6~Un tetto di stelle
Jessika si svegliò sentendosi bagnata in viso. Qualcosa di viscido, caldo e decisamente disgustoso, le sfiorava le guance.
-No Akemi... Smettila! ... -disse ancora stordita. Si accorse di non essere in grado di articolare le parole per bene. Come se avesse qualcosa sulla lingua che le impediva di parlare. Fissò il cagnone di fronte a sé senza capire perché invece di avere il pelo chiaro e candido, l'avesse nero, arruffato e sporco. E poi puzzava! Sì, quella bestia non era la sua Akemi. Si tirò su sentendo un dolore lancinante al braccio e poi alla testa. Aveva l'avambraccio fasciato con garze sudice e i vestiti erano quelli che indossava il giorno del suo licenziamento, solo più sgualciti.
-E tu chi sei? -sussurrò senza voce mentre quello che sembrava più un orso che un cane non smetteva di leccarla. -Bleah... puzzi peggio di un maiale! ... Ma... Dove sono? E la mia borsa? -frugò nelle tasche della gonna in cerca del cellulare, ma niente. Diede un'occhiata attorno a sé. Non si vedeva nulla. Era buio e la luce in quel posto era fioca. Riconobbe dei mobili mentre tentava di scendere da quella che doveva essere una branda. Il pavimento scricchiolava. Sentì sotto i suoi piedi nudi strani movimenti per nulla rassicuranti. Con un balzò risalì sul materasso flaccido e anch'esso maleodorante. Sentendosi ridicola si rivolse nuovamente al cane che la fissava gioioso.
-Ma dove mi trovo?! -disse tremante. Un rumore attirò la sua attenzione. Veniva di fuori. Erano delle voci. Incomprensibili, non capiva se di uomini o di donne. Qualcuno aprì la porta ed entrò abbagliandola con una torcia.
-Ah, sei sveglia?! Finalmente! -un tipo con uno strano accento, ma che parlava benissimo l'italiano le si avvicinò. Terrorizzata dalla paura si raggomitolò sulla branda coprendosi la testa.
-Non ti faccio niente. -tentò di rassicurarla lui con una voce limpida. -Stai bene?
-...Ho male a un braccio... E alla testa... -rispose lei tentando di guardarlo in volto. Dietro di lui c'era un'altra persona che se ne stava lì ad ascoltare senza intervenire.
-Lei è mia madre. Si chiama Mirsada. Io invece sono Hego. E tu?
-Io... -per un attimo la ragazza ebbe un vuoto di memoria. Rialzò la testa verso quel tipo così gentile che aveva di fronte notando nel suo aspetto qualcosa di familiare. -Io sono Jessika... Ma che ci faccio qui? ...Puoi spiegarmi cosa è successo? Voi... chi siete? Zingari?
La donna grassoccia sullo sfondo, fece una smorfia e un verso di sdegno poi prese il gran cagnolone e uscì.
-Non è il termine corretto, Zingari. Anzi faresti meglio a non usarlo più. Per noi è offensivo. Siamo Rom.
-Capisco, scusa. Ma qui non c'è una lampadina... Non vedo niente e poi con questa torcia puntata in faccia...!
-Ah sì, hai ragione. -il ragazzo la rivolse verso di sé illuminando il suo viso. Jessika lo riconobbe immediatamente. Era il ragazzo col pizzetto, quello che aveva incontrato più di un mese prima al supermercato. Quello che veniva comandato a bacchetta e che aveva quell'aria spensierata e rilassante.
Lui appoggiò la torcia sulla branda in modo che il braccio di Jessika fosse illuminato per bene e si mise a maneggiare con le garze.
-Cosa fai? -chiese lei tirandolo via. -Non toccarmi...!
-Ho trovato queste garze pulite e... ti cambio la fasciatura.
-No aspetta...! -continuò in preda al panico. -Che mi è successo? E perché sono qui? -tentò di scendere, ma ricordò quelle cose "croccanti" e disgustose che aveva sentito prima sotto i suoi piedi e li tirò nuovamente su.
-Stai tranquilla... E soprattutto seduta. Se devi scendere dal letto mettiti le scarpe, ok? Sei nell'accampamento Rom. E... non so cosa tu ci faccia qui. Sappiamo solo che Ingrid il nostro cane, ti ha trovata sul ciglio della strada ed è venuta abbaiando come una matta. Così io e mia madre ti abbiamo presa e abbiamo tentato di curare le tue ferite. Tutto qui.
-Ma io... non posso stare qui... Da quanto... da quanto tempo sono in questo posto?
-Dall'altra notte.
-Saranno preoccupati per me...! Devo andare!
-Aspetta almeno che faccia giorno. Siamo fuori Roma, le strade sono buie e anche non battute. E c'è da camminare per un po' nel bosco. Mi ci perderei anche io...
