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Eri mio fratello

Matteo

Ero arrivato lì senza neanche rendermene conto. Avevo camminato e i miei passi mi avevano portato nel posto che non pensavo avrei più rivisto.
Avevo percorso tante volte questa strada da bambino, prima in bici e poi con il motorino. La conoscevo benissimo e anche se erano mesi che avevo smesso di attraversarla come una volta mi ricordavo tutto.
Mi era sempre piaciuto quel posto, era una zona residenziale che si trovava più distante dal centro città, si respirava calma, si sentiva solo il rumore di qualche macchina che ogni tanto passava, residenti per lo più.
Mi ricordavo benissimo i pomeriggi passati a giocare a pallone in mezzo alla strada; la palla finiva sempre in una delle ville magari tra le piante. Che risate a sentir urlare le cameriere o i padroni di casa per il loro giardino rovinato, le parole erano sempre quelle "Piccoli delinquenti" "incivili" "ineducati" neanche gli avessimo fatto chissà quale irreparabile danno.
Erano tutti dei ricconi da queste parti figurati se si preoccupavano per una piccola piantina indifesa.
Mi scappò un sorriso che mi morì sulle labbra appena mi girai di fronte alla villa che conoscevo come casa mia.
I secchi della spazzatura stavano sempre al solito posto, accanto al cancello in ferro battuto nero, non si riusciva a vedere attraverso, era stato fatto così volutamente, ma mi ricordavo perfettamente cosa c'era dietro.
Un prato verde grandissimo che arrivava fino alla veranda della casa, fatta tutta rigorosamente in legno, con delle poltrone in vimini da una parte, situate intorno ad un tavolino, e il dondolo dall'altra.
Al centro c'era la porta d'ingresso anche questa in legno, appena entravi venivi accolto da un salone enorme, con un divano in pelle sulla destra e un tappeto lavorato credo comprato direttamente in India a contornarlo. Di fronte c'era un televisore enorme di almeno 50 pollici, ci avevo passato ore a giocare lì davanti alla play.
Sulla sinistra c'era un tavolo lungo, rotondo, in legno, con le sedie rivestite di pelle nere, sembravano dei piccoli troni, con del legno lavorato su cui erano incisi dei piccoli leoni che sbucavano dai due lati della spalliera.
Il pavimento era un parquet, perennemente lucido, si camminava in ciabatte dentro casa, mai con le scarpe.
Il salone dalla parte di dietro era chiuso solo da delle porte a vetri che ti permettevano di osservare la grande piscina che si trovava sul retro del giardino.
La villa era a tre piani, sopra non c'ero stato mai tanto, si stava sempre tra il salotto, la piscina, il prato e la veranda.
Ci avevo passato pomeriggi interi oltre questo cancello, avevo consumato le merende più buone seduto su quelle poltrone, avevo corso come un matto su quel prato verde e mi ero fatto un milione di tuffi dal trampolino della piscina.
Sembrava passata una vita da tutto quello ed in realtà era così.
Ormai tutto si era ridotto a dei ricordi lontani.

