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Capitolo Ventinove

La guerra più bella di sempre

Non sarebbe dovuta stare lì, seduta sulla zattera del Cavalluccio con le gambe in acqua e uno specchietto in mano. Rispediva la luce in cielo come se tra lei e Gamon ci fosse stata la guerra. Ogni tanto osava spostarlo appena di lato per vedere dove stava indirizzando i riflessi, e in quel momento la stella per poco non l'accecava e la sconfiggeva.

Invece che litigare con una stella, sarebbe stato più intelligente andare ad Asdenar in cerca del Benefattore, e magari farsi spiegare un po' come aveva intenzione di bere un bicchiere di veleno dopo l'altro senza rimanerci. Però lo sapeva che Tanesin aveva in mente ben'altro, che cosa di preciso non lo sapeva, ma d'altronde non sapeva nemmeno cosa avrebbe ottenuto lei cercando di far toccare scienza e magia. Era la promessa di una sorpresa terrificante, qualcosa che le faceva venire la pelle d'oca anche nel momento più caldo della giornata.

E poi c'erano loro due. Sembravano due amanti in lotta fra loro. Quando Tadon compariva in cielo col suo Pianeta a spicchi colorati, il Vecchio Cavalluccio faceva la stesso, ma sulla sua barchetta, all'orizzonte.

«Farebbe meglio a scendere da quel coso» disse, attraccando alla zattera, per l'ennesima volta da quando lei era tornata.

«Perché?» chiese Maed, chiudendo un occhio per cercare la giusta angolazione dello specchio e continuando a spedire frammenti di luce quasi alla cieca.

«Non ti vedrà mai, smettila anche tu» continuò, issandosi su per uno dei pali ai vertici della sua casa. Ora ansimava, mentre la fissava appoggiato al palo di legno. Le gocce d'acqua scivolavano sui suoi tatuaggi.

«Perché» disse ancora Maed, ma adesso era suonata più come una lamentela che una domanda. Subito dopo sentì le labbra tendersi in un sorriso nervoso, perché le sembrò che il pallone di Tadon si stesse finalmente avvicinando al mare. Forse lo aveva colpito nel punto giusto, e lui aveva capito.

Il Cavalluccio, appena ebbe ripreso fiato, le passo accanto e andò ad aprire la botola sul tetto. «Perché è ora di andare!» L'enorme tela sopra il tetto si slegò e sbatté sul legno con tutto il suo peso.

Maed rimbalzò sul posto, e dovette aggrapparsi al bordo della zattera con la mano libera per non cadere in mare. L'acqua incominciò a fluirle tra i polpacci come la corrente di un fiume.

Salì sopra, dove il Cavalluccio se ne stava in piedi, una mano appoggiata all'albero e le grosse funi della vela che cigolavano sopra la sua testa. Era stato difficile farselo entrare in testa, ma se il Vecchio aveva la schiena curva era perché ci metteva del suo. Lo stesso valeva per i suoi sofferti ansiti da vecchio. In quei momenti, si lasciava prendere dall'entusiasmo e si dimenticava cosa aveva sempre finto di essere. O forse non se ne dimenticava, semplicemente lo voleva e basta.

«Sto andando a vedere la gara, Maed» disse, continuando a guardare verso il porto. «Nessuno dovrebbe perdersela.» Lanciò un'occhiata brevissima al Pianeta di Tadon, che adesso proiettava per intero la sua ombra sulla superficie dell'oceano e avanzava minaccioso verso di loro, come un veliero volante. La sfera di stoffa poteva essere benissimo scambiata per un'enorme vela circolare, il cestello per uno scafo di legno. «Quello che dirà oggi il Benefattore è di una importanza fondamentale.» Si voltò per guardarla. «Tiferò per lui.»

«Mi sembrava ovvio» disse Maed, appoggiando una mano all'albero, appena sopra quella del Cavalluccio. «Non c'era bisogno che me lo dicessi.»

«Ormai lo sai anche tu che c'è qualche attrito tra lui e Andelus. Questo, intendevo.»

Maed stava per nascondere lo specchietto ricurvo in tasca. Lo sollevò di nuovo e fece finta di lanciare un altro luccichio verso Tadon. Trascorse troppo tempo senza una risposta, col solo e imbarazzante suono del vento in sottofondo. «Come mai adesso mi dici tutte queste cose?»

Lui non aspettò una frazione di secondo. «Ti ho detto cosa voglio io, ora tocca a te dirmi cosa vuoi tu.»