-Ma io devo avvertire i miei amici... Non mi vedono da un giorno intero...! Il mio cellulare! ...Dov'è il mio cellulare?!
-Non lo so. Quando ti abbiamo trovata non avevi nient'altro che quello che hai addosso... e una sola scarpa.
-Fantastico! Non ho nemmeno le scarpe!
-Veramente ti ho procurato queste. -disse lui sollevando un paio di mocassini malconci che mise alla luce della torcia.
-Dove li hai presi?! -esclamò in tono insinuante.
-Guarda che noi non rubiamo niente a nessuno! Lo so che tra voi gagè pensate che siamo solo dei ladri, ma non lo siamo tutti... almeno, non quanto non lo siate voi. Noi ci guadagniamo da vivere con la musica.
-Sì... scusa. Ma, come ci hai chiamati?
Gagè?
-Bè, sì. E' il termine che usiamo per chiamare voi che... non siete come noi... Ma...Ti va di uscire di qui? Vieni, così puoi mangiare qualcosa.
-Non credo di avere fame. -disse immediatamente contraddetta da un imbarazzante rumore del suo stomaco. Lui sorrise. Anche se era buio Jessika riconobbe quell'espressione che aveva già visto. E ne fu contagiata. Per un attimo scordò tutto il resto. I problemi, le ansietà che stava affrontavo a motivo delle recenti disavventure, proprio come aveva cancellato le ultime 24 ore di cui non ricordava assolutamente niente. Ma in quel momento non le andava proprio di ricordare. Lo avrebbe fatto il giorno dopo, con la luce, con la mente fresca. Il premuroso giovanotto terminò di sistemarle le garze mentre lei anche se riluttante, gli permise di farlo.
-Non è una ferita grave, ma in base all'esperienza è meglio che tu la tenga fasciata, per evitare un'infezione.
Hego le mostrò nuovamente i mocassini.
-Spero siano il tuo numero. Sono di mia madre. E... tieni. -continuò porgendole una giacca. -Fa freddo. L'autunno inizia a farsi sentire.
-Una domanda... Ma cosa c'è sul pavimento?
-...E' meglio che tu non lo sappia...!
L'accampamento era un piccolo spiazzale largo pochi metri e circondato da roulotte. I due ragazzi si trovavano in una di esse. Ne uscirono per avvicinarsi al fuoco, situato proprio al centro. La luna insieme ad esso, illuminava quel posticino buio che si erano scelti i Rom, circondato da folti e immensi alberi. Nell'aria si sentiva un buon odore di pino che si confondeva a quello altrettanto invitante di carne fatta alla brace. Jessika faceva attenzione a dirigere bene i suoi passi tra gli scricchiolanti rami e le foglie secche che facevano da tappeto a quella città in miniatura, tentando di non perdere le scarpe più grandi di almeno un numero.
-Quindi siete dei nomadi? -chiese sentendosi addosso gli occhi di tutti e coprendosi alla meglio con la giacca che poco prima aveva ricevuto.
-Sì.
-E quindi non avete una casa?
-Certo che ce l'abbiamo. La nostra casa è il mondo... Il tetto sono le stelle e le pareti sono i solidi legami della famiglia. Siamo tutti molto uniti e ci prendiamo cura l'uno dell'altro. E tu? Dove vivi?
-Io? -rise sarcastica. -Forse tra poco vivrò anch'io per strada... Vogliono portarmi via la casa...! Anni di sacrifici e adesso... mi ritrovo con niente.
-A noi nessuno può portarcela via. -continuò lui perso nelle stelle.
-Wow! -esclamò lei alzando gli occhi. -Non ho mai visto un "tetto" così bello! Da piccola i miei genitori avevano tempestato il soffitto della mia cameretta con tante stelline di plastica fluorescenti ma... uno spettacolo così non l'ho mai visto.
-Perché, il cielo non c'è anche in città?
-Sì, però io... non l'ho mai notato... -immersa nei pensieri, si girò a guardare Hego. Lui le sorrise contagiandola. Si sentì strana, il suo cuore prese a battere forte. Alzò di nuovo gli occhi al cielo. Quella distesa puntellata le fece ricordare Virgilio. Lui amava le stelle, le contemplava spesso, anche quando uscivano, camminava sempre con la testa rivolta in alto, quasi come se non volesse perdersi nemmeno uno di quelli che a occhio nudo parevano dei piccoli soli. Fu solo in quel momento che forse riuscì a capire cosa provava il suo ex, almeno in parte. La sensazione era stupenda. La pace e la serenità che ne scaturiva assolutamente unica.
