci da qui e vieni a vedere per favore, credo sia molto importante"
Qualcuno per me? Forse era la polizia, forse volevano ancora farmi domande, forse erano venuti a prendermi per sbattermi dove dovevo stare, a non poter fare più del male a nessuno. Forse era arrivato il momento.
Mi alzai, aprii la porta e trovai Arianna a guardarmi con i suoi occhi preoccupati e lucidi.
"È la polizia, sono venuti a prendermi vero?"
"No, è Matteo..." esitò un istante "con Alexandria"
La guardai spalancando gli occhi.
Non poteva essere, non potevano essere loro, Arianna si era sbagliata. Non era possibile fossero venuti qui da me.
Andai velocemente al piano di sotto, raggiunsi il portico e quando vidi il cancello nero aprirsi mi pietrificai.
Erano loro, ed erano veramente venuti da me.

Li osservai entrare mano nella mano mentre io non riuscivo a respirare.
Vidi Alexandria fermarsi ed osservarmi.
L'ultima volta che l'avevo vista era stesa inerme sull'asfalto a causa mia, ma in quel momento vederla lì in piedi a guardarmi mi diede un attimo di sollievo. Avevo saputo che si era ripresa ma vedere con i miei occhi che era viva e stava bene mi fece venire voglia di piangere. Non l'avevo distrutta, ferita si, ma lei aveva ancora vita, aveva ancora speranza.
Io però non riuscii a sostenere il suo sguardo e lo volsi a terra, non potevo guardarla, non riuscivo, non lo meritavo.
Io ero un mostro, il suo, solo questo.

Ad ogni loro passo mi sentivo sempre più piccolo, sempre più vigliacco, sempre più spaventato, sempre più un ragazzo da odiare e non amare.
Non sapevo perché fossero venuti, ero convinto non avrei mai più rivisto nessuno dei due.
Forse erano venuti solo per dirmi quanto schifo facessi, quanto dolore erano stati costretti a sopportare per colpa mia.
Forse erano venuti a urlarmi in faccia tutto l'odio ed il disprezzo che provavano nei miei confronti.
Mi tremavano le gambe, temetti di non riuscire a restare in piedi e quando furono ad un passo da me mi andai a sedere sul divano in vimini del portico.
Sarei stato lì ad ascoltare ed incassare tutte le loro parole, l'odio, la rabbia, qualsiasi cosa. Era giusto così.

Loro si sedettero di fronte a me e cercai di trovare il fiato per provare almeno a dirlo che non volevo, che mi dispiaceva, che non volevo farle del male, ma non ci riuscii.
Alexandria era lì ed io non respiravo, non parlavo, mi vergognavo.
Le avevo scritto, ma non trovavo la forza per dire a voce ciò che forse lei aveva solo letto.

Fu la voce di Alexandria però a sorprendermi.
"Io...io...Son...Sono venuta qui perché avevo bisogno di vederti, di capire, di parlarti, di perdo..."
Non credevo di aver sentito bene. Sicuramente mi ero confuso, lei non stava per dire quella parola, lei non era venuta qui per quello, lei non poteva, io non potevo lasciare che lei lo dicesse davvero.
"No" sputai fuori.
Tu non puoi, non puoi, pensai.
"Tu non devi fare proprio niente, io devo. Devo pagare, mi devo scusare, anche se "scusa" non sarà mai abbastanza per quello che ho fatto"
Strinsi le palpebre, iniziai a strofinare nervosamente le mani sui pantaloni, quelle poche parole che avevo sentito pesavano come dei macigni enormi.
Come poteva? Come avrebbe solo potuto pensare di perdonarmi? Possibile non vedeva il mostro che ero? Quello che le avevo fatto?
I mostri non si possono perdonare, i mostri si odiano solo. Lei doveva odiarmi, loro dovevano odiarmi, anche se faceva male, anche se una piccola parte di me sperava fosse possibile, loro non dovevano.
"Io non voglio le tue scuse, voglio capire come tu abbia fatto, come sei arrivato ad un passo dal togliermi la vita e voglio che mi guardi mentre me lo dici " e come facevo a dirgli che io non lo sapevo il perché? Che mi tormentavo tutte le notti al solo pensiero che ero stato capace di fare così tanto male.
"Io...Io...Io...non posso, non posso darti quello che stai cercando" la vidi alzarsi all'improvviso e tentare di avvicinarsi.
Il cuore mi martellava nel petto, non riuscivo a fermare le mani, il respiro era sempre più corto.
"Certo che puoi, anzi, tu me lo devi, me lo devi per farmi andare avanti, per lasciarmi la rabbia alle spalle, per non odiarti, per aiutarmi a perdonarti"
"Tu non devi perdonarmi, io non lo merito il tuo perdono"
La testa prese a pulsarmi, forse sarei soffocato lì sul quel maledetto divanetto, forse lo meritavo.
"Tu no, ma io ho bisogno di farlo e tu devi lasciarmelo fare" Alexandria tentò di afferrarmi per il braccio ma io mi scansai brusco, non potevo più stare lì, non riuscivo ad ascoltarla.
"Non posso...io..io...non posso farlo. Mi...mi... dispiace"