Maed infilò lo specchio in tasca. Indossava un vestito pieno di strappi, l'unico rimasto, di tutti quelli che si era portata alla zattera da quando era scappata dalla Villa. Continuò a rigirarsi l'aguzzo pezzo di vetro tra le dita, accarezzando nel frattempo il bordo di un taglio nella seta.

«Dopo il Benefattore tocca a me» disse, infine. «C'è una gara anche per me.»

Il Cavalluccio questa volta ci pensò un attimo. Inspirò per un paio di secondi, e quasi sembrò che fosse lui la causa di tutto il vento contro di loro. «Da che parte stai?» chiese, trattenendo tutta la sua incredulità nei polmoni, se mai c'era stata.

«Sto dalla mia parte.»

Il Pianeta di Tadon era sempre più vicino. Fosse stato un vero pianeta, Tumenor l'avrebbe attratto a sé, e lui avrebbe fatto altrettanto con Tumenor, e entrambi si sarebbero scontrati frantumandosi in mille pezzi. Eppure il pallone avanzava così leggero.

«Torniamo al punto di partenza, così. Che cosa vuoi?» chiese, ma non le diede nemmeno il tempo di rispondere. «Dimmi, Andelus ti ha adescato per uno dei suoi stupidi giochetti sullo stupore? Lo vedo come guardi a Tadon, sopra quel coso, e non mi piace per niente. Se per caso avete in mente di...»

Maed si sentì scoperta e levò la mano dall'albero come se d'un tratto fosse diventato rovente.

Non riuscì a distogliere lo sguardo dal Pianeta che passava indolente sopra di loro, investendoli con la sua ombra. E fece di nuovo freddo.

«Oh, per fortuna non cercava te.»

Il freddo se ne andò, lasciandosi dietro una scia di brividi. Tadon proseguì verso l'oceano lontano, come se sotto di lui non ci fosse stata altro che la superficie del mare, niente di interessante da vedere.

«Tadon!» Maed corse verso l'estremità a poppa del tetto, gridando a squarciagola. «Sono qua sotto!»

Una figura minuscola, scura e indistinta, si affacciò dal cestello, ma subito si ritrasse.

«O forse quello lì non era Tadon?» disse il Cavalluccio, raggiungendola da dietro e mettendole una mano sulla spalla. Maed se la tolse di dosso, mentre osservava incredula il Pianeta acquistare quota, e diventare sempre più piccolo. Sì, se ne stava andando per davvero.

Quando la casa del Cavalluccio fu abbastanza vicina al porto, lui legò di nuovo la vela all'albero e lasciò che la sua casa si avvicinasse da sola alla città. L'urto con la banchina fece barcollare Maed, distogliendo la sua attenzione dal cielo. Ormai Tadon era scomparso dentro una nuvola, e non vi era più uscito da almeno dieci minuti.

«Ci vediamo dopo, allora?» chiese alle sue spalle il Cavalluccio. Sbucava dall'apertura sul tetto con la sola testa. «Se tutto andrà bene, non ci sarà bisogno di una gara anche per te.»

«Non hai capito, Vecchio. Sono io a volerla la gara.»

Il suo sorrisetto si spense, e i tatuaggi sulle sue guance ritornarono alla consueta forma. Chiuse le palpebre e si calò giù per la scala, come se si stesse immergendo in mare.

Maed aspettò qualche secondo, lo sguardo fisso sul viale del porto, ma non vide nessuno allontanarsi. Trasse un respiro profondo e si calò anche lei.

Il Cavalluccio era seduto sulla sua seggiola, il bastone appoggiato sulle ginocchia. Per un momento sembrò essere ritornato quello di sempre, il Vecchio che aspettava paziente la visita di Maed, non quello che si tuffava in mare e stava in apnea per diversi minuti, o che scompariva con la sua barchetta senza apparente motivo. Eppure dietro di lui non c'era il mare sconfinato. La zattera era addossata alla banchina del porto, immobile. Lui non guardava lontano, si fissava i piedi. Era tutto sbagliato.

Maed lo superò guardandolo con la coda dell'occhio, e appena colse un minimo movimento fece guizzare lo sguardo in avanti e affrettò il passo.

«Stai attenta, Maed, come sempre» disse, ma lei non si girò a guardarlo. Si fermò sul bordo della zattera, la pietra del molo a nemmeno un metro da lei. «Te lo ripeto, quando il Benefattore parlerà degli Astrali, presta molta attenzione.»

«Io da piccola ci ho parlato con un Astrale.» Anche lei ora si guardava i piedi, cogliendo ai lati della sua mente immagini sbiadite del viaggio alla Reggia. «Ora me lo ricordo di più.» Le poteva quasi vedere strisciare sulle assi di legno, sbucare dalle nere fessure. Se ne andavano, tornavano. Timide, si affacciavano e acquistavano colore, sempre di più, e ora sembravano quasi ricordi veri.