Presi la lettera dalla tasca del giubbotto e alla fine suonai al citofono. Quest'ultimo era dotato di una piccola camera che permetteva a chi era dentro di vedere chi c'era fuori.
Quando il cancello si aprì sapevo benissimo che avevano già capito chi fossi ma avevano aperto lo stesso, o forse era meglio dire che "aveva" aperto lo stesso.
Camminai attraverso il prato con la testa bassa e la lettera tra le dita.
Arrivato agli scalini che portavano alla veranda mi fermai, sentivo gli occhi di qualcuno addosso, presi un respiro e alzai lo sguardo.
E lui stava lì, fermo immobile a guardarmi con i suoi occhi verdi a fissarmi sorpresi.
"Riccardo" dissi con voce dura e fredda.
"Matteo" non c'è le aveva le parole Riccardo ed io che lo conoscevo bene sapevo benissimo che tutto si aspettava tranne vedere me lì davanti a lui.
"Che cavolo mi rappresenta questa? Cos'è, il coraggio di dirle a voce le parole che hai scritto qua non lo hai trovato? Eppure mi sembra che il coraggio per fare quello che hai fatto non ti è mancato. Pensavi che una stupida lettera mi avrebbe fatto cambiare idea su di te? Pensi davvero che mi importi qualcosa di quello che hai da dire?"
E lo iniziavo a sentire il respiro che diventava più pesante nel petto. L'indifferenza che volevo mostrare iniziava ad abbandonarmi mentre la rabbia che provavo spingeva per uscire fuori come quella notte di mesi fa....
"Io non ho avuto coraggio, mai. Io sono stato un vigliacco, ma tu questo lo hai sempre saputo. E no Matteo, non ho scritto la lettera per farti cambiare idea su di me, non potresti farlo e non voglio che tu lo faccia. Ho scritto la lettera perché sentivo il bisogno di farlo, sentivo il bisogno di far uscire fuori la merda che sono sempre stato per permettere a me e a voi di andare avanti. E no Matteo, non ho avuto il coraggio di dirle a voce le parole che ho scritto lì perché hai ragione io non ne ho avuto mai. Io sono stato un vigliacco e tu questo lo hai sempre saputo"
Aveva anche la faccia di rispondere guardandomi negli occhi, ma quando mai Riccardo aveva avuto coraggio. Era un vigliacco ed io l'avevo sempre saputo. Ma non avevo fatto niente, l'avevo lasciato libero di avvicinarsi ad Alexandria e lui me l'aveva quasi portata via. Un idiota ero stato, avrei dovuto fermarlo prima, avrei dovuto impedirgli di fare il male che invece aveva fatto a me, a lei...

"Tu" dissi iniziando ad avvicinarmi agli scalini.
"Tu hai umiliato Alexandria" primo gradino.
"Tu le hai portato via la sua amica" secondo gradino.
"Tu hai cercato di portarle via me" terzo gradino.
"Tu le hai quasi tolto la vita" quarto gradino.
"Tu eri mio fratello" i gradini erano finiti.

Mi gettai su di lui di come quella notte di mesi fa e come allora iniziai a colpirlo. Glieli avrei restituiti tutti i pugni che mi aveva tirato addosso in quei mesi, perché se anche non aveva usato le mani il dolore era arrivato tutto lo stesso e le cicatrici che avevano lasciato bruciavano ancora.
I mie pugni lo colpivano in faccia, sullo stomaco, dappertutto, ma lui non reagiva, se li prendeva tutti e questo mi faceva montare una rabbia che non riuscivo a controllare.
"Reagisci" gli urlai contro "reagisci pezzo di merda" e ancora pugni.
"Avanti, dopo tutto quello che hai fatto non dirmi che ti spaventano due pugni" ma lui non mi fermava, non reagiva.
"Reagisci" urlai più forte.
Un'altra spinta e Riccardo era per terra.
Mi fermai solo un secondo per riprendere fiato e glieli guardai gli occhi, anche se aveva tutto il viso sporco del sangue che gli colava dal naso le vidi lo stesso le lacrime cadergli dagli occhi. Era da quando era piccolo che non piangeva Riccardo. L'aveva giurato da bambino che non l'avrebbe più fatto per nessuno e invece lui scelse proprio quel momento per ricominciare a mostrarle di nuovo tutte le sue debolezze.
Dio che pezzo di merda che era, pensava che le sue lacrime potessero piegarmi, ma non eravamo più due bambini e quelle gocce non avrebbero cancellato niente. Non c'è l'aveva il diritto di piangere lui.
"Che cazzo piangi eh?" gli andai addosso di nuovo prendendolo dal collo della maglia "non ce l'hai il diritto di piangere te"
"No, ma non posso smettere, non ci riesco" rispose con voce spezzata "io faccio schifo, mi faccio schifo, non mi resta niente oltre queste maledette lacrime che non vogliono saperne di smettere di cadere"
"Tu fai schifo. Tu sei un vigliacco come tuo padre. Tuo nonno ha sempre avuto ragione su di te. Il figlio di un fallito non poteva che diventare come lui. E lo sai cosa? Tu sei peggio di lui, tu sei come quell'uomo che mi ha dato la vita e poi l'ha tolta a qualcun'altro"
A quelle parole Riccardo reagì per la prima volta e mi spinse via con tutta la forza che gli era rimasta.
"Io non l'ho fatto, io non l'ho tolta la vita ad Alexandria. Lei è viva. Lei respira. Lei è tornata da te" e singhiozzando mi tirò due pugni dritti sul volto.
"Io non volevo farle male, non volevo" cercai di togliermelo di dosso spingendolo via.
"Non ci sono scuse, non esistono, ma mi dispiace, mi dispiace" gridava Riccardo mentre ci scagliavamo uno contro l'altro, a tirarci dei pugni che non potevano fare più male di quello che già avevamo addosso.
"Non basta che ti scusi, non basterà mai" e ormai il silenzio della sera che arrivava era interrotto solo dalle urla del nostro inevitabile scontro, nato da crepe che non ne volevano sapere di essere aggiustate.
"Lei è viva, lei respira, lei è tornata da te" rispose lui e mi spinse per terra.
Eravamo stanchi, stremati da una lotta che non aveva vincitori, ma solo cicatrici che di fare male non avrebbero smesso.
Poi Riccardo si fermò un instante, raccolse la lettera che ormai era andata per terra e l'aprì.

