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Capitolo Trentadue

Gli Astri

Maed si era stancata ben prima di Tadon, adesso se ne stava seduta al centro del cestello con le gambe incrociate, e lui le girava attorno e continuava ad affacciarsi per guardare di sopra. In un altro momento tutta quella frenesia le avrebbe dato fastidio, ma adesso ogni cosa per lei era sfocata, come attutita. Stava giocherellando con una scheggia di legno, si pungeva con delicatezza la punta dell'indice.

«Va bene, penso che mi siederò pure io adesso.»

Tadon sospirò e cercò uno spazio per terra. Spostò la gamba di Maed e poi si rannicchiò contro la parete del cesto. Lei tornò leggermente più presente nel mondo attorno a sé, perché sentiva che presto Tadon le avrebbe chiesto qualcosa.

La fiamma rossa sibilava, sopra le loro teste.

Dopo qualche secondo, Maed sollevò la testa e lo osservò. Il suo petto si sollevava vistoso, se ne stava con la testa appoggiata contro il legno mentre osservava la spada di fuoco gettarsi dentro il pallone. Guardò su anche lei. Poteva vedere, piccoli e lontani, alcuni fori sulla stoffa, minuscoli buchi di luce. E un'ombra contorta, da qualche parte sulla sommità, dove gli spicchi colorati convergevano in un unico cerchio.

«Allora non farà niente?» chiese infine Maed, visto che lui non parlava.

L'ombra gattonò per qualche metro, si fermò.

«Penso proprio di no» ridacchiò Tadon. «Non so cosa gli sia successo là sotto nella piazza, ero in balia dei venti e non sentivo un bel nulla, ma dev'essersi trattato di qualcosa di brutto.»

Maed annuì.

«Mi sa che è un bel po' spaventato» aggiunse lui.

«Sta scappando, come noi.»

«Sì, ma è diverso, no?»

Maed inclinò la testa.

«Noi stiamo fuggendo, lui sta scappando.»

Siccome Maed non rispondeva, lui aggiunse: «Non ti sembra che fuggire sia più figo di scappare?» Poi rise da solo e si grattò il mento.

«Perché continuavi a girare a vuoto a bordo del Pianeta?» chiese Maed, dopo qualche secondo di silenzio. Sapeva che non era il modo migliore per riprendere il discorso, e sapeva anche che era stata molto fortunata se lui era andata a prenderla quando era venuta a prenderla, e non prima, e non dopo.

«Mi mancava sentirti dare il nome alle cose, lo sai?»

«Li hai visti i segnali che ti mandavo?»

«Li ho visti, li ho visti. È un bel nome Pianeta. Di sicuro non l'hai fatto apposta, ma sappi che non rispecchia solo le sue sembianze. Questa cosa è dannatamente difficile da manovrare. Anzi, fa quello che vuole lei. È come se non avessi le mani, non so come dirti. Se il vento soffia da quella parte, non puoi fare altro che stare a guardare e lasciarti guidare. È come se fosse tutto predestinato, il Pianeta segue il suo cammino. Posso solo farla andare su e giù. Più su che giù, in realtà.»

«I sacchi e la fiamma.»

«Brava, e adesso i sacchi li abbiamo pure finiti, e prima o poi finirà anche la fiamma. Comunque, adesso capisci perché non sono arrivato subito. Io non potevo fare altro che salire e scendere e sperare di beccare la giusta corrente d'aria. Anche se, alla fine, non so...» E non continuò più la frase. Stavolta spostò lo sguardo sopra la testa di Maed, come se cercasse qualcosa nel cielo che li circondava.

«Cosa, Tadon?» Gli appoggiò una mano sul ginocchio.

«Forse ha a che fare con quello che hai fatto tu, se lo hai fatto tu. Cioè, alla fine i venti hanno iniziato a confluire tutti verso quelle persone, verso quel mucchio volante di persone, e quindi all'improvviso non so chi ha deciso che io dovevo venire a prenderti. Dopo ore e ore di tentativi, alla fine io non ho dovuto fare un bel nulla.»

Maed nel frattempo si era ritirata di nuovo in se stessa. Allora gli effetti di aver avvicinato scienza e magia si erano manifestati ben prima che lei se ne potesse accorgere. Effettivamente l'aveva desiderato, aveva desiderato ardentemente che Tadon si avvicinasse a lei. C'erano stati degli scienziati, in mezzo a quelle persone, appesi ai loro Esplodiferro, sollevati dalla magia, da ben prima che li vedesse. E il Pianeta. Era stato lontano e piccolo ai suoi occhi, è vero, però era stato magnifico lo stesso.

«Sei stata tu, vero?»

«Penso di sì» disse Maed senza nemmeno pensarci. «Penso di sì, per forza. Tanesin non voleva che scappassi.»