La sua guancia si fece d'un tratto rovente, la sentì tagliarsi in mille brandelli, solo un attimo, poi una martellata la colpì alla tempia e lei era sdraiata a terra. Rimaneva soltanto un lontano rimbombo in fondo alla testa. Il sangue le sgorgò dalla bocca ribollente e ricco di sapore.

Inspirò, sentendo il legno umido sotto di lei, le alghe putride del porto, e sopra di lei vide il Cavalluccio, enorme da quella prospettiva, mentre agitava la sua mano scheletrica e si scuoteva il sangue dalle nocche.

***

Non ci fu bisogno di dire altro.

Una vampata di calore investì Maed proprio mentre risaliva il viale camminando all'indietro, mentre continuava a guardare il Vecchio sulla sua zattera. Fu tentata di tornare indietro, di scatenare la sua furia addosso a lui e spezzargli tutte le ossa sottili che si ritrovava.

Un'ombra sferica si era affacciata dietro un'enorme nuvola. Maed espirò, il suo petto vibrò, in un modo così bello che capì che non c'era bisogno di tornare. Avrebbe visto. Avrebbe visto anche lui cosa sarebbe successo dopo la gara del Benefattore.

Mentre si dirigeva verso la piazza, le sembrò quasi che tutti stessero aspettando proprio lei. I gabbiani sfrecciavano in stormi sparuti, si lanciavano verso le abitazioni, ripartivano verso il cielo, comunicando tra loro con strilli gracchianti. Sta arrivando, sta arrivando la piccola nobile scienziata. Un paio stavano zampettando sul cadavere di una donna riverso su un tetto, la testa gettata all'indietro verso la strada. Quando Maed li superò, i due volatili si destarono dal loro pasto sacro e fuggirono in un battito di ali convulso. Comparvero anche i nobili, e gli scienziati. Si erano affacciati dai tetti per vedere cos'aveva disturbato il silenzio, gli una alla sua destra, gli altri alla sinistra. E la guardarono salire fino a destinazione, senza fiatare, spostandosi cauti sulle tegole rotte.

La folla comparve all'improvviso. Gli uomini, le donne, i bambini, spingevano tutti, volevano entrare nella piazza e assistere alla vittoria o alla sconfitta del Benefattore. Alcuni, i più intelligenti, incominciarono a cercare una via da sopra, arrampicandosi su per i tubi di scolo. Maed li imitò.

Mancava qualche ora al tramonto di Gamon, e lei ne approfittò per scrutare ancora una volta il cielo. La guerra era cominciata, scienziati e nobili erano morti sopra le case, ma i tetti erano pur sempre di sua proprietà. Si spinse più in alto che poté, rigirando lo specchietto nella mano e cercando il punto migliore per mandare altri segnali di luce, fino a quando, senza preavviso, il suo cuore parve sprofondare.

Si ritrovò immobile sul ciglio del tetto, ma stavolta non era stata nessuna caviglia a impedirle di continuare. Si voltò per controllare se il Pianeta di Tadon si era nascosto di nuovo, stanco di essere cercato, di essere abbagliato. Era ancora lì, sopra il porto, come lo era stato tutta la mattina, ma adesso si stava allontanando di nuovo verso il mare.

Maed lasciò cadere lo specchietto e lo frantumò sotto un piede, dopodiché saltò il vicolo e continuò a correre. Quando sentì le gambe bruciare piacevolmente per la fatica, decise di fermarsi e si sedette.

Guardò Asdenar, la curvatura di Tumenor, il Pianeta di Tadon.

Sentiva la necessità di tirare fuori lo specchio, ma quando infilava la mano in tasca sentiva solo la seta liscia e strappata, e dopo qualche secondo passato a tormentarsi le dita il suo petto si distendeva, così come il suo respiro, e il desiderio evaporava. Appoggiò le mani dietro la schiena e aspettò.

La folla scendeva dalle ville come fiumi di fango, ripopolando la città. Sarebbe stato solo per quel pomeriggio, o forse sarebbe cambiato tutto ancora una volta. Sarebbe cambiato in un modo che nemmeno lei poteva immaginarsi. I nobili accompagnavano i cittadini come fossero stati i loro genitori, come se stessero portando i figli a fare una passeggiata. Ma c'era la guerra, dovevano stare attenti e tenersi tutti per mano.

«Ehi, codardi» urlò uno scienziato da un tetto, mentre altri due suoi compagni lo trattenevano, «comode le loro ville, vero?»