Hego le mostrò una coperta, adagiata a terra, proprio vicino al fuoco. La invitò a sedersi, mentre qualcuno lì vicino che la guardava di sottecchi, cuoceva la carne sulla fiamma scoppiettante. Solo in quel momento si accorse che poco più in là c'era un uomo molto anziano, così sembrava dalla faccia rugosa ed increspata, seduto con le gambe incrociate, che non le toglieva gli occhi di dosso. Lei abbassò lo sguardo imbarazzata. Con Hego si sentiva a suo agio, ma iniziò a provare un certo timore vedendo tutti gli altri avvicinarsi e fissarla.
Hego alzò la voce e disse una frase in una lingua per Jessika incomprensibile. Riuscì a capire solo gagé, la prima parola in rumenì che aveva imparato. Guardò le teste di quelle persone che parevano vestite di stracci acconsentire e man mano tornare vicino al fuoco. Alcuni avevano già in mano un pezzo di carne che divoravano ungendosi tutti i contorni della bocca, arrivando fino alle guance. C'erano anche dei bambini, con gli occhietti neri e curiosi, e i visi ingenui tipici di quell'età.
-Cosa gli hai detto? -chiese lei con un filo di voce.
-Gli ho detto che anche se sei una gagì, possono fidarsi, perché sei una brava ragazza.
-Gagì?
-Sì, gagì femminile, gagiò maschile e gagé plurale.
-Ah, grazie per la spiegazione. Ma... tu che ne sai? Non mi conosci nemmeno.
-Lo capisco. E' scritto nei tuoi occhi.
-Davvero?
Il vecchio con le gambe incrociate prese la parola: -Occhi limpidi, sinceri... Ma saggezza non è in te.
Jessika lo guardò sorpresa. Aveva sicuramente capito bene quello che le aveva detto, ma si girò a guardare Hego in attesa di una spiegazione.
-Lui è il duca. Sai nella nostra gerarchia è il capo. E' lui che si assicura che tutto vada bene e vigila sulla nostra comunità. E' il nostro giudice.
-Mi chiamo Drago. -continuò "il duca" con voce ferma e decisa. -Tu, sei brava femmina. Molto intelligente, molto bella...
Jessika lanciò un'occhiata a Hego estremamente imbarazzata. Odiava ricevere complimenti, quindi non vi era abituata. Virgilio rassegnato, non glieli faceva più perché lei si arrabbiava. Inoltre era solita ricevere piuttosto delle critiche, in particolar modo da sua madre. Sì, le diceva spesso di amarla e di volerle bene ma le ricordava anche altrettanto spesso che se fosse andata in palestra ad esempio, sarebbe stata più tonica, meno gonfia e con un filo di cellulite in meno. Le diceva di smetterla di tingersi i capelli di quel biondo così chiaro che sembrava un'albina e continuava a ripeterle di mettere meno trucco sul viso che pareva una poco di buono. L'unica con cui Jessika si sbilanciava un po' era la sua Akemi. Accettava solo sue effusioni affettuose e, anche se con un po' di ribrezzo, le sue leccate. Ed era pronta a ricambiare il suo amore accarezzandola e abbracciandola. Jessika sospirò pensando al suo dolce labrador rendendosi conto di quanto l'avesse trascurato in quelle ultime settimane. Ebbe poi come un sussulto... Uno strano ricordo, come un sogno confuso. Qualcuno le diceva che Akemi era morta. Si spaventò come se fosse successo veramente. Poi fu distratta dalla voce di Drago, che intanto continuava a parlare...
-...Tu femmina molto buona di cuore. Ma tu non sai cos'è vita, cos'è famiglia, cos'è amore.
-Scusami "anziano saggio" -disse diffidente. -E' la prima volta che mi vedi, come fai a dire queste cose di me?
-Occhi. Occhi specchio anima. -ancora una volta Jessika guardò Hego in attesa che chiarisse le parole dell'anziano.
-L'ha capito guardandoti negli occhi. Gli occhi non sono altro che il riflesso di quello che noi abbiamo dentro.
-Bhe si sta sbagliando. Io amo la mia famiglia, e so cos'è la vita e l'amore... anche se per il momento ne sono rimasta scottata.
-Tu non capisci mie parole. -concluse lui categoricamente. -Tu adesso no in grado di capirle. Un giorno capirai. No adesso.
Jessika lo fissò alzarsi ed entrare in una roulotte che messa a fianco delle altre formavano un cerchio, come per proteggere quella trentina di persone chiuse lì dentro. Uno di loro, quello che si occupava di arrostire la carne, ne prese un pezzo e gliela porse. Alla sola vista di quelle mani annerite che tenevano quella bistecca che colava un po', le si bloccò lo stomaco. Torse il naso disgustata, ed alzò una mano.
-No, no... Grazie.