Ma forse lei aveva fatto tutto da sola. Tutto. Tanesin non aveva usato fuochi, e non c'era stato odore di niente, e forse lei si era impiccata da sola, era stata lei a far volare tutte quelle persone. La sua magia, la sua arte, non richiedeva nulla di tutto quello che serviva ai nobili.

Maed scosse la testa.

«E come hai fatto?»

«Non ne ho idea, ma è stato bello.»

«Cazzo, e non vuoi sapere come hai fatto?» Tadon tirò indietro le gambe e raddrizzò la schiena, gonfiando il petto. «Allora, deve esserci per forza una spiegazione. Possiamo ragionarci su insieme» disse, puntando il dito sul fondo del cestello. «Non ho dove andare e abbiamo un sacco di tempo. Sarà difficile perché non abbiamo niente su cui scrivere, ma sarà divertente, no?»

Maed si alzò in piedi. La testa le girò un poco e lei afferrò il bordo del cestello. Chiuse gli occhi per qualche secondo. Alle sue spalle, sentì Tadon che si alzava. L'affiancò.

«Tutto bene?»

Maed aprì gli occhi, ora che la testa aveva smesso un po' di girare, e guardò giù. Il mare era scintillante. Centinaia di creste luccicanti si accendevano e spegnevano, ricomparivano qualche metro più in là, e di nuovo se ne andavano. Stavano volando sopra una zona scura del mare, una macchia nera sotto la superficie. Come un animale enorme e immobile, di cui si poteva conoscere solo la forma. Maed ebbe la sensazione che a momenti si sarebbe mosso e sarebbe saltato sopra la superficie per mostrarsi a loro, scrollandosi l'acqua di dosso e poi riaffondando nella sua dimora, levando in aria onde alte decine di metri, rimestando e scuotendo l'oceano, ma non successe nulla. Il mare rimase immobile, e così quello che celava dentro di sé. Forse era davvero una semplice macchia scura sul fondale.

Maed strinse più forte il bordo del cestello e socchiuse gli occhi per guardare meglio.

Dopo qualche secondo, si rilassò. «Tadon, potresti portarmi alla zattera? La zattera da cui ti mandavo i segnali con lo specchio.»

Le funi sopra le loro teste si tesero, e tutto il pallone gemette lievemente. Tadon lanciò uno sguardo in alto e stette così fino a quando le corde non smisero di cigolare.

«Non possiamo atterrare, però» disse, abbassando di nuovo il capo. Non la guardava in faccia, ma lei poté notare ugualmente la sua espressione triste. «Se atterro in acqua, temo che non riusciremo a risollevarci più.»

«Mi basta una corda, scendo io e basta.»

Tadon si girò e appoggiò la schiena al cestello. Incrociò le braccia.

Maed ebbe la sensazione di aver detto qualcosa di sbagliato. Doveva avere a che fare con il fatto che lei se ne voleva andare così in fretta, dopo tutti i suoi sforzi per tirarla fuori da quel guaio. Eppure non poteva aspettare altro tempo. Non riusciva a vedere la zattera, ancora. Ma se non si sbagliava, erano comunque ancora lontani. Sapeva che il Cavalluccio era ritornato al suo solito posto, ci poteva scommettere. Probabilmente sapeva che Maed sarebbe andata a cercarlo, come sempre. Inoltre, il Cavalluccio aveva parlato di Astrali, Maed aveva parlato di Astrali, il Benefattore aveva parlato di Astrali, e il Benefattore era ancora attaccato al Pianeta con tutte le sue forze. Non stava scappando. Nemmeno fuggendo.

«Devi solo spegnere la fiamma e farci scendere un po', poi puoi andare via» disse Maed, mettendosi anche lei nella stessa posizione di Tadon, la schiena appoggiata contro il cestello. «Se resti ancora troppo tempo visibile, gli scienziati troveranno un modo per abbatterti. Devi trovare un posto dove atterrare e ritornare a camminare per terra per un po', scomparire per qualche giorno. Non credi?»

Tadon sembrò allentare la morsa delle braccia sul petto. Sospirò.

«Non so dove andare.»

«Perché stai fuggendo da loro?» Stava per chiedergli perché cercavano in tutti modi di abbatterlo, ma si fermò all'ultimo, con la bocca socchiusa.

«Quanto è lontana questa zattera?» chiese lui, dopo qualche secondo di silenzio. Si girò verso di lei. «Quanto tempo ho per raccontarti tutto?»

Maed sentì qualcosa sciogliersi nel suo petto. «Mmhh...» Lanciò rapide occhiate al mare sotto di loro, sperando di non vedere già la zattera e la tela montata di sopra. Non tanto perché sarebbe dovuta già scendere, avrebbe ascoltato, avrebbe ascoltato tutto quello che Tadon aveva da dire e si sarebbe lanciata in acqua solo alla fine. Avrebbe nuotato fino alla zattera, se quello era il prezzo.

Non vide nulla, oltre al blu chiazzato dell'oceano. Evitò di guardare in alto, dentro il pallone, ma tese l'orecchio per cogliere anche il minimo struscìo sulla stoffa.