Alcuni sollevarono lo sguardo confusi, altri bisbigliarono, mentre uno degli scienziati spingeva via il suo amico e si rivolgeva alla folla. «Lasciatelo stare. Veloci, la gara sta per iniziare.»

«Non sei tu a decidere quando inizia» rispose un nobile, che spiccava con la sua veste viola in mezzo alla fiumana di gente. I due si guardarono per qualche breve secondo, ma non successe nient'altro.

***

Il luogo della gara era più gremito dell'ultima volta. Se anche qualcuno fosse caduto addosso a chi gli stava accanto, sarebbero comunque rimasti tutti in piedi, tanto erano premuti l'uno contro l'altro. Quando la fiumana di gente aveva dato segni di prosciugarsi, Maed si era spostata sopra uno dei tetti che dava sulla piazza. Non vedeva nulla. Solo persone. Si fece strada a gomitate, passando tra fianchi e braccia e la puzza di sudore, ma ancora niente. Adocchiò un camino. Lo scalò e infine vi si sedette in cima.

Era decisamente meglio da quella posizione. Si trovava più in alto di chiunque altro. Anche gli altri tetti erano colmi di spettatori, così i balconi, e Maed per un attimo ebbe il timore che tutto potesse collassare verso il centro della piazza in un enorme buco senza fondo. Sarebbe stata la fine della guerra. Lanciò uno sguardo rapido al cielo, verso le nuvole, ma scosse subito la testa e ritornò con gli occhi al palco.

Ancora non c'era nessuno, solo il tavolino e le due sedie. Nei due giorni appena passati si era figurata più volte seduta lì, con un bicchiere tra le dita e le labbra gocciolanti di veleno blu.

Di fronte a lei, su un tetto dall'altra parte della piazza, vide Gravio, le braccia incrociate. Stava insieme ad altri scienziati, ridevano.

All'improvviso sembrò che una ventata si fosse portata via tutto il vociare della folla, una parola dietro l'altra, dimenticandosi nella piazza solo qualche leggero sussurro. Gli uomini e le donne accalcati intorno al camino bisbigliarono, e poi, come se i loro occhi fossero stati attratti come una cosa sola da un'enorme fuoco nero, puntarono lo sguardo sul palco.

Tanesin era in piedi dietro al tavolino, le mani giunte sul ventre. Era davvero un fuoco nero. Perlomeno, lo era il suo lungo vestito. Maniche strette che si allargavano sui polsi e una gonna ondulata che arrivava a strisciare fino a terra. Ogni volta che si spostava sembrava far danzare come fiamme la seta che indossava. Da lontano, il suo volto incorniciato dai capelli lunghi e castani dava l'idea del fuoco che schiarisce e schiocca sulla cima.

Quando anche l'ultimo fiato si esaurì, Tanesin sembrò spostare le mani dal ventre verso i fianchi, ma come gelata dal silenzio improvviso le rimise all'istante dov'erano prima. «Se vi aspettavate di veder salire sul palco mia madre, come vedete, non è così. Non ho idea di cos'avesse intenzione di dire in questo momento, ma allo stesso tempo non penso che mi sforzerò per inventarmi qualcosa.»

Mise una mano sopra il fianco destro e si voltò dalla stessa parte. Nelle retrovie del palco, dove le assi di legno finivano a ridosso della parete di una casa, si aprì una finestra stretta e alta, e da lì uscì Shara, che indossava un vestito viola, seguita dal Benefattore nella sua veste bianca che gli copriva tutto tranne gli occhi. Dovette piegare il collo per non sbattere con la testa.

«Eccolo, il Benefattore» continuò Tanesin, senza spostarsi dal suo posto e costringendo l'uomo a rimanere indietro di qualche passo. «Sapete già tutto, avrete visto questa farsa decine di volte, ma non vi siete stancati. Eppure siete tanti. Forse sperate in qualcosa di nuovo, di mai visto.» Restò per qualche secondo in silenzio, e Maed ne approfittò per osservare la folla. Guardò anche Gravio, e i suoi scienziati fedelissimi, che come per magia avevano smarrito ogni traccia di risata dalla bocca.

«Fortunatamente mia madre non si trova qui, e oggi Asdenar è mia. Non ho veramente idea di come prenderebbe questa cosa che sto per dirvi, ma in realtà la gara del Benefattore è solo un piccolo riscaldamento per qualcos'altro. Faremo un piccolo esperimento, io e la mia nuova sorella.» Shara si fece di lato e si mostrò alla piazza.

