Capitolo Trentaquattro
Capitolo 34
Ferite nel cielo
Dopo aver ucciso con le sue mani lo Scarabeo, dopo aver sentito i suoi gorgoglii scemare e la sua gola sgonfiarsi tra le sue dita, Maed aveva guardato il cielo in cerca di Astrali, ma in realtà era troppo provata per andarne a cercarne subito uno. Quello che era arrivato con Tadon e il suo Pianeta, sì, lui doveva essere lì vicino, ad Asdenar, ma no, Maed si accasciò lì dov'era, sul bordo della zattera, e fu libera di potersi riposare dopo giorni.
Con la guancia appiattita sul pavimento, davanti ai suoi occhi, appena oltre l'ultima e sfocata asse di legno, osservò il sangue scuro dello Scarabeo miscelarsi nell'acqua. Era grumoso e denso, piccoli lapilli neri galleggiavano a testa in giù e filamenti collosi si perdevano in profondità come tentacoli di una medusa. Quello non era stato un uomo, no. Maed aveva ucciso un alieno, e questo la faceva rabbrividire ancora di più. Si sentì il torace più stretto del solito. Le iniziò a girare la testa. Faceva lente capriole all'indietro, giravolte misurate, e a ogni giro la sensazione di nausea aumentava. Quando vide il mare alzarsi piano piano e quasi sostituirsi al cielo si spaventò e urlò, e all'improvviso, come spaventato del terrore stesso di Maed, il mondo ritornò al suo posto con una frustata. Ma ancora barcollava lento, ondeggiava, e non erano le onde. Era la testa di Maed. Lei sapeva una cosa, se lo sentiva. Sentiva il bisogno di vedere lo Scarabeo morire di nuovo, tra le sue mani, e allora era sicura che tutto si sarebbe calmato. Era come un'astinenza, vedere il sangue fermo e docile nell'acqua la agitava. Il silenzio era atroce, voleva le sue urla.
Maed si avvicinò ancora di più al mare. Si sporse con la bocca oltre l'asse di legno e fissò l'acqua da vicino. Chiuse gli occhi, e la testa riprese il suo lento rollio all'indietro, infinito. Si sentì a gambe all'aria, appesa a testa in giù, come in una delle magie di Tanesin. In quella posizione, fu sicura che il suo stesso vomito non l'avrebbe soffocata nel caso si fosse addormentata.
***
Quando si svegliò la sua gola era di una secchezza lacerante, ma almeno si sentiva meglio. Fu faticoso aprire gli occhi, qualcosa le aveva incollato le palpebre, come se avesse pianto durante il sonno. Prima di accorgersi di quei sibili e di quelle esplosioni lontane, seppe di avere sete. Non aveva mai avuto così tanta sete.
Era faticoso stare in piedi, il suo addome tirava, come abituatosi alla posizione fetale in cui era rimasto per chissà quante ore. Maed si tenne al palo al vertice della zattera per qualche secondo, china come una donna anziana. Provò a distendere la schiena poco a poco, e quasi sentì ogni sua fibra muscolare sfilacciarsi e spezzarsi. Il Cavalluccio teneva le sue riserve d'acqua sul tetto della casa, libere di potersi riempire quando pioveva. Arrancò di qualche passo e raccolse la scala di legno. Dopo averla posizionata sotto la botola, si iniziò a scalarla.
Lontano, alle sue spalle, udì ancora quel suono, un sibilo, che sfumava nel nulla, un attimo di silenzio e un grappolo di piccole esplosioni. Quando fu sul tetto della zattera, a carponi sulle assi di legno, si voltò in direzione di Asdenar e quello che vide furono alcune nubi bianche sopra la città, come piccoli batuffoli di cotone. Altri, più sbiaditi, li aveva presi il vento e li avevi srotolati in lunghe e sottili scie. La guerra non si era fermata dopo che lo Scarabeo era morto, mentre Maed aveva dormito, scienziati e nobili avevano continuato, come avevano promesso Tanesin e Andelus. La guerra più bella di sempre.
Tutti i vasi e le brocche del Cavalluccio erano prosciugati. Al loro interno rimanevano solo le striature bianche dell'acqua che era stata, sale e calcare di cui non si sarebbe fatta nulla. Maed si accasciò ancora a terra, guardò il cielo. Chissà quanto aveva dormito, e ancora ne aveva bisogno. Percepì la tensione scaricarsi attraverso la sua schiena come un fulmine doloroso, ma era piacevole. Chiuse gli occhi di nuovo, e rimase solamente con la sua fame e la sua sete. Non riusciva nemmeno ad aprire la bocca. Quando respirava dal naso, sentiva il fuoco, non l'aria.