Matteo, io non lo so dove sto trovando il coraggio per fare quello che sto facendo ed in realtà credo che non si tratti neanche di questo, io il coraggio non l'ho mai avuto perché se così fosse stato ora sarei lì davanti a te a dirtele a voce queste cose. Ma tu lo sai io sono sempre stato un vigliacco.
Sono stato un vigliacco quando da bambino non ti ho mai difeso, ma eri sempre tu a dover difendere me.
Sono stato un vigliacco quando scappavo dopo un rimprovero di mio nonno, mentre te restavi e gli dicevi che io mi meritavo più di quello.
Sono stato un vigliacco quando vedevo mia madre svenuta sul pavimento e stavo fermo immobile a fissarla mentre tu cercavo di trascinarla in bagno per farle vomitare tutta la merda che ingerisce ogni giorno.
Sono stato un vigliacco per non averle mai chiesto di smettere, chissà forse per me, suo figlio, l'avrebbe fatto.
Sono stato un vigliacco quella sera del mio compleanno quando ti ho detto che tuo padre era un assassino, sapevo che quello era sempre stato il tuo senso di colpa più grande, volevo farti perdere il controllo e tu l'hai fatto. Ti sei ubriacato e quando le labbra di Ilda hanno toccato le tue neanche te ne sei accorto.
Sono stato un vigliacco perché ho fatto di tutto per portartela via Alexandria, l'ho ferita ed umiliata, ma ero solo invidioso credo, nessuno mai avrebbe amato me come vi amate voi due.
Sono stato un vigliacco quando invece di trovare il coraggio di andarmene da quest' inferno che è casa mia ho preferito dimenticarlo il mio nome.
Sono stato un vigliacco quando quella sera ho preso la macchina e nel mio buio ho rischiato di spegnerla la vita di Alexandria.
Sono un vigliacco perché non te l'ho mai detto che io tuo fratello ho sempre voluto esserlo davvero.
E lo so che ormai niente di tutto questo ha importanza, ma per una volta ho provato ad essere di nuovo io. Quel ragazzino spaventato che per caso a scuola un giorno l'ha incontrato qualcuno che gli ha mostrato che cosa significhi la parola famiglia.
Tu, Claudio e tua madre siete stati la mia famiglia. Quella che ho sempre desiderato ma che la vita mi ha negato.
Sono stato un vigliacco e tu lo hai sempre saputo ma nonostante questo hai scelto lo stesso di essere mio fratello.
Non bastano le mie scuse, non basteranno mai. Ma Alexandria è viva, respira, è tornata da te.
E forse ora che lei ha ripreso la sua vita io riuscirò a ricostruire la mia.
Eri mio fratello anche se non te l'ho mai detto.

Era un vigliacco Riccardo ed io lo sapevo, ma alla fine l'aveva trovato il coraggio di dirmele a voce tutte quelle cose.
Io le avevo ascoltate tutte le sue parole, lui aveva bisogno di dirle ed io di sentirle.
Niente, niente sarebbe mai stato più come quando eravamo dei semplici bambini.
Mi alzai da terra, scesi i gradini e glielo dissi:
"Eri mio fratello ed io te l'ho sempre detto"

Auguri a tutti...

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