«Ancora abbiamo tempo, Tad. Quindi, che è successo?» Maed scivolò con la schiena sulla parete del cestello e si sedette a terra. Fece segno a Tadon di accomodarsi.

Sentì il cuore stringersi un poco, al solo pensiero che da un momento all'altro il Benefattore sarebbe potuto saltare di sotto e lei avrebbe dovuto seguirlo, abbandonando Tadon per l'ennesima volta.

Ma non voleva vedere. Non voleva vedere la zattera comparire piccola piccola all'orizzonte e poi avvicinarsi. Doveva avere solo gli occhi di Tadon di fronte a lei.

«Tanto il Benefattore, là sopra, anche se non lo guardiamo non si muove» disse, spostando le gambe per fargli spazio. «L'hai costruita tu, questa?» chiese, visto che Tadon non iniziava a parlare.

Una folata di vento fischiò attorno a loro e investì il cestello, facendolo ondeggiare. A Maed non poté non ritornare in mente l'altovia, le sue bolle di vetro che avevano ondeggiato come perline di una collana.

Proprio quando Tadon iniziò a parlare, sentì un dolore allo sterno. No, era dentro, in profondità. Si perse i primi secondi di quello che stava dicendo, ma era troppo impegnata a combattere con quella mano nera che gli scavava nel petto e si divertiva a torcerle il cuore.

Adelin.

Maed inspirò e trattenne il fiato. Quello sembrò calmare ogni cosa. Più non respirava, più la mano si ritraeva lontana e la lasciava stare in pace.

«Maed, devi vomitare?»

Maed tossì, coprendosi la bocca con la mano.

«No» rispose. «Solo un po' di nausea.»

«Va bene. Dimmi se ti senti male. Questa cosa è peggio di una nave.»

Maed rise.

«Dicevo, questa era tra le invenzioni da provare. Ovviamente se ci siamo spinti così lontano era per l'Astro, ma abbiamo approfittato del viaggio per provare un po' di tutto. È stato difficile far entrare tutto in una nave, ma ora come ora non possiamo davvero permetterci di fare un viaggio ogni due Saluti. Ce ne andiamo qualche giorno, e magari torniamo e scopriamo che nel frattempo tutti gli scienziati sono morti.»

«Aspetta, quindi... ci sono due Astri?»

La mano scura dentro di lei le pizzicò le costole e una fitta sottile, acuminata, s'infilò dritta dritta nel suo fianco.

Tadon sospirò, un piccolo sorriso che guizzava sulle sue labbra. «Ricominciamo.»

Maed fu debole per un solo secondo, e guardò in alto, per controllare se il Benefattore era ancora sopra il pallone. Si accorse di essere venuta meno al suo patto solo quando ebbe di nuovo il viso di Tadon di fronte a lei.

«Diciamo che sì, l'obiettivo è di costruire due, tre, decine di Astri. Ma ancora non sappiamo, non sanno, non sanno nemmeno che farsene di uno. Lo usano come simbolo. Come dargli torto. Penso che quando Andelus lo mostrerà per la prima volta a tutta Asdenar avrà praticamente vinto la guerra contro i nobili e tutta la città sarà sua. Ma ancora è solo un grosso tubo di acciaio con un po' di vernice addosso. Non abbiamo portato l'Astro sull'isola. L'Astro è ancora nascosto nella villa. Abbiamo portato quello che avrebbe dovuto farlo volare. Senza di quello Astro rimane solo un nomignolo senza significato. Anzi, nemmeno dovrebbero chiamarlo Astro. Non ne hanno il diritto.»

Adesso Tadon non si fermava più. Maed avrebbe voluto fare una domanda, per dimostrare il suo sincero interesse, per ringraziarlo di quello che aveva fatto per lei, ma ormai non gli importava più nulla. Lui aveva iniziato a parlare e le sue parole erano un muro invalicabile, senza fessure.

«La parte più difficile è stata trovare un'isola deserta. Non so se le hai mai viste, tutte quelle isole, migliaia. Alcuni tratti dell'oceano diventano profondi come pozzanghere e all'improvviso incominciano a spuntare come funghi questi pezzi di terra.»

Maed annuì.

«Erano così tante che non abbiamo potuto aggirarle. Ci siamo passati in mezzo. Da lontano potevamo vedere con i nostri telescopi le ville enormi dei nobili, ancora più grandi di quelle che ci sono in cima ad Asdenar.»

«Ci sono più i nobili su quelle isole che in città» disse Maed, riuscendo a infilarsi. «Tutti quelli che normalmente sarebbero dovuti morire.»

Tadon inghiottì a vuoto. «Sono stati attimi di terrore, stavamo in silenzio, in attesa del peggio. Credimi. Sentivamo solo lo scafo che fendeva l'acqua e non c'era altro rumore. Andelus era il più silenzioso, ma era troppo tranquillo, e lo avrei ucciso per questo. Quando le abbiamo superate, abbiamo aspettato tre giorni prima di festeggiare. Eravamo troppo sconvolti.»