Un alito di vento l'aiutò ad alzarsi. Si mise sulle ginocchia e si appese all'albero della zattera per non crollare un'altra volta. Non aveva forza nelle gambe, quindi fece tutto con le braccia. Si tirò in piedi, abbracciando l'albero come fosse una persona, e quando quella cima fu a portata di mano vi si aggrappò. Il dolore all'addome sembrò essere scomparso una volta per tutte, ma solo dopo che Maed ebbe lanciato quel grido così forte e straziante. Si accorse di quello che aveva fatto solo dopo essersi trovata di nuovo a terra, le gambe piegate sotto se stessa e lo sguardo ancora rivolto al cielo. Adesso una vela bianca e rossa ondeggiava tra lei e l'infinito, sbatteva sull'albero e produceva quel suono sordo e rassicurante, il suono del viaggio, che ti culla e ti promette che tutto andrà bene e che non c'è da preoccuparsi, ti puoi addormentare, ci penserà il vento a portarti a destinazione. Maed aveva slegato la vela e forse la zattera ora si stava muovendo. Sperò lo stesse facendo in direzione del porto di Asdenar, ma in realtà qualsiasi luogo andava bene, meglio del mare e della sua infinita distesa di acqua salata e avvelenata.
***
Ogni tanto si risvegliava. Udiva quegli sfrigolii nel cielo, quei sibili e quelle esplosioni che assomigliavano a qualcosa che grattava contro l'aria. Più vicino, il rassicurante rumore del vento sulla vela. Le bastava aprire gli occhi e vedere che l'acqua oltre il tetto della zattera si muoveva, e allora poteva richiuderli con un sorriso. Preferiva non vedere dove stava andando. Meglio scoprirlo alla fine e continuare quel sonno interrotto. Tutto sommato, non le dispiaceva risvegliarsi di continuo. Le dava una certa serenità, essere consapevole di star dormendo e che quando si sarebbe risvegliata avrebbe potuto dormire un altro po'.
***
Certo, in questo modo il tempo diventava parecchio confuso. Nonostante fosse sicura di essersi girata su se stessa solo pochi secondi prima, all'improvviso si ritrovò su un altro tetto. Era una casa, le tegole una volta erano state rosse, ma ora erano sbiadite, come l'aria di quel sogno, e il sole picchiava su di loro. La lucertola giaceva morta a pancia in su, ormai l'occhio esploso era colato fuori dalla sua cavità e si era seccato sulla terracotta rovente, pieno di bolle. Tutti erano in cerchio con i loro specchi tra le mani, in silenzio, a contemplare quello che avevano fatto. Maed si rivoltò un'altra volta durante il sonno. Lo seppe perché aveva aperto gli occhi per una frazione di secondo e aveva visto il porto di Asdenar più vicino. Forse stava andando alla deriva, ma il sonno la chiamava e quello per ora non era un problema. Fu in quel momento che ricordò di aver sognato la lucertola, una memoria fresca adesso. Appena richiuse gli occhi, come se la sua mente non fosse stata soddisfatta del sogno precedente, rivide l'occhio esploso della povera bestia, ma ora era più vicino, molto più vicino, come se Maed fosse stata piccola quanto lei. Guardando bene, la testa dell'animale ora assomigliava tanto al cranio dello Scarabeo frantumato sulla zattera, il sangue scuro come l'occhio fuso e accecato dalla luce concentrata dalle lenti. Maed si allontanò e, mentre lo faceva, si accorse che adesso a sedere accanto a lei non c'erano i ragazzi con lo specchio, Shara, Haon, Pems e Cran, ma Adelin e suo padre. Lei se ne stava con le gambe raccolte, Farnel, invece, guardava dritto Gamon, senza accecarsi. Sembrava che lo stesse sfidando. Maed gli chiese cosa stesse facendo, e Adelin rispose al suo posto. Gli chiede dove sta andando, disse. Maed si chiese perché ancora una volta, e in quel momento sua sorella urlò e si lanciò addosso a lei, aggrappandosi forte. Mi fa male la testa, gridò, e poi Maed aprì gli occhi e ricordò tutto all'istante, tutto il sogno insieme, in una volta, e vide che la zattera era approdata su una spiaggia di sale accecante, così accecante che gli occhi le fecero male, e scambiò una sua lacrima per il suo stesso occhio colato dalla cavità orbitale, e gridò pure lei e chiuse le palpebre ancora una volta, sapendo che adesso non avrebbe sognato altro. Era sveglia, il tempo di dormire era finito, e se non se l'era goduto prima non avrebbe potuto più.