Maed guardò brevemente in basso, ma ovviamente nessuno poteva sapere che sua sorella stava parlando di lei. Anche la folla schiacciata tra le mura della piazza non fiatò. Qualche sussurro giunse dal tetto sul quale era appostato Gravio. Le teste dei suoi compagni fedeli che si voltavano, in confronto all'immobilità circostante, spiccarono come abbagli di luce.

«Sarete tutti coinvolti, ma nessuno di voi si farà male, è promesso. Non è niente di programmato, in realtà, ma visto che siete qua, in così tanti...» Un nobile si era avvicinato alle spalle di Tanesin, e dopo averle sfiorato un braccio le bisbigliò qualcosa all'orecchio. Lei annuì seccata. Si girò, facendo scivolare lo sguardo su altri quattro nobili che salivano la scaletta del palco. «A quanto pare hanno fretta» disse, rivolgendosi di nuovo al pubblico. «Be', lo so che ora non aspettate altro. Il mio scopo era rendervi impazienti. Sarete distratti, fisserete il palco ma non vedrete nessun Benefattore.»

Tanesin chinò leggermente la testa, ma non ebbe nemmeno il tempo di rialzarla e indietreggiare che il Benefattore le avvinghiò il braccio con la mano guantata e la spinse di lato. Lei si fece da parte senza opporre resistenza, scese dal palco seguita da Shara ed entrambe svanirono in mezzo alla folla.

Il Benefattore raccolse un lembo della sua lunga veste e saltò sul tavolino facendolo traballare. Si portò le mani sul volto e aprì una cerniera all'altezza della bocca. «Ci sarà tempo per parlare, per spiegare ogni cosa.» Le sue labbra erano scure, i denti dello stesso colore della veste. «Ma prima, guardate.» Senza prima scendere a terra, si sedette direttamente su una delle due sedie con un contorto ma fluido movimento del corpo. Annuì al primo nobile della fila. Di nuovo, sorridendo, fino a quando egli non capì e si fece avanti, portando con sé una brocca di veleno e due bicchierini. Si sedette sulla sedia e la trascinò il più vicino possibile al tavolo.

Appena i primi due bicchierini furono pieni, il nobile non perse un secondo e si portò il suo alle labbra, ma il Benefattore allungò il braccio e gli afferrò il polso. «Brindiamo.»

Il tintinnio riverberò nella piazza anche dopo che entrambi ebbero vuotato il bicchiere. Non successe nulla. Ma si trattava ancora del primo.

Andò avanti così per tutti gli altri. Il nobile li riempiva fino all'orlo, i due brindavano, ed entrambi si scolavano il veleno gettando la testa all'indietro. Era davvero noioso come aveva detto Tanesin. Maed infilò la mano in tasca e si perse con lo sguardo tra la gonfia distesa di nuvole, ma anche la folla parve spazientirsi. Nel silenzio fiorirono dapprima brevi sussurri, e in pochissimo tempo il tutto si trasformò in un unico e grande mormorio generale. Ci fu qualche fischio, e poi qualcuno urlò, ma non si capì bene cosa disse. Maed riportò lo sguardo sul palco solo quando tutto culminò in quell'orribile verso, un conato così straziante che sembrava che qualcuno avesse vomitato l'interno intestino.

Il Benefattore scattò in piedi e fece cadere la sedia all'indietro. Il nobile sussultava, ancora seduto e abbandonato con tutto il peso sullo schienale. Ebbe un fremito più forte degli altri e si cappottò all'indietro. La sedia si schiantò sotto di lui. La folla strillò. Tutti volevano muoversi, ma non potevano, erano ingabbiati. Il nobile sussultò ancora, il suo collo si tese in alto come un arco mentre aveva un altro conato, e iniziò a tossire, una tosse secca, poi liquida, poi gorgogliante, fino a quando sulle sue guance non incominciò a ribollire il suo stesso vomito. Il suo petto vibrò per altri due o tre secondi e poi tutta quella danza spasmodica del suo corpo cessò di colpo.

Il Benefattore si sistemò la veste e raccolse la sua sedia. La rimise in piedi. Allungò un braccio per tirare il tavolo a sé e lo trascinò sul lato destro del palco. Le gambe di legno lasciarono sulle assi due strisce più scure, ma adesso il campo di battaglia era quasi sgombro come prima. «Continuiamo?» disse, indicando la nuova porzione di palco pulita.