«Vi siete spaventati per nulla» ridacchiò Maed, ma la sua risata suonò un po' troppo nervosa. «Sono stanchi e pigri, per questo li mandano lì per l'eternità quando sono troppo vecchi.»

«Per fortuna siete ancora pochi, si fa per dire. Dopo quelle isole ce n'erano di altre, piccole e identiche alle prime, ma niente ville questa volta. Ci siamo fermati. Abbiamo svuotato la nave. E abbiamo cominciato.»

Isole deserte.

Maed in quel momento ebbe la forte tentazione di scattare in piedi e controllare il mare sotto di loro. L'avvertì come un improvviso prurito alle gambe e alle mani, ma chiuse forte gli occhi e resistette. Tadon aveva smesso di parlare di colpo, ma lei scosse la testa e lui ricominciò a raccontare.

Elencò tutte le invenzioni che gli scienziati avevano provato sull'isola. Partì dalle cose piccole, cose a cui Maed non prestò attenzione perché nel frattempo l'aveva rivolta di nuovo sopra di lei, volontariamente. Se non poteva alzarsi e controllare se la zattera del Cavalluccio era in vista, poteva ascoltare i movimenti del Benefattore. Trattenere ogni tentazione dentro di lei l'avrebbe sfiancata. E lei era debole. In quel momento, come una valanga, tutto quello che era successo sopra la piazza nemmeno un'ora prima la travolse di nuovo, le fece vibrare ogni osso dalla testa in giù. E alla fine della valanga, per ultima, c'era Adelin.

Maed rimase in uno stato di confusione per qualche secondo.

«Come la uccidi un'idea?»

Maed sentì freddo sul ginocchio, e questo la fece ritornare immediatamente dentro al cestello. Tadon ritrasse le sue dita dal ginocchio e, dopo aver sostenuto il suo sguardo per un attimo, sollevò la testa verso l'alto.

Il Benefattore non si trovava più al centro, in cima al pallone. La sua ombra si era spostata di qualche metro. La stoffa vibrò dalla cima alla base, e la fiamma ondeggiò rapida prima di tornare affilata come una lama.

«Come, Tadon?»

«Secondo te come si può uccidere un'idea? Non si può, vero? Se anche provassi a distruggere la cosa che la rappresenta, l'idea rimarrebbe sembra viva.»

«Cosa c'entra questo col viaggio?»

«Ti vedo, Maed. Qualcosa mi fa pensare che fra poco scomparirai di nuovo, chissà per quanto, e forse non abbiamo così tanto tempo come pensavo, ma io devo arrivare al punto o rischio di non poterti mai raccontare questa cosa. Rispondimi e io ti dirò cosa c'entra. Come la uccido un'idea, o meglio, una promessa?»

«Be', se uccidi le persone che hanno fatto la promessa, e anche le persone a cui l'hanno fatta, non hai ucciso anche la promessa? O l'idea. Nessuno saprà mai che è esistita.»

Tadon si afferrò con i denti il labbro e fece di no con la testa, tornando a guardare Maed. «Avrei dovuto uccidere tutti, tutti gli scienziati, Andelus compreso.»

Maed si protese in avanti. «Cosa?»

«Se sono partito con loro, era per sabotare le prove dell'Astro. A parte te, e be', adesso anche loro, non lo sa nessuno.»

«Perché?»

Tadon accennò un sorriso. «Perché l'Astro sono io, Maed. Così dovevo chiamarmi, il mio nome da scienziato. E me lo hanno rubato. Mi hanno rubato il nome e non sapevo come riprendermelo.»

Maed restò a bocca aperta, in cerca di qualcosa da dire, ma non le venne in mente niente. «Chi te lo ha rubato?» domandò infine, quasi scattando in avanti.

«Non lo conosci, tanto. Ma lui ha l'idea per far volare l'Astro fino alle stelle e mi ha derubato.»

«È quella l'idea che vuoi uccidere? O vuoi uccidere l'Astro?»

«Dovrei uccidere l'Astro, sradicarlo dalle menti di tutti gli scienziati, prima che possa entrare nelle teste dei cittadini di Asdenar, così che io possa riappropriarmi del mio nome, ora che non apparterrebbe più a niente, a nessuno. Io ero l'Astro, cazzo. E Andelus mi ha tradito. Come fai a riprenderti un nome, Maed, eh, una volta che tutti credono di aver visto a chi appartiene per davvero? È così grande, così bello, è una promessa bellissima, il cielo, le stelle, tutto quello che non abbiamo mai visto. Come fai a strapparglielo? Non sono in grado di uccidere persone, no, ma quell'idea, cazzo, forse sì. Ma ormai è così bella che è immortale.» Si passò la lingua sulle labbra screpolate dal freddo. Chiuse un attimo gli occhi, come per assaporare qualcosa. «E allora, ho pensato, come faccio per renderla di nuovo mortale? Come noi, noi che non siamo nobili. Sarebbe potuta morire da sola, e ben presto sarebbe scomparsa dalle menti di ognuno. Doveva fallire. Non posso distruggere l'Astro, non sarebbe morto in quel modo, perché ne avrebbero costruito un altro, e poi un altro. Ma se quello che rappresenta l'Astro non potesse funzionare, ho pensato, l'Astro diventerebbe un cilindro di ferro che luccica un po', ma non fa niente, e che non potrà mai fare niente.»