***
Quando si fu calmata, riaprì gli occhi, sperando, per qualche strano motivo, che lo Scarabeo non fosse sopra di lei e si volesse vendicare. Anche se ormai lo Scarabeo era morto, annegato, inghiottito nel suo oceano, e gli Astrali ora sarebbero potuti tornare. Aprì gli occhi con cautela, avvertendo le ciglia annodate tra loro staccarsi una a una. Non c'era nessuno, solo una luce abbagliante, che spazzò in un secondo ogni residuo di sonno rimasto.
Nonostante la confusione, la sete e la fame, ora la sua mente era lucida. Sentiva di essere completamente bagnata di sudore. Il suo corpo era ancora indolenzito, ma stavolta sopportava il dolore. Staccò il braccio dal fianco, poi fu il turno delle gambe. Si snodò come un feto appena uscito dal grembo di sua madre. Quando fu in piedi la luce si rivelò, ancor più di prima, in tutta la sua luminosità. Dopo un istante accecante e doloroso, Maed capì che la zattera era approdata su una delle lunghe spiagge di sale che affiancavano il porto di Asdenar da entrambi i lati.
Lasciò immediatamente la vecchia casa del Cavalluccio, perché ormai era morta anche lei, dopo il suo proprietario, aveva terminato il suo scopo, e non aveva più niente da offrire. Ora che il primo Astrale era tornato, non c'era più bisogno di nessun guardiano nel mare, la via era spianata per tutti gli altri. Vengano, vengano pure tutti. Maed la degnò di un ultimo sguardo mentre camminava all'indietro sulla spiaggia, dopodiché si voltò e s'incamminò dalla parte che sperò la portasse al porto.
Il sale era acuminato, sotto i suoi piedi nudi, sfrigolava quando lo calpestava. Anche se le sue piante non erano ferite, Maed poteva sentire il suo bacio purificatore sotto la pelle. L'aria era pregna del suo odore denso e pizzicante.
Dopo diversi minuti, tutti uguali tra loro, come la riva alla sua sinistra e la scogliera nera alla sua destra, Maed intravide una costruzione apparire di fronte a lei. Era ancora sfocata da quella distanza, e ondeggiava, sommersa dal calore che si sprigionava dalla spiaggia. Quando fece per aumentare il passo, senza nemmeno sapere per cosa sperare, avvertì qualcosa cambiare nel sale che calpestava. Diventava via via più umido, più molle e appiccicoso. Quando fu chiaro che la costruzione rassomigliava a una casa, in un certo senso molto simile alla zattera a due piani del Cavalluccio, con pali in legno e assi orizzontali a fare da pareti, i piedi di Maed, ormai, affondavano in una pozza d'acqua. Guardò in basso, e si accorse di essersi inoltrata in una sorta di palude biancastra e salata.
La costruzione era viva. Il tempo, che sembrava essere scomparso in quegli ultimi istanti così uguali da quando si era risvegliata, era scandito da un'orchestra di ticchettii. La casa assomigliava più a una palafitta, vista da vicino. Le sue fondamenta affondavano direttamente nell'acqua torbida di sale e il legno sprigionava un forte di odore di marcio. Il soffitto era leggermente inclinato, costruito con centinaia di canne lunghe e sottili legate insieme, rivoli d'acqua ne percorrevano la superficie, piccoli torrenti appesi al legno e che sfidavano la gravità. Maed si sollevò i pantaloni e si avvicinò ancora di più, fino a inoltrarsi sotto la costruzione. L'aria lì sotto era più densa e umida. Come ad avvisare della presenza di un ospite, una serie di secchielli metallici appesi al soffitto tintinnarono scossi dal vento. Dell'acqua preziosa gocciolò dal tetto e si perse di nuovo nel torbido pozzo che stava di sotto.