Se il primo nobile, ancora sdraiato nella pozza del suo stesso vomito, era stato titubante a farsi avanti, il secondo dovette aspettare di essere afferrato al braccio dallo stesso Benefattore prima di muovere un muscolo. E fu il Benefattore a farlo accomodare, versò lui il veleno dalla brocca, si fece il brindisi da solo e poi sollevò il bicchiere al cielo, guardando la folla. Inclinò il capo. «Avete ragione» disse, dopo un po'. Sembrava stesse parlando a un rigoglioso prato, le teste dei cittadini come tanti fili d'erba, silenziosi, immobili.

Si scolò il bicchiere, prese la brocca e bevve direttamente da lì, il pomo della sua gola che sussultava vistoso anche da sotto la sua veste. «Facciamola finita» urlò, dopo aver inspirato con forza. «Ora vi accontento.» Inclinò il collo per dare un'occhiata al contenuto della brocca. «Vuoi finirla tu?» disse, protendendo il braccio verso il nobile. «Finiscila, ormai non ce ne facciamo più un bel nulla.» Il nobile aveva in mano ancora il bicchiere pieno. Si guardò attorno, ma i suoi compagni erano impassibili come statue. La pressione su di lui dovette essere così forte che non gli restò che appoggiare il bicchiere.

Come se avesse eseguito un trucchetto magico, il Benefattore si ritrovò sopra il tavolo nello stesso istante in cui il nobile batteva la testa, fondendone il tonfo con quello dei suoi piedi in unico assordante schiocco.

«Immagino che gli altri non abbiano intenzione di partecipare.» I nobili avevano lasciato il palco senza farsi vedere. Adesso era da solo, là sopra. «E le due ragazze se ne sono andate. Forse sono a preparare la sorpresa. Non mi interessa. La conoscenza vincerà anche loro.»

Maed salì in piedi sul camino, anche se non sapeva di preciso cos'avrebbe detto. Nessuno sembrò accorgersi di lei, perché qualcun altro era stato più veloce.

«Forse è meglio se stai zitto.»

Gravio. Anche lui era in piedi su un camino, le braccia dietro la schiena.

Il Benefattore fece scattare la testa verso di lui. La inclinò, e restò fermo in quella posizione per qualche secondo. «No, perché? Sono venuto apposta per parlare.» Si portò la mano alla faccia e aprì un'altra cerniera, stavolta verticale, che da sotto la retina per gli occhi scendeva fino alla bocca. Di sotto, come uno squarcio, sembrò spalancarsi il vuoto più nero e profondo. O forse era solo il contrasto della sua pelle scura con la veste bianca e splendente. «Sento caldo. Scusami, Gravio, forse così è meno elegante, ma ho bisogno di concentrazione adesso.»

«Che belli questi tuoi trucchetti, la tua veste, le cerniere. Alla gente piacciono queste cose. Lo sai che gli piacciono. Non mi sorprenderei della loro risposta, se adesso gli chiedessimo chi pensino che sia a comando degli scienziati.»

«Possiamo farlo, se vuoi. Ma lo hai detto, sarebbe palese. Non vedo altri contendenti» aggiunse, allargando le braccia e fingendo di cercare qualcuno accanto a lui. Si bloccò proprio quando vide Maed. Era ancora in piedi sul camino.

Lei lanciò una breve occhiata sotto di sé e si accorse d'un tratto di essere osservata. Gravio e il Benefattore rimasero in silenzio, nel frattempo. Pure loro la stavano fissando. Forse lo stava facendo anche l'intera folla. Maed trasse un respiro profondo e strinse i pugni, ma il Benefattore riprese a parlare prima che lei potesse riempirsi i polmoni, tornando a guardare dall'altro lato della piazza.

«Tu, è forse la prima volta che ti apri così al pubblico. Andelus... non mi ricordo, è mai uscito da quel Faro?» E la fessura sopra la sua bocca si illuminò con un sorriso.

«Se credi di ottenere il comando con questa argomentazione sei infantile. Sei un parassita. Ti sei trovato tu sui tetti, adesso sei tu sopra il palco. Complimenti, cazzo. Ma voglio ricordarti per quale motivo adesso ti ci ritrovi, sul palco. Stai attento alle tue spalle.»

Le teste della folla facevano su e giù, come pendoli. Il Benefattore non si voltò per controllare chi c'era alle sue spalle, si limitò a incrociare le braccia sul petto. In ogni caso, non c'era davvero nessuno. «Perché mi trovo qua? Lo sai, perché. Da più di cinquant'anni Andelus bramava questo momento. Non fa altro che scappare e nascondersi perché ha paura. Io ho vinto. Sono il primo sopravvissuto a un'esecuzione dei nobili. E tutti hanno visto.»

Stava per dire qualcos'altro, ma Gravio lo interruppe. «Semplicemente, hai dimostrato di avere lo stomaco più forte.»