«Ma tu, Tadon, vuoi volare, non capisco cosa stai dicendo...»

Maed lo prese in contrattempo. Aveva aperto la bocca, pronto per continuare, ma si bloccò. Rimase immobile, ad ansimare.

«Quello stronzo, hanno preso la sua idea, la sua, lui che ha giocato sporco. Mi ha derubato. L'Astro non sarebbe volato mai, in quel modo. Questa cosa su cui siamo noi adesso va più in alto. Non lo capivano, e io ormai avevo deciso, volevo di nuovo il mio nome. Era un bel piano il mio. L'Astro sarebbe morto da solo, davanti agli occhi di pochi scienziati. Così si uccide un'idea, l'avveleni e la guardi mentre marcisce da sola, guardi loro che scuotono la testa, che piangono, e che tornano a casa in silenzio.»

Maed sentì un brivido sul collo. Si appiattì contro il cestello, ritrasse le gambe. Tadon la fissava, in attesa di una risposta. I suoi occhi erano spalancati, desiderosi di una conferma. Maed fuggì con lo sguardo.

«Mi è bastato tagliare quella cinghia.»

«Non lo vedremo mai volare, Tadon?» Lo disse ancora guardando di lato.

Il pallone sopra di loro sembrò ansimare. La fiamma, rossa, acuminata, non si spostava. Maed non riusciva a non distogliere lo sguardo dalla sua anima ipnotica.

Con un sibilo divampò, penetrò ancora di più il Pianeta, ed esso gemette in ogni suo punto. Maed si sentì schiacciata per terra, per un secondo. E arrivò l'odore di magia. Una piccola scia che scendeva dall'alto e subito se ne andava. Un lieve pizzicore nelle narici.

Tadon si era alzato. Staccò la mano da una manopola sotto l'aggeggio metallico da cui scaturiva la fiamma e si accovacciò. Appoggiò le mani sulle spalle di Maed. «Anche tu odiavi l'Astro, Maed.»

«Poi cos'è successo, Tadon?»

«Sono fuggito. Sono salito qui, sul Pianeta, ho acceso la fiamma e sono fuggito più in alto che potevo.»

«Ti hanno scoperto, Tadon. Adesso sei solo.»

Tadon chinò la testa ed espirò.

«Da solo ho costruito il Nibbio e da solo ho creato questo. Riuscirò a sopravvivere anche da solo. O con te, se mi vuoi aiutare.»

Ci fu un taglio nell'aria, fuori dal cestello. Un taglio netto, repentino.

Maed scattò in piedi. Si affacciò, guardò giù, non c'era nulla. Solo dopo cercò il Benefattore in cima al Pianeta ma non lo vide. C'erano solo i fori sulla stoffa, nessuna ombra sulla cima. Quei fori, quelle ferite, da sole, fecero male.

Maed cercò di scavalcare il cestello. Strisciò con l'addome sul bordo e con metà corpo fu all'esterno, a faccia in giù.

C'era l'oceano, enorme, accecante. E un puntino bianco che cadeva e nel mentre si spostava di lato, quasi planando. Scomparve, e in quel momento Maed ebbe le vertigini. Non aveva mai avuto le vertigini.

Quella paura folle e inaspettata la obbligò a lasciare ogni presa sul cestello. Presto sarebbe stata in volo.

Tadon le afferrò la caviglia. «Aspetta.»

Maed, immersa per metà nel nulla, la testa pregna di sangue, gli occhi gonfi e pieni di lacrime, urlò. «Mi hai raccontato, Tadon. Lo sapevi che dovevo andare.» Agitò il piede e gridò a squarciagola. «Scusa!»

Sentì l'altra mano stringerle il polpaccio.

«Un'ultima cosa, Maed. Ho visto un'ultima cosa quando stavo scappando. Una cosa impossibile. Sono confuso, Maed, ascoltami, almeno tu.»

«No...» disse Maed, ma non si sentì nemmeno lei. Tutte le sue forze erano concentrate a sfuggire alla presa, a lasciarsi cadere. Il sangue martellava nella sua testa.

«Non sono scappato da solo, da quell'isola.»

Maed smise di opporsi. Ricevette uno strattone improvviso verso l'alto. Nello stesso istante ruotò il busto e osservò Tadon. Lui con una mano le lasciò la gamba e le afferrò il vestito.

«Un Astrale, vero?»

