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Capitolo Sette

Gamberi, sangue e lettere


Lo scienziato si dimenava in aria, scuotendo la testa e agitando i piedi nel nulla. Un pezzo di stoffa nero gli tappava la bocca e corde gli legavano le braccia alla schiena.

Non era uno Scienziato con la S maiuscola. No, non poteva esserlo di certo. Gli Scienziati erano troppo abili per farsi catturare. Maed era convinta che quello fosse un semplice scienziato, uno di quelli che collaboravano con la Combriccola, ma che non erano niente di che. Come Tadon.

Un'esigua folla di spettatori osservava dalla piazza sottostante. Si tenevano lontani dai fuochi azzurri, disposti a cerchio sotto l'uomo fluttuante. Al centro, il nobile dalla veste blu stava in piedi col capo sollevato. Diceva le solite cose. Il solito discorso pompato sulla pericolosità della scienza e sulla superiorità della magia. Maed l'aveva ascoltato migliaia di volte, quando Soenin aveva dovuto pronunciarlo per esercitarsi, prima di partire per la capitale.

Dalla sommità del tetto in cui si trovava Maed, però, le parole giungevano indistinte e lei non riusciva a sentire cos'avesse combinato quell'uomo per meritarsi la furia dei nobili. Dell'acqua gocciolava incessante da una grondaia, ticchettando sul metallo. L'aria era fresca, la luce di Davion era ancora troppo debole per poter riscaldare la città.

Il nobile concluse il suo discorso. Era solo. E si trovava troppo lontano dalle ville, per i gusti di Maed. Prima la carrozza che risaliva la strada, nei pressi del porto. Poi quell'uccisione in pubblico, a pochi metri dal mare. Così vicini non si erano mai spinti. Edon aveva detto di aver visto due di loro osservare il Faro. Il Faro. Maed avrebbe voluto voltarsi e controllare per l'ennesima volta il colore del fuoco sulla sua cima. Ma il nobile nella piazza aveva finito di parlare. Non poteva di certo perdersi il vero spettacolo.

Eccolo.

Il nobile si sollevò da terra. In principio ondeggiò su se stesso, come in cerca dell'equilibrio. Distese le braccia, controbilanciando il suo peso. Quando fu abbastanza stabile nella sua posizione, lanciò un'ultima occhiata sotto di sé, poi guardò in alto e schizzò verso il cielo, le braccia serrate ai fianchi e il collo teso.

Il sospiro della folla fu unanime. Lo stupore non moriva mai, tra una dimostrazione magica e l'altra. Immutato, da forse centinaia di anni. Stupore e terrore: così i nobili controllavano tutto Tumenor.

Le fiamme azzurre si allungarono verso l'alto, come tante dita, protese per sospingere i due uomini contro la gravità. Il nobile roteò su se stesso facendo una capriola, poi si bloccò a mezz'aria, le gambe e le braccia aperte, il ventre rivolto verso il basso. L'uomo legato a pochi metri da lui agitò un'ultima volta le braccia e la schiena, cercando di protendersi in avanti. Ma il nobile dalle vesti blu, non appena si fu rimesso in posizione verticale, allungò le mani in avanti, gelando la posa dell'altro. Questi si rilassò, come esausto.

Non è semplice cercare di liberarsi da una morsa invisibile quando sei sospeso in aria. Non puoi spingere da nessuna parte. Non puoi appoggiare i piedi da nessuna parte. È solo un continuo accumularsi di tensione, fino a quando i tuoi muscoli non cedono sfiniti, e ti abbandoni, lasciando che sia la forza invisibile a sorreggerti. Maed stessa aveva provato quella sensazione, quando Tanesin si era esercitata su di lei.

I due uomini si trovavano molto in alto, tre volte di più rispetto all'abitazione più elevata sotto di loro. Davion, timido, faceva capolino da dietro una struttura alla loro destra. Stava sorgendo, col suo giallo ancora freddo e debole. Le ombre del nobile e dello scienziato non trovavano appoggio, inesistenti. Il mare, non molto lontano, si zittì per un attimo. Nessun gabbiano osava svolazzare lì attorno, l'aria immobile. L'odore, sulla piazza, doveva essere intenso. Per fortuna Maed era abbastanza lontana da non trovarsi alla sua portata.

Il nobile allargò le braccia, mentre indietreggiava fluttuante, continuando a fissare lo scienziato, piegato su se stesso. Lo invitò a sollevare lo sguardo un'ultima volta, facendo cenno col braccio. Ma l'uomo che aveva di fronte sembrò ignorarlo, accasciato contro il nulla. Sussultò un attimo.

Infine crollò. Fece mezzo giro su stesso, come un pezzo di roccia che cade senza vita. Ci fu un tonfo secco, e uno schianto di ossa, debole come dita che scrocchiano, da quella distanza. I gabbiani spiccarono il volo, strillando e ripopolando il cielo. Avvolsero il nobile in un mulinello, ancora sospeso in aria. Per un attimo Maed si convinse che l'uomo la stesse osservando, il suo volto mascherato a tratti dalle ali bianche, i suoi occhi che bucavano il turbine. Ma non l'avrebbe mai riconosciuta: il suo vestito, che era stato blu qualche ora prima, si era trasformato in uno spiegazzato insieme di stoffa dal colore indefinito. Quando i gabbiani smisero di gracidare e si furono allontanati, Maed si era già calata dal tetto.