Maed rischiò di sprofondare e si tenne forte a uno dei pali. Il fondo di sale della palude cambiava improvvisamente pendenza, sotto il tetto della costruzione lignea. Quando fu al sicuro, alzò lo sguardo, dirigendolo alle decina di secchi appesi al soffitto. Erano imperlati di acqua, come sudati. La mente fresca e riposata di Maed non lasciò sfuggire l'attimo, e lei, come una lucertola affamata allungò fuori la lingua e in uno schiocco si appropriò di una goccia d'acqua che era caduta. Bastò guardarsi intorno per una frazione di secondo, e la lucidità appena acquisita e la sete insaziabile le fecero adocchiare un bastone appeso a un palo, con una piccola protuberanza curva sulla cima. Lo afferrò, sempre tenendosi aggrappata per non sprofondare nel pozzo, e se ne servì per raccogliere un secchio.
Bevve avidamente. Pensò che tutto un secchio non le sarebbe bastato a dissetarla, ma ben presto si ritrovò sazia d'acqua e si staccò dal bordo di metallo. Si pulì le mani, e l'acqua era così pulita a guardarsi che non poté non usare quello che restava per buttarselo addosso. L'aria era rovente e l'acqua evaporò in pochi secondi dalla sua pelle. Prese un altro secchio, un terzo. Li avrebbe svuotati tutti, perché a ogni secchiata, nonostante l'acqua non fosse così fresca, si sentiva un pizzico più viva, lucida e sveglia di prima.
Poi ci fu di nuovo quel boato, e Maed all'improvviso si accorse che i rumori lontani, provenienti dalla città, erano smessi, ma ora stavano ricominciando. Il grattare dell'aria, i sibili e i botti. Come prima. Maed arrancò fuori dalla costruzione, risalendo a fatica la salita di sale sommersa dall'acqua, per ritrovarsi di nuovo sotto l'aggressione feroce di Gamon.
Fece appena in tempo a vederla, nascere, crescere e poi morire.
Dapprima, era un piccolo globo di luce, alto nel cielo, di un blu intenso, come il fuoco dei nobili. Silenzioso, si espanse, rivelando la sua natura discreta e puntiforme. Solo allora, quando era una sfera ancora più grande di Gamon, giunse il boato. Ma ancora cresceva, e più cresceva più i puntini di cui era composta acceleravano. Diventava sempre più grande, a dismisura, un enorme palla, e Maed pensò che non si sarebbe mai fermata, che il tutto sarebbe finito quando i punti di luce sarebbero stati così lontani tra loro da non formare più un insieme. Rallentarono. Per un attimo Maed ebbe sopra di lei, lontano, ma così grande, un enorme fiore blu, sbocciato e in piena maturazione. Tutto rimase così per un'altra frazione di secondo, che sembrò eterna e, proprio in quell'istante, pensò che se l'Astrale che era giunto dalle isole non era lì in città, come lei, a faccia in su e in silenzio, a contemplare quella meraviglia, allora non sapeva dove avrebbe potuto trovarlo. E tutto finì in quel preciso momento, il fiore blu appassì in un attimo, disintegrandosi nel cielo, e Maed tornò a sentire il gocciolio dell'acqua e i tintinnii metallici dei secchi.
Stava risalendo la pozza d'acqua per incamminarsi verso il porto, quando una pioggia di minuscole esplosioni giunse dal cielo. Ma ci fu solo il loro suono.
Il resto della strada che la separava dalla città lo fece di corsa. I fuochi e le scie colorate continuarono a riempire il cielo per tutto il tempo, ma lei non aveva tempo per fermarsi a guardare. Gettava un'occhiata ogni tanto, stando attenta a non inciampare, ma non poteva fermarsi, non poteva arrivare in ritardo, quando tutto sarebbe finito.
Il porto era deserto. Maed seppe di essere quasi arrivata quando la spiaggia di sale lasciò posto gradualmente a una stretta pianura bucherellata dall'acqua, come una spugna rocciosa. I moli incominciavano direttamente da quella roccia, proprio quando la parete che accompagnava la costa curvava improvvisamente verso l'entroterra e lasciava spazio ad Asdenar, alle sue strade e alle case inerpicate, avvolte da quella culla di pietra. Maed si fermò di colpo, quasi spiazzata alla visione quasi improvvisa della città. Si piegò sulle ginocchia per qualche secondo a respirare, e quando si rialzò una scia rosso sangue squarciò il cielo di Asdenar. La ferità si allargò, tentacoli di luce, gialli e arancioni, si espansero all'esterno, mangiando l'azzurro dell'aria. Lo squarcio evaporò com'era evaporato il fiore poco prima, il cielo si rimarginò e rimase solo del fumo bianco. Sapeva dove trovare l'Astrale. Maed aveva capito che le esplosioni giungevano da una precisa piazza di Asdenar. Forse era ancora in tempo.