Tadon strinse sul vestito, affondando le dita nel fianco di Maed. «Come lo sai...»

«Quelle isole, Tadon, deserte.» Maed sollevò un braccio. Sembrava pesante come un macigno, ora che era a testa in giù. Lo avvicinò alla mano di Tadon, tremante. «Su quelle isole si nascondo gli Astrali, me lo hanno detto loro, e adesso stanno tornando. Non possono...» Lottò per qualche secondo con le dita ferree di Tadon. «Non riescono... non riescono a volare come una volta, lo sai? Non riescono più. Gli hai dato un passaggio per tornare.»

Tadon mollò la presa sul fianco. Tenne per un secondo anche la caviglia, ma poi la lasciò.

Maed precipitò nel nulla. Un ululato potente la avvolse, tuonò dentro le sue orecchie, ma quello che urlò Tadon, affacciato al cestello, proteso in basso, fu udibile ancora per qualche secondo.

«Urlava, Maed, strillava dal dolore. Tutto il tempo ha urlato, tutto il viaggio, appeso a quella corda, non ho mai sentito qualcuno soffrire così tanto, ma non si staccava...»

Sprofondò. L'aria sbraitava, il suo vestito schioccava come una frusta. Tumenor la risucchiò, potente.

Maed sapeva che presto avrebbe colpito il mare. L'avrebbe colpito forte. Non era la prima volta che precipitava in acqua dal cielo, ma non era mai andata così in alto. Si chiuse. Si chiuse, coprendosi la testa con le braccia. Si morse il vestito e attese.

Quando l'acqua l'accolse sembrava stesse ardendo dalle fiamme.

Bruciava.

Su ogni punto del corpo di Maed c'era il fuoco.

E più andava a fondo, più l'acqua passava sulla sua pelle, più il bruciore aumentava. Era così forte che lei aprì gli occhi e reagì.

La luce era alle sue spalle e lei stava guardando un burrone nero sotto di sé. Si capovolse, e in quel momento Tumenor decise che non la voleva più e la spinse verso la superficie.

L'aria bramava di uscire dal suo corpo, premeva sulle sue guance, e piccole bollicine sfuggivano dalle sue labbra e si perdevano alle sue spalle, troppo lente anche per lei.

Gli ultimi metri furono bui e confusi, e per un attimo lei ebbe il timore di essere ricaduta nell'incubo che aveva creato sua sorella Tanesin, ebbe paura che dopo quella superficie non ci sarebbe stata l'aria e che sarebbe morta soffocata, e invece ci fu l'esplosione di luce, e spazzò via tutto come una frusta accecante.

Una volta che il dolore abbagliante agli occhi si fu calmato, Maed si guardò frenetica intorno. C'era solo acqua, che si alzava e abbassava confusa e senza ordine, eppure tutta uguale in ogni direzione. C'era lei, e il cielo azzurro, piatto e infinito.

Il Pianeta di Tadon era piccolo da laggiù, sembrava rotolare lento e indisturbato nel suo viaggio, come su una discesa appena inclinata. E andava dove presumibilmente si sarebbe trovata la zattera del Cavalluccio. Il suo cammino era come predestinato, come quello dei pianeti, lo aveva detto Tadon poco prima. Non poteva essere cambiato in quei pochi secondi.

Maed infilò la faccia sott'acqua e iniziò a nuotare. Prendeva fiato ogni quattro bracciate, ma non si azzardava a controllare davanti a lei. Andava dritta e imperturbabile, allungando le braccia il più possibile. Non sarebbe mai arrivata prima del Benefattore, ma almeno non sarebbe arrivata così tardi.

Forse l'Astrale aveva visto la zattera e si era fermato lì, si era lasciato cadere come lei e il Benefattore. Il Cavalluccio aspettava. Aspettava e sapeva che sarebbero arrivati. Aveva parlato di Astrali, tutti loro avevano parlato di Astrali e ricordato della loro esistenza, in un modo o nell'altro, tutti erano attesi lì sopra. Forse l'Astrale, forse l'Astrale che Tadon aveva accidentalmente accompagnato ad Asdenar, forse anche lui era lì.

In quel momento Maed non potè più aspettare, e in un esplosione di fiato si fermò e guardò. Niente. Come prima, acqua e cielo. Il Pianeta era così minuscolo adesso. Aveva preso la discesa verso il cielo ed era rotolato lontano.

Come se Maed stesse nuotando su un oceano montuoso, come se avesse d'un tratto raggiunto una vetta e potesse osservare tutto quello che fino a qualche secondo prima era stato nascosto ai suoi occhi dall'acqua, vide la zattera all'improvviso, a pochissimi metri da lei.

Il Benefattore, bianco e lucente, afferrò con una mano il bordo della casa galleggiante del Cavalluccio e si issò a bordo. Si strizzò il vestito, si strappò il cappuccio e rivelò al mondo la sua carnagione nera. Si guardò attorno, ma non c'era nessun altro.