In uno specchietto opaco e che, tra l'altro, distorceva l'immagine, ebbe la conferma di essersi trasformata in un mostro. Era entrata nella roulotte di Hego che le aveva ceduto il letto e quindi avrebbe dormito lì insieme a Mirsada -se solo fosse riuscita a chiudere occhio. I capelli lunghi fin sulla spalla e la frangia che le sfiorava le sopracciglia, erano arruffati e non rigorosamente piastrati come li portava solitamente. Parevano ancor più rovinati di quanto non lo fossero già. Il trucco di due giorni prima era definitivamente scomparso e le restavano solo due occhi piccoli, invisibili, color caramello che parevano spogliati senza il contorno marcato dal matitone nero e dal rimmel che le infoltiva le ciglia. La bocca era secca, asciutta, sembrava infeltrita, più bianca del solito. Aveva bevuto appena un sorso di quell'acqua conservata in lattine di plastica imbrattate. Chissà da dove veniva. Forse non era neppure potabile. Lo stomaco le brontolava e aveva una forte nausea, forse causata dal digiuno forzato. Mirsada le indicò quale sarebbe stato il suo letto, poi uscì senza dire una parola. Pareva non capire bene l'italiano e in più sembrava parecchio seccata dalla presenza di quella che per lei non era altro che una gagì. Le erano stati dati anche dei vestiti visto che i suoi ormai erano strappati. Li fissò ancora addosso a sé tentando di ricordare perché fossero conciati così. Forse aveva avuto un incidente, così si sarebbe spiegato il braccio ferito e il dolore alla testa. Ma... strano e assurdo, non ricordava nulla. Il vuoto nella sua testa. Quei vestiti che sarebbero andati a sostituire i suoi non erano proprio di suo gradimento. Li tirò su con due dita, provando ribrezzo per averli solo toccati. Non sembravano sporchi però. Li avvicinò al naso per sentire se fossero maleodoranti quando sentì bussare. Era Hego. In mano aveva qualcosa che fumava.
-Tieni. Devi mangiare un po'. -disse con il suo solito viso spensierato. La ragazza guardò le sue mani ingoiando per il timore di quello che ne sarebbe uscito. -E' carne... -disse lui leggendo i suoi pensieri. -L'ho cotta io... Ma mi sono lavato le mani per bene prima, eh! L'ho avvolta in un pezzo di carta stagnola... Pulita, ovviamente!
Jessika sorrise sentendo i morsi che violentemente la spingevano ad accettare quell'allettante offerta.
-Lo sai che io ti ho già visto? -disse lei allungando il braccio e prendendo quel prezioso dono.
-Dici sul serio?
-Sì, un po' di tempo fa. In un supermercato. Ero proprio in fila dietro di te alla cassa.
-Ah, mi spiace non averti vista. Me ne sarei ricordato. Ma io non guardo mai in faccia i gagè... Oh, scusa, è l'abitudine.
-Non preoccuparti, puoi anche usare questo termine se ti va... La mia amica ne usa uno simile per chiamarmi... Mi chiama Jè a volte.
-Carino... e facile da ricordare.
Jessika assaggiò la bistecca staccandone un pezzetto con le dita e portandosela alla bocca. Lui fissò la scena con un ghigno. Era evidente che pensava a qualcosa sotto quell'espressione compiaciuta. Lei poi lo spinse a parlare.
-Guarda le tue mani... -indicò lui notando che non erano poi così linde. Le unghie, che portava molto lunghe, parevano reduci dall'aver scavato nella terra.
-Oh mamma! -esclamò lei che presa dalla brama del cibo non aveva pensato nemmeno a lavarsele. -Che vergogna! -disse ripensando a come poco prima era rimasta disgustata dalle mani nere di quell'uomo che gentilmente le aveva offerto una fettina. Ora la stava toccando con le sue, ed erano -a dir poco- sudice.
Lui sollevò le sopracciglia parendo soddisfatto, quasi si fosse preso una rivincita sul suo "popolo".
-So cosa pensi di me... -disse lei terminato di mangiare. -Pensi che io sia razzista.
-Hai imparato anche tu a leggere negli occhi?
-Quindi è così?
-No. Ti sbagli. Però conosco il disprezzo che gli altri nutrono verso di noi.
-Sai cos'è... Molti dicono che voi rapite i bambini e derubate le case... E sono molte le notizie simili a questa che ho sentito al telegiornale.
-Ricorda solo una cosa: non siamo tutti uguali. Come non lo siete voi.
-Hai ragione. Poi magari si tende sempre a dare l'accento a queste notizie che riguardano persone che non sono della nostra nazionalità, mentre anche tra noi c'è gente cattiva e marcia! Siamo proprio dei razzisti. -Jessika rifletté sulle parole dette prima "dall'anziano saggio", come lei stessa lo aveva chiamato. -Secondo te il duca cosa voleva dire?
-Non lo so. Ma posso dirti solo una cosa. Lui ha sempre ragione... -Hego si alzò. -Buonanotte... Jè!
-Anche a te...
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