Le vie erano pervase da un'atmosfera surreale. Non c'era una persona per strada. Il cielo continuava a sanguinare colori, a gemere, a rimarginarsi, come una bestia dalle infinite vite, immortale. L'aria incominciava a diventare acre, e Maed dovette coprirsi il naso e la bocca con la maglietta. La guerra più bella di sempre, se quello che stava accadendo ne faceva parte, era magnifica sì, ma al contempo pareva lugubre e aliena. Incomprensibile. Tutte le porte erano serrate, non si sentiva lo sferragliare di un carro. Una folata di vento portò con sé altra puzza di fumo. Maed ricordò, quasi sentendosi in un sogno, mentre imboccava una via particolarmente ripida, una delle più grandi, e vedendola così deserta, che tutti i cittadini erano stati convinti dai nobili a trasferirsi nelle ville. S'immaginò la sua Villa piena di gente estranea, ma non ci riuscì. Forse erano tutti i morti. Forse era un sogno. Forse aveva vinto lei la guerra, meraviglie squarciavano il cielo senza sosta e lei stava andando a trovare l'Astrale.
«Dove vai bambina?» urlò una signora anziana da una finestra.
Maed si riscosse. Anche la signora era imbacuccata nella stoffa, gli occhi a malapena visibili. Una nebbiolina sembrava separarle. «Non ti avvicinare, non la senti la puzza di scienza?»
Maed la ignorò e continuò a camminare.
«Ragazzina!»
Nonostante la strada che stava cercando fosse gremita, finché non svoltò l'ultimo angolo, lei non avrebbe mai detto che tutta quella gente potesse essere là fuori ad ammirare lo spettacolo. La via non era delle più larghe, era uno dei vicoli più inclinati. Le persone erano accalcate, occupavano la strada da una parete all'altra, guardavano tutti verso l'alto, verso la cima della strada, in silenzio. Maed vide Andelus in piedi su un tetto sulla destra, e per un attimo pensò che fossero tutti lì per un suo discorso, ma lui non guardava giù, anche lui guardava in cielo, le braccia incrociate.
Un sibilo, e stavolta arrivò prima lui della luce, squarciò il silenzio. Una goccia di luce sfrecciò in aria, esattamente al centro della cornice formata dalle abitazioni ai lati della strada, e gli spettatori accalcati di sotto sembravano gli spettatori di un grande quadro rettangolare, il quadro più grande che Maed avesse mai visto. La goccia si affievolì mano a mano mentre volava in aria, mentre continuava per la sua traiettoria dritta, e quando si spense il silenzio ritornò ancora più forte di prima, più carico e profondo, tridimensionale. Maed percepiva l'attesa, strati di attesa uno sotto l'altro, sotto quel silenzio. Metri e metri più in alto di dove la goccia si era spenta sbocciò un fiore di luce, un soffione dai semi bianchi e gli steli rossi. Non si accorse nel frattempo che altre gocce erano volate in cielo, e nacquero altre esplosioni di luce, in quel quadro enorme in cui si era trasformato il cielo di Asdenar. Tutti contemplavano il cielo in fiore.
Da quel momento in poi lame colorate, ferite di luce, e fiori, sfere luminose, lapilli e chiome fumose popolarono lo spazio sopra la strada. Ogni tanto smettevano, il silenzio tornava per qualche secondo, e partiva qualche applauso, qualche mormorio. Maed, in quegli istanti, ne approfittava per farsi strada, intrufolandosi in mezzo alla folla. Adesso ne era sicura, l'Astrale era lì in mezzo, lo sapeva perché aveva la sensazione di non toccare perfettamente con i piedi per terra, come se si fosse fatta più leggera, e tutto le ricordava quello che era avvenuto sotto il Pianeta di Tadon qualche giorno prima.
Durante una di quelle pause, Andelus conquistò il silenzio con un suo discorso.
«Siete coraggiosi, voi che non vi siete rintanati nelle ville dei nobili. Non siete rimasti in molti, ma sarebbe stato un peccato sprecare questo mio regalo. Lo vedo che vi state chiedendo cosa sta succedendo sopra le vostre teste. Ed è solo uno dei miei regali, il primo dei regali che la scienza vi propone. I nobili hanno aperto le porte delle loro ville, hanno detto ai vostri concittadini che stare in città era pericoloso, che noi scienziati siamo disperati e pericolosi, vi hanno ricordato di quello che è successo anni fa alle strade di Asdenar. Saltate in aria, esplose, come i fuochi che state osservando.»