Né il Cavalluccio, ne l'Astrale.

Maed giunse alla zattera. Quando salì a bordo, l'uomo era seduto sulla seggiola di legno del Cavalluccio, intento a strizzarsi il vestito bianco. Sembrava diverso, con quella seta luminosa addosso, più autorevole, più giovane, quasi immortale, come investito di qualcosa di alto, di glorioso e perfetto, ma di sotto era sempre lo stesso, col suo cranio piccolo e spellato, coi tatuaggi scuri quasi invisibili sulla sua pelle, simili a macchie, a malattie.

«Vecchio...»

«Maed, siediti e ascolta.»

«Siete la stessa persona.»

«Sì, siamo la stessa persona e vogliamo la stessa cosa. Tu, che sei venuta a questo strano incontro, cosa vuoi?»

Parlò veloce, come non avevano mai fatto il Cavalluccio o il Benefattore. Eppure il movimento del suo braccio fu lento. La invitò ad avvicinarsi, con delicatezza. Maed rimase a distanza. Non mosse un piede. Quell'uomo, seduto lì, bianco e nero, l'avrebbe inglobata dentro se stesso se lei si fosse avvicinata. C'era qualcosa di completamente sbagliato, un'attrazione verso il centro della zattera. Maed strinse i denti e stette al suo posto, con le piante dei piedi salde sul legno.

«Sono venuta qui per l'Astrale, Vecchio. Per gli Astrali. Ora ricordo, come quando mi hai dato lo schiaffo. Non ricordo bene come sia accaduto, ma ora li ricordo. Ci sono sempre stati.»

«Anche io sono qui per questo. Ti dirò come possiamo tenerli lontani, ora che nessuno ricorda, ora che è facile. Ora che tutti pensano che ci siano solo nobili e scienziati, a giocare.»

«Non ti ha creduto nessuno quando hai parlato alla piazza. Sembravi pazzo quando dicevi quelle parole.»

«Ho sbagliato, è vero. È stata un'uscita sconsiderata, poco meditata. Ma ho seminato qualcosa. Un piccolo granello. Solido e duro.»

«Perché non li vuoi fare tornare?»

«Perché sono l'oblio. Tu credi di ricordare cosa sono gli Astrali, ma è un'illusione. Hai visto i loro fantasmi. Quella volta, alla Reggia, non hai visto la realtà. La realtà non la ricorda nessuno. Quando loro erano dappertutto e noi eravamo appena caduti dal cielo, quella era la realtà. Lo sai, vero, che siamo noi a essere caduti dal cielo? Ma sì. E quando sono esplose le città, quando le strade sono saltate in aria e le fiamme hanno divorato persino la pietra, si è accesa una scintilla. Un vagito. Siamo nati. Loro sono scappati, terrorizzati dalle esplosioni e dalla sapienza che quelle esplosioni covavano al loro interno, e in quel momento è nato l'uomo ed è nata la scienza. Ma prima, cos'era Tumenor? Nessuno lo sa. Il fuoco è stato il nostro battesimo. Il fuoco è stato il battesimo di Tumenor. Se tornassero, sarebbe il gelo. L'oblio, un'altra volta.»

«Mi hanno fatto vedere cose fantastiche quella volta alla Reggia. Mi hanno promesso cose fantastiche. Non capisci niente. Sei tu che non ricordi bene, o non hai mai saputo.»

«Sembri quasi la versione piccola e femminile di Andelus. Io che lo conosco da quando aveva la tua età, fattelo dire, siete proprio uguali.»

«Non è vero.»

«Ma che ne sai? Non sai niente tu. Quello lì è un ibrido meschino, che non sa quello che fa. Nobile, scienziato, è solo un pervertito in realtà.»

«Cosa...»

«Tu non vuoi essere veramente come lui, lo dici pure da te. Allora stammi a sentire. Ascoltami bene.»

«Non cambiare discorso, Andelus non è un nobile. E non è vero che non so niente.»

«Non sai. E non sapere li farà tornare, spegnerà il fuoco che ci ha battezzati. Forse è anche giunta l'ora che tu sappia veramente cosa sono io, da dove vengo. Io sono stato il guardiano. Qui, tutti questi anni sulla zattera, da solo, stavo a guardia della città e controllavo che non tornassero. Forse è ora anche che tu sappia che quei pianeti che vedi, là sopra, sono vivi e brulicanti come questo, e ognuno di essi influenza l'altro, e c'è una trama sotto, cose che nemmeno tu immagini. Tu, adesso, che mi vedi in questo stato, così, e non sai niente di me e provi un po' di meraviglia a osservarmi, non fai altro che alimentare l'ignoranza, quella che chiamate stupore, che è come una calamita per gli Astrali. La scienza è la chiave. Qualcuno, qui, l'ha usata per aprire porte, invece che serrarle definitivamente. È giunta l'ora di chiudere ogni cosa.»

«Non parlare, Vecchio. Stai zitto.»