Il Benefattore inclinò la testa quasi a novanta gradi. «Ma davvero, Gravio?» disse, a un tono quasi impercettibile. «Prima mi tradisci, mi fai catturare e mi regali il palco. E adesso questo. Andelus lo sa che stai avendo un confronto con me davanti a tutta la città?»

Gravio annuì. Movimenti ampi e lenti. Maed poteva vedere sul suo volto un sorriso tirato, quasi finto. O forse era solo l'enorme distanza. Accanto a lui alcuni scienziati si tormentavano le braccia, altri si voltavano per guardare giù, verso il porto.

«Lo sa che mi stai lasciando la strada spianata? Sarà qualche trappola delle sue, qualche giochetto nascosto, di quelli che vede solo lui. Non m'importa. Io sono a posto con la mia coscienza. Quello che ho fatto è davanti gli occhi di tutti. Voi vi divertite con queste cosucce, nascosti dentro il Faro, o dentro quella villa distrutta che ormai non è che un simbolo del passato. Ma chi ha dato ai cittadini un mezzo gratuito per salire le strade ripide di Asdenar? Chi?» Inasprì il tono all'improvviso, rivolgendosi per la prima volta al pubblico. «L'hanno distrutta. Non mi sono fermato. Non ci siamo fermati. Chi ha dato le luci alla notte, chi le ha messe nelle strade? Prima che mi catturassero, tutti hanno visto i miei carri fumosi. Tutti hanno visto il sangue blu del nobile dopo che il ferro gli ha trafitto il cuore. Chiunque potrà conoscere la scienza che sta sotto a ognuno di questi regali.»

«Hai troppa fretta, Benefattore. Tu non sai cosa vuole la gente.»

«Fretta? La gente vuole sapere! Perché credi si siano riuniti qui, oggi? Perché? Questa è la domanda che rimbomba nelle loro teste. Vogliono sapere cosa c'è sotto, vogliono la profondità. A nessuno interessa quanto sia scintillante e cangiante la superficie del mare. Dopo il tramonto, non rimane più nulla. Solo l'oscurità. Io so cosa c'è sotto la scienza. E pure voi, ma lo nascondete. Non vi rendete conto che siete uguali ai nobili? Per quale motivo credi che i cittadini abbiano assistito ad anni di esecuzioni degli scienziati? Credi che gli piaccia vedere uomini volare in cielo e poi schiantarsi a terra? Credi che si arrampichino sui tetti in attesa di un fulmine che scenda dal cielo perché bramano di vedere l'elettricità che corre sul corpo di un disgraziato? Vogliono sapere perché quel fulmine scende dal cielo. Lo vogliono sapere, perché così possono difendersi. Non vogliono essere stupidi pesciolini sul pelo dell'acqua, che saltano, contorcendosi in cerca d'aria, in fuga dai predatori. Vogliono essere squali, piovre. Sanno di poter respirare l'acqua, di avere muscoli possenti per spingersi fino al fondale, sanno di aver occhi luminosi per poterlo abbagliare. Lo possono accarezzare, mentre lo vedono. Possono tenere la sabbia bagnata e nera di pece tra le dita, e poi tornare su con un trofeo.» Il suo petto si gonfiava e si sgonfiava, la sua veste mandava bagliori scintillanti ogni volta che si muoveva. Con le dita si afferrò i lembi aperti della cerniera e li aprì un poco, per riprendere fiato. Riportò le mani lungo i fianchi. «Vogliono conoscere il segreto della magia.»

Rimase così, immobile, in attesa di qualcosa. E quel qualcosa arrivò. Con un lenta rincorsa, come se le urla fossero arrivate da lontano, la folla incominciò a gridare. Incominciò a battere i piedi. Il caos arrivò a poco a poco, ma quando fu totale i tetti presero a tremare. Maed credette di crollare. Ancora una volta, ebbe l'impressione che la piazza si stesse accartocciando su se stessa.

Il Benefattore attese. Adesso aveva le braccia levate. I lembi della sua maschera, attorno alla bocca, si muovevano, respiravano. Maed aveva gli occhi puntati su Gravio. Era girato di spalle, anche lui perso con lo sguardo da qualche parte giù verso il porto. Quando tornò il silenzio, si voltò e disse: «Secondo me non è così. Non li capisci veramente. E poi, tu non svelerai davvero il segreto della magia. Non osi.»

Il Benefattore incrociò le braccia.