In quel momento altre esplosioni colorarono il cielo, un mucchio di luci, qualche secondo di pausa.
«Se non avete esaurito il vostro coraggio» riprese Andelus, una volta ritornato il silenzio, mentre ancora qualche goccia di luce precipitava lenta, come fiocchi di cenere, «io apro le porte della mia di villa, sì, la villa abbandonata. Non è bella come quelle lucenti dei nobili, ma dentro, se vi fidate, potrete trovare un altro tipo di luce.»
«Oh.» Una mano agguantò il braccio di Maed.
Maed si voltò di scatto e il suo cuore ebbe un mancamento. Per un secondo, pensò di fuggire, di tuffarsi in mezzo alle gambe della gente, ma il ragazzo le tenne stretto il braccio, e lei alla fine, quando era chiaro che avrebbe dovuto affrontarla, pensò che poteva gestire quella situazione. Si guardarono per un attimo negli occhi. «Cazzo, ma sei viva allora» aggiunse lui.
Haon aveva la faccia scavata, più scavata dell'ultima volta. Era passato parecchio tempo. Dopo aver riconosciuto il suo volto, si sentì libera di distogliere lo sguardo, come per riposarsi da quell'occhiata così penetrante.
«Sono viva» disse, guardando per terra.
Rimasero così per qualche altro secondo, senza dire nulla. I fuochi continuavano a sibilare ed esplodere sopra di loro.
Haon continuò a tenerle il braccio, ma adesso si rivolse con lo sguardo verso Andelus, che riprese a parlare una volta che l'ultimo botto si era ridotto ormai a un'eco lontana.
«Se verrete, vi insegnerò tutto questo, e vi mostrerò altri segreti, e quei segreti al loro interno avranno altri segreti, e se con calma mi seguirete fino alla fine, scoprirete che tutto quello in cui avete creduto finora non basta, che i nobili non bastano, che il loro stupore è sottile e fragile, come una lastra di vetro, non vi è niente sotto, come una pozzanghera colorata. Io vi darò lo spazio profondo e le stelle, e non smetterete mai di nuotare.»
Haon a bassa voce, s'intromise. «Lo spettacolo, questo spettacolo di fuochi, è anche opera mia» bisbigliò a Maed, all'orecchio. «Ho lavorato strettamente con l'Esplosivo e con Andelus. Ora ne dovrebbero arrivare di belli, ancora più belli. Guarda che roba.»
«Stanno arrivando dalla capitale, i nobili della Reggia» urlò Andelus, sovrastando un fischio assordante. Un boato accompagnò il fiorire di una sfera di colore viola, enorme, ancora più grande di quella che Maed aveva visto dalla spiaggia. Andelus continuò a urlare ma i fiori esplodevano così forte che da là sotto non si sentiva nulla.
Maed ricordò. Sua madre era andata a chiamare i nobili della Reggia, e ora stavano arrivando tutti insieme. Ora che anche gli Astrali erano tornati lì, non aveva senso stare in disparte. Tutto stava confluendo ad Asdenar, scienza, magia, Astrali, qualsiasi cosa essi fossero.
Haon mollò finalmente il braccio di Maed. Non le aveva chiesto niente, né cosa aveva intenzione di fare, né da che parte stava. Era stata sicura che una domanda del genere sarebbe arrivata, e lei non sapeva cosa avrebbe potuto rispondere. Forse avrebbe detto che stava cercando l'Astrale, che importava. Anzi, in quel momento, sperò che Haon glielo chiedesse, che gli chiedesse cos'aveva in mente, per poterglielo dire, per vedere la sua reazione, ma quella domanda non arrivò. Lui, invece, incrociò le braccia e guardò in cielo, beato sotto la pioggia di fischi ed esplosioni.
«Ho in mente qualcosa per quando arriveranno le navi di quei nobili. Li farò saltare in aria tutti quanti, sarà qualcosa di spettacolare. Ti vuoi unire?» E con quell'ultima domanda si voltò verso Maed, con un sorrisino.
Maed annuì, soltanto per non starsene immobile. Siccome Haon non diceva altro, lei iniziò a guardarsi intorno, cercando una breccia tra la folla, uno spazio in cui infilarsi e continuare a salire la strada, fino in cima, dove lo stupore nasceva e dove l'Astrale l'avrebbe aspettata.