"Ti dispiace?" Ed eccola la voce del fratello che avevo sempre avuto e rinnegato.
"Eri tu il primo a volere che lei venisse qui, eri tu quello che voleva parlarle di persona, e ora? Ora sai dire solo "mi dispiace"? L' hai quasi uccisa e sai dire solo questo?"
No, no, c'erano tante di quelle parole da dire, ma nessuna sarebbe servita, nessuna mi avrebbe portato indietro, nessuna mi avrebbe evitato di ferirla, di ferire il fratello che avevo davanti.
"Ma che razza di vigliacco sei eh?" Aveva ragione ero un vigliacco, lo ero sempre stato.
"Tu glielo devi, hai capito? Starai qui a sentire quello che lei vuole dirti, le darai le risposte che sta cercando e no, non te lo meriti il perdono, ma Ale non è te, ha forza sufficiente per affrontare ciò che hai fatto e tu glielo permetterai, hai capito?"
No, non potevo. Perché non lo capivano? Loro non potevano perdonarmi. Le loro parole facevano male, mi bruciavano dentro.
Non esisteva possibilità per me, non doveva esistere. Io non potevo essere perdonato, loro non potevano darmi quel sollievo che avevo sperato ogni notte negli ultimi mesi.
Le avevo scritto, avevo scritto ad entrambi, sperando un giorno potessero pensare di perdonarmi, ma era presto perché potessi meritarla una cosa bella.
"Tu non puoi, tu devi vigliacco" Faceva troppo male stare di fronte a loro, volevo solo che smettesse.
"No, non posso" lo spinsi via, perché non voleva capire? Perché?
"Sì, sono un vigliacco hai ragione, ma come fai a non capire? Io non ci riesco, pensi che non vorrei darle quello che cerca? Pensi che non vorrei lei si scordasse di me e andasse avanti con la sua vita? Io non dormo la notte da quel maledetto giorno, ogni volta che chiudo gli occhi rivedo tutto e darei qualsiasi cosa per tornare indietro, ma non posso" e le maledette lacrime iniziarono a scendere dai miei occhi.
"Non posso darle risposte che neanche io conosco. Io non lo so perché ho fatto quel che ho fatto, io non volevo, non volevo farle del male, volevo solo spegnermi fuori così come lo ero dentro. Come posso ascoltarla, parlarle se non riesco a guardarla? Io mi vergogno di quello che sono diventato, non riesco a guardarmi allo specchio senza provare ribrezzo per me stesso, non posso accettare che lei mi perdoni perché sono imperdonabile, non posso accettare che lei mi guardi perché io la sporcherei di nuovo con i miei occhi pieni di odio. Lei non lo merita. Io invece si, mi merito l'odio, la rabbia, gli incubi e tutto quello che di peggio questa vita mi riservi. Io non sono nessuno e nessuno non può essere perdonato, perché nessuno non esiste, nessuno è un vigliacco, nessuno non sa amare, nessuno sa solo far male, nessuno vorrebbe non esistere, vorrebbe essere dimenticato e non ricordato. E se potessi io cancellerei la mia vita per impedirmi di toccare la tua" e per un attimo la guardai Alexandria.
"Io non sono quello che hai visto, quello che ti ho mostrato, io non so cosa o chi sono, forse un mostro, non lo so e non so se lo capirò mai, ma una cosa posso dirtela. Ho sperato ogni giorno che tu ti svegliassi, ogni mio respiro era legato al tuo e se tu non avessi riaperto gli occhi, non so se io avrei trovato il coraggio di continuare a fare lo stesso con i miei. Ora tu sei sveglia, stai bene e devi andare avanti senza pensarci più a me, io mi merito tutto il dolore non il perdono, non l'amore che non ho mai saputo cosa fosse"

Mi mancava il respiro, ma buttai fuori ogni cosa, forse era l'unico modo per allontanarli e farmi odiare, così come doveva essere: "Tu" mi voltai verso Matteo "eri mio fratello, io ti invidiavo, invidiavo la tua famiglia, volevo essere come te, ma come facevo a dirtelo? Non ho mai avuto la forza di essere sincero e ho sbagliato perché alla fine quell' invidia mi ha divorato dentro e ti ho fatto cose che non avrei mai voluto, cose che mio fratello non si meritava affatto e non riesco a trovare pace per questo, ho perso l'unica persona che mi ha mostrato cose fosse l'affetto"

Ero sfinito, sfiatato, non mi reggevo più, tornai a terra, al mio posto.
Dopo le mie parole forse sarebbero andati via, forse mi avrebbero lasciato nel mio tormento che non mi dava respiro, nel mio mondo che mi stava spegnendo a poco a poco.

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