«Sembra un sogno, questo» ridacchiò, dopo qualche secondo, scuotendo la testa. «Non ti vedo in forma, Gravio. Infili una frase vuota dopo l'altra. Non osi? Ma che significa?» Rise ancora, e stavolta si misero a ridere perfino dalla folla. Quando Shara salì le scalette a lato del palco, però, tutti parvero dimenticarsi di come si facesse. Il Benefattore sembrò aver valutato erroneamente quel cambio di umore così repentino da parte del pubblico, e continuò a parlare. «Mai momento è stato migliore di questo per dirlo. Che farai se lo dirò? Dài su, non darmela vinta così facile. Creiamo ancora un po' più di tensione, ti prego. Loro vogliono anche questo.»

Gravio era ancora voltato di spalle. Stavolta tutti gli scienziati lo erano. «Eh?» disse lui, senza degnare il Benefattore di uno sguardo. «Appunto.» Quando finalmente posò gli occhi di nuovo su di lui, il cambio nella sua espressione fu visibile anche dall'altro lato della piazza. «Che ti avevo detto?» disse, con voce tremante.

Shara puntava un coltello sul collo del Benefattore. Nel frattempo bisbigliava qualcosa al suo orecchio, in punta di piedi sopra il tavolino. Lentamente, egli si portò le mani di nuovo al viso, e chiuse tutte le cerniere che aveva aperto. Si voltò impercettibilmente verso la ragazza. La sua maschera di seta mandò qualche luccichio, mentre la sua superficie s'increspava con minuscole onde.

Qualcuno tra la folla prese coraggio e lanciò un urlo: «Merde, ha vinto lui, vi ha sconfitto!» Nessun altro lo seguì.

Gravio si era volatilizzato. Gli scienziati si agitarono, alcuni scomparvero nelle file più indietro, mentre quelli al centro si allontanarono per fare spazio a qualcosa.

Si era formato un corridoio, proprio di fronte a Maed. Ora si poteva vedere lo spigolo del tetto. Lei si sentì quasi esposta, come se una finestra si fosse spalancata e il vento avesse iniziato a soffiare contro di lei. E lei era nuda, aveva freddo, sopra quel camino. Un gabbiano si appollaiò proprio al centro, in cima al tetto. Si stava leccando un'ala, ignaro di tutto. Quando strillò e fuggì via in modo scomposto, una ventata soffiò nel corridoio, investì il prato di teste dentro la piazza e ogni filo d'erba si piegò, s'inchinò per ammirare cos'era appena comparso sopra di loro.

«Ragazzina!» urlò Andelus, slittando giù per il pendio del tetto. Due scienziati lo afferrarono prima che potesse cadere nella piazza. «Ehi, ragazzina, chiama tua sorella!» urlò ancora, e la sua voce fece tremare persino Maed, per l'autorità che vi era infusa dentro.

«Perché?» rispose Shara, alzandosi ancora di più sulle punte, mentre si aggrappava alla veste del Benefattore e spingeva il coltello sotto il suo mento.

«Tranquilla,» disse Andelus, riprendendo fiato, «se tua sorella non sarà d'accordo con me, il coltello non te lo leverà nessuno.»

Shara scese dal tavolino con un salto e scomparve dal palco per qualche minuto.

Andelus e Maed si fissarono per tutto il tempo. Anche se la sua espressione era sbiadita, da quella distanza, lei ebbe comunque l'impressione di essere in contatto con lui. Si sentì sprofondare in un posto diverso. Non c'era più la piazza, la folla, il camino. Solo lui. Per un attimo le sembrò anche di aver capito dov'era sempre stato, perché tutte quelle volte aveva preferito rimanere nascosto, perché aveva dato l'ordine di abbattere Tadon, e tante altre cose sul suo conto, ma rimase un guizzo troppo veloce per essere catturato. Lo rincorse da qualche parte, attorno a lei, alle sue spalle.

Tutto finì quando Tanesin parlò. «Perché mi hai chiamato?»

Maed si accorse che Andelus aveva distolto lo sguardo già da qualche secondo, come se avesse vinto quella sfida ben prima di lei.

«Facciamo un patto» disse. «È una questione privata, quindi non perderò tempo a spiegarti il perché di questa mia proposta. Ma confido nel fatto che quello che ti darò in cambio, quando avrò finito, sarà meglio di ogni altra parola.»

Tanesin sollevò il mento di scatto, in direzione di Andelus, e incrociò le braccia al petto.

«Sconfiggerò io il Benefattore. Una volta che sarà fuori da giochi, ti regalerò la guerra più bella di sempre.»

Tanesin si voltò. Invitò Shara a scendere dalle scale e la seguì.

Il Benefattore era solo, sul palco, ancora una volta. Le dita gli tremavano, mentre cercava di riaprire le cerniere sulla sua maschera.

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