Con la coda dell'occhio vide che Haon si era distratto, ancora perso con lo sguardo in alto, e approfittò per allontanarsi.
Un peso cadde sulla sua gamba, nell'incavo dietro il ginocchio, e per poco lei non rovinò in avanti. Si aggrappò alla prima persona che ebbe davanti e si tirò di nuovo in piedi. Nessuno si accorse di quello che era successo. Chiese scusa, ma non l'ascoltarono, troppo presi dallo spettacolo. Si girò di scatto per vedere cosa le era caduto addosso, e all'improvviso si ritrovò, come in seguito a una giravolta repentina e fulminea, di nuovo sulla zattera del Cavalluccio, solo che sotto i suoi piedi c'era la pietra liscia di Asdenar, e quel sangue era rosso, non nero. Era tanto, un lago di sangue, e una donna giovane distesa in mezzo.
Maed non riuscì nemmeno a gridare. La voce le si annodò in gola, come se avesse voluto uscire più aria di quella che poteva passare.
Haon era ancora lì in piedi, a braccia conserte, lo sguardo in su. Quando il suo piede per sbaglio toccò la pozzanghera, il sorriso beato di prima era ancora stampato sulla sua faccia. Come stizzito, guardò in basso, per vedere cosa lo aveva disturbato dalla visione celestiale dei fuochi, era tutto così perfetto e all'improvviso qualcosa di insolito doveva avergli rovinato quell'esperienza perfetta.
Maed osservò tutto, ogni suo movimento, in attesa, in cerca di una reazione esterna, di una conferma, perché lei non sapeva come reagire. Era bloccata. Il cadavere dormiva nella pozzanghera, immobile, sangue zampillava dal suo fianco, tutti attorno non sapevano niente, ammaliati e distratti dalle ferite luminose che invece stavano nel cielo.
Haon finalmente urlò. Quasi si spaventò del suo stesso urlo. Indietreggiò, per quanto poteva. Maed era ancora immobile, schiacciata dalla folla. Qualcuno, si girò, anch'egli stizzito, e quando vide il cadavere per terra, la sua espressione si ribaltò completamente.
I boati in cielo erano così assordanti che le urla si spegnevano appena uscivano dalle bocche.
Un altro uomo cadde. Stavolta di fronte a Maed. Si tenne lo stomaco con entrambe le mani, dopodiché crollò sopra l'altro cadavere, aggiungendo altro sangue a quello che già c'era. Dietro di lui una figura con un cappuccio si voltò di scattò, infilò un coltello nella schiena della prima persona che trovò alle sue spalle, dopodiché s'intrufolò nella folla scomparendo per sempre.
Attorno a Maed adesso tutti avevano smesso di guardare in cielo. Adesso le urla crescevano. Crebbe anche il martellare nel petto di Maed. Si voltò di scattò, ma era tutto uguale attorno a lei, gente che cadeva, pozzanghere rosse, grida, spinta. Lo sguazzare dei piedi sul sangue, come bambini che giocano al mare.
Ne fu sicura, vide Shara correre furtiva in mezzo alla folla, in un mantello grigio, col cappuccio, come l'altra figura che aveva visto prima. Forse per un attimo incrociarono pure lo sguardo, ma lei venne inghiottita dalla folla fremente e si persero d'occhio.
Subito dopo una gomitata al fianco privò Maed di tutto il fiato che aveva. Lei si dovette piegare in avanti, mentre altri colpi arrivavano da dietro, dai lati. All'improvviso, un flusso repentino di sangue alla testa le ricordò che aveva la schiena scoperta, che presto un coltello avrebbe potuto infilzarla, forse proprio Shara, che adesso magari si era messa a cercarla, ma in risposta l'unica cosa che riuscì a fare fu camminare in avanti, ancora piegata, perché la pressione della folla era troppa attorno a lei. Un luccichio attirò la sua attenzione, a terra. Allungò la mano e raccolse un coltello. Era sporco di sangue, gocciolava. Un coltello da macellaio, l'impugnatura nera, la lama panciuta ma acuminata in cima. Continuò a gattonare in avanti e quando trovò un piccolo spazio si rimise in piedi, si guardò velocemente attorno. Osservò meglio il coltello. Voleva vederlo pulito. Se lo strofinò sulla maglietta fino a quando non luccicò dalla base alla punta.