«Ah, sì? Hai paura di sapere, Maedlin? Pervertita.»

Il Benefattore, il Cavalluccio, il Vecchio, chiunque quella cosa fosse, si alzò dalla seggiola e si strappò la tunica bianca, rivelando per intero il suo corpo. Era nudo. L'unica veste che lo copriva erano i suoi tatuaggi. Rivelò tatuaggi che Maed non aveva mai visto prima d'ora. Dappertutto. Sulla testa, sul petto, sul pube.

Maed deglutì e si costrinse a guardarlo dritto negli occhi.

Splendevano. Sembravano fatti d'ambra, come quella della Villa.

«Io vengo da un altro di quei pianeti che gravitano insieme a Tumenor attorno a Gamon» esordì lo Scarabeo.

Sì, era uno Scarabeo, si disse Maed.

Scuro, ricoperto di glifi, dagli occhi ambrati. Alieno. Portatore di morte.

Doveva essere schiacciato. Maed lo aveva fatto tante volte, da piccola. Aveva staccato tante di quelle zampe. Ti veniva sempre voglia di aprirli in due quegli insetti, per vedere cosa c'era dentro. Ma poi dentro non trovavi niente. Un intestino lungo, lunghissimo, viscido e traslucido. E nient'altro. Ti pentivi di averlo fatto, ti pentivi di aver scoperto cosa nascondevano.

La mano di Maed fu percorsa da un brivido.

Poi un pizzicore sulla nuca quasi la convinse a stare sul posto, ad ascoltare. Lui le avrebbe raccontato ogni cosa. Chi era lui e come aveva fatto a scendere su Tumenor, da qualsiasi parte fosse venuto. Le avrebbe spiegato ogni cosa. Fissò per qualche secondo i suoi occhi così strani.

«Devi sapere che io...»

Maed si lanciò addosso a lui con le braccia spalancate, senza nemmeno prendere la rincorsa. Con un solo salto, riuscì a placcarlo e a farlo rovinare sulla sua seggiola. Percepì il suo corpo piegarsi sotto di lei, aguzzo e fragile.

Lo Scarabeo gracidò dal dolore.

«Sei... ridicola...» riuscì a dire, mentre si contorceva sotto di lei.

«Non voglio...» ringhiò Maed, cercando di sfilare il braccio destro da sotto la sua schiena, mentre con la mano sinistra gli bloccava la spalla. Lui le sputò in faccia. «Non voglio... sapere...» Gli afferrò il collo con le dita. Strinse. I suoi occhi lucenti si ribaltarono e il suo petto prese a sobbalzare.

Ancora con la mano attorno alla gola dell'uomo, Maed gli raccolse una gamba per la caviglia ossuta e lo spinse in avanti sul legno. Lo sentì tormentarsi per come gli piegava l'anca, mentre soffocava, mentre lo trascinava verso la fine della zattera.

«Non voglio sapere niente, capito?» Sentì il sapore della sua bava finirle sulla lingua. Soffiò dalle labbra, gli occhi serrati, e continuò a spingerlo in avanti.

La zattera finì.

La testa dello Scarabeo, che nel frattempo aveva lasciato una scia di sangue scuro sul legno, come un frutto marcio strisciato per terra, fu sospesa sopra l'acqua.

Maed aveva il fiatone. Lasciò ogni presa sul suo corpo intriso di conoscenza. Non la capiva. Si trattava di disegni, linee, strane lettere, ma ora portavano con sé uno strano terrore. Mentre la sua testa scura baciava dolcemente l'acqua, inclinandosi all'indietro, Maed si stiracchiò un attimo. Vide il sangue dello Scarabeo riversarsi nel mare mentre riprendeva le forze.

Lui gorgogliò un'ultima frase. «Il mio vero nome è Rael-ja—»

Maed affondò la mano sul suo collo.

La testa dello Scarabeo finì sott'acqua. Le bolle incominciarono a salire furiose, come acqua incandescente, e prestò la superficie dell'oceano diventò torbida, sporcandosi di quel sangue così scuro. La sua faccia scomparve. Scomparvero pure le bolle.

Maed raccolse il resto del suo corpo nudo e lo spinse giù dalla zattera. Lo fece guardando il cielo, attenta a non abbassare lo sguardo e vedere cose che non avrebbe dovuto vedere. Quando sentì pure il piede sfuggirgli dalle dita, poté guardare di nuovo. Stava affondando, nell'oceano, nel suo oceano, verso il suo amato fondale. Nessuno ora avrebbe mai potuto leggere cosa c'era scritto sul suo corpo. Il tempo lo avrebbe consumato e la sabbia lo avrebbe fatto suo.

Dopo qualche secondo, Maed tornò a guardare in alto. Si vedevano già i primi astri sopra Tumenor. Che strano. Poche stelle, deboli, piccoli diamanti immersi in un azzurro terso. Guardò con attenzione, nella speranza di vedere un Astrale solcare il cielo.

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