In quell'attimo di calma, intravide uno dei fuochi sbocciare nel cielo. Era più lontano degli altri, diretto verso il mare, una cometa. La scia che si era lasciato dietro era insolitamente obliqua. Il boato interruppe la sua corsa troppo presto, troppo acuto, come un lamento.
Maed era completamente imbrattata. I suoi polpacci erano ricoperti di schizzi, così le sue braccia, e si sentiva la faccia bagnata, appiccicosa. Solo il coltello era pulito. Cercò una vittima, qualcuno. Il coltello era pesante, lo roteò un attimo, come fosse una spada. Avesse avuto un coltello, sulla zattera, avrebbe potuto aprire lo Scarabeo in due prima di gettarlo in acqua. Il mondo avrebbe visto le sue viscere inutili, l'oceano lo avrebbe divorato ancora più in fretta.
Per un attimo si convinse di aver maneggiato con poca cura l'arma che aveva in mano, quando sentì il fuoco all'altezza dei reni. Ma non era possibile. Cadde in ginocchio. Il coltello le scivolò dalla mano, rimbalzò di punta. Ebbe solo quell'immagine in mente, l'ultima immagine, prima che tutto si facesse così luminoso, così tanto luminoso da diventare accecante. Ogni cosa attorno a lei sfrigolava di luce, ombre abbaglianti. Era abbagliante anche il dolore alla schiena, così tanto da toglierle tutto il fiato. Chiuse gli occhi, tutto splendeva così forte, era insopportabile. Si portò una mano sulla ferita, sentì un fiume uscire dal suo corpo. Si stava svuotando. Cercò di arginarlo, premette con forza.
Stette così per qualche secondo, accasciata in avanti, la mano sulla schiena. La sentiva pulsare, premere con forza, il sangue che voleva uscire tutto, il cuore che pompava, per vincere la sua mano.
Tutto martellava dentro di lei. Ogni suo muscolo, le tempie. A ogni battito, però, le sembrò che la realtà stesse diventato di nuovo scura, come prima. O forse stava diventando troppo buia, adesso.
Sentì che forse poteva alzarsi.
Lo fece.
Il suo braccio destro era stanco, quindi, con attenzione, quasi meravigliandosi di quella lucidità, portò la mano sinistra sulla destra, e mentre premeva sfilò la destra da sotto.
Camminò in avanti.
Sembrava notte. Ombre vagavano. Maed, chissà come, si accorse di avere ancora il coltello in mano. Adesso era appiccicato indissolubilmente alle sue dita, legato alla pelle col suo stesso sangue.
Le ombre sembravano starle alla larga. Lei teneva il coltello in avanti.
Sembrava quasi essere diventata immortale, zoppicava così fieramente, e tutti si levavano, quando una fitta le fulminò tutta la schiena, come stoffa che si lacera di colpo.
Non voleva crollare a terra, allora incominciò a correre, anche se forse stava solo inciampando in avanti. Qualcosa incominciò a fiorire, nel retro della sua mente, come la consapevolezza che se avesse corso in avanti un altro po' forse non sarebbe morta, avrebbe trovato una salvezza.
Ci fu un movimento di ombre, persone che si spostavano in fretta, come per lasciarle spazio. Ma non era per lei. Si fece strada un individuo diverso, correva anche lui. Era come se avesse sentito un suo richiamo e fosse venuta a cercarla. Spinse di lato gli ultimi presenti.
Quando Maed lo ebbe di fronte, la realtà si schiarì di colpo un'altra volta. Adesso non più troppo luminosa, non troppo scura. Fu spiacevole, perché rivide tutto con chiarezza, il fiume di sangue per terra, i cadaveri, e sentì di nuovo le strilla, vide un bambino con la faccia squarciata crollare a un metro da lei, e per un attimo fu consapevole del dolore al rene destro, lancinante, appuntito, chiaro e limpido come non era mai stato.
Colui che correva verso di lei aveva il viso sofferente, anche lui si teneva un fianco, ma non stava sanguinando. La sua fronte azzurra era contratta dal dolore, gli occhi, gli occhi immensi, lucidi di lacrime, l'altra mano, quella libera, tremava, le dita affusolate che si contorcevano. Correva, correva, ormai non c'era più nessuno tra loro.
Maed si gettò nelle braccia dell'Astrale. O forse fu l'Astrale a gettarsi tra le braccia di Maed.
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