Appoggiò il piede destro sul vicolo fangoso, accompagnando con cura quello sinistro. Si lanciò la borsa alle spalle e sentì i suoi muscoli addominali tendersi fino a rompersi. Si piegò su se stessa, assecondando la fitta allo stomaco. La sera prima non aveva mangiato nulla, troppo impegnata a discutere con la sua famiglia. Con sua madre. Era solita rimediare intrufolandosi nelle cucine, quando la Villa giaceva deserta, ma quella notte l'aveva trascorsa planando sulla città con una tenda legata alle caviglie e ai polsi.

Imboccò un largo viale che scendeva ripido verso il porto. Acqua ruscellava ai lati della strada, l'aria era densa, pregna dell'odore della pioggia e della salsedine. Le botteghe erano ancora chiuse, nessun carro batteva la strada. Un uomo con delle reti in spalla corricchiava verso il basso, attento a non scivolare.

Il Faro dominava il mare, sul suo promontorio. Nero e incrostato di sale, era pienamente visibile in tutta la sua statura da quella strada, le mura delle abitazioni che lo seguivano fino alla cima.

Il fuoco oscillava quieto. Era blu. Intenso, come il mare lontano e profondo.

Perché aveva cambiato di nuovo colore? Quando Maed si era lanciata giù dalla finestra, sorretta dal vento, non aveva avuto altro che oscurità attorno a lei. L'unica guida, la stella della sua fuga, era stato il rosso acceso del fuoco sul Faro. Non poteva essere stato altro, non esisteva altro di così luminoso a illuminare la notte di Asdenar.

Aveva cercato di seguire quella luce intensa e vibrante, che l'aveva chiamata a sé. Era stato un segnale della Combriccola? Sapevano che sarebbe fuggita dalla Villa e l'avevano aiutata a trovare la giusta via? O era stato un segnale per i nobili, un segnale di guerra?

Ma il vento era libero e non obbediva a nulla. Presto le raffiche avevano costretto Maed e la sua tenda a prendere un'altra strada. Erano state violente, talvolta così impetuose da avvolgere la tenda attorno al suo corpo, rischiando in un'occasione di strozzarla. La soluzione era stata spalancare le braccia, non opporsi più alle folate e lasciarsi guidare da esse. Avrebbe seguito il fuoco rosso sulla cima del Faro una volta appoggiati i piedi a terra, dove il vento aveva meno potere.

Per avvicinarsi al suolo aveva alternato momenti con le braccia ritte sui fianchi — in cui era precipitata verso il basso accompagnata dallo schioccare inutile della tenda — a momenti con le gambe e le braccia spalancate, in cui aveva planato sorretta dalla stoffa tesa dietro alla schiena. Si era dimenticata spesso di riaprire il suo aggeggio rudimentale. A tratti l'ululato dell'aria attorno a lei era stato così violento da spaventarla. Ma precipitare nel buio era stato troppo eccitante. La cosa più vicina al volo che avesse mai provato in tutta la sua vita. Gli Astrali avevano provato la stessa cosa, quando erano crollati dal cielo?

Era atterrata su un tetto della città alta. L'aveva visto all'ultimo, solo quando le luci colorate delle lampade erano comparse ai suoi occhi. Il suo cuore aveva fatto un balzo e lei d'istinto aveva riaperto la tenda. Ma il vento era stato debole in quell'occasione, e troppo vicino al suolo. La gravità l'aveva vinto.

Aveva impattato contro il tetto, poi era ruzzolata lungo lo spiovente e infine precipitata a terra. La tenda si era gonfiata per un breve attimo, frenando la sua caduta. La botta era stata meno intensa di tutte le altre che aveva ricevuto durante il giorno, e per fortuna non era caduta sulla caviglia, ma sommata alle altre sortì il suo effetto. La tenda si era avviluppata sopra di lei. Maed aveva cercato la via d'uscita dall'intrico di stoffa, poi aveva preso un profondo respiro.

Era rimasta a terra così, distesa, per forse un'ora, o forse due. Aveva regnato il silenzio. La brezza era stata piacevole sulla sua pelle. Era rimasta in compagnia del pulsare sordo nella sua testa e dei dolori su tutto il corpo. Quando anch'essi si erano calmati, si era rimessa seduta, poi aveva osservato le lampade colorate, fumi e fiamme roteanti all'interno del vetro. Nessuna era di colore blu. Nessuna di colore rosso. Doveva cercare il Faro.

Aveva camminato per le strade deserte. Ogni tanto si era fermata ad osservare il cielo, aspettando che la caviglia smettesse di pulsare. Era stata la notte tra un giorno di Luce e uno di Congedo. Gli Spiriti erano silenti e le sole stelle avevano abitato il cielo.

Maed si era accorta che il fuoco del Faro era ritornato blu quando si era arrampicata su quel tetto da cui aveva assistito alla morte dello scienziato. Si era voltata all'istante, verso le ville lucenti sulle colline. Ma cos'avrebbe dovuto vedere? Nulla. E infatti non notò nulla di strano. Tutto era ritornato alla normalità. Sì. Una folla di uomini si era pure riunita nella piazza, per assistere all'esecuzione pubblica. La sommità del Faro aveva bruciato di rosso. Poi ancora di blu. Era stato tutto nella mente di Maed? L'adrenalina l'aveva accecata? Forse erano state tutte le fiamme della sera precedente ad accecarla.

Si era girata più volte per controllare il colore del fuoco. E ora ce lo aveva davanti, immutabile. Blu. Sembrava persino essere diventato più calmo, teso come le fiamme nelle lampade. I nobili si erano appropriati del Faro? Avevano scoperto gli scienziati e li avevano fatti fuori mentre lei era stata impegnata a cadere dal cielo?

Lo stomaco di Maed brontolò. Distolse lo sguardo dal Faro, imponente sopra di lei, per cercare qualcosa da mangiare. All'alba, quando Davion sorgeva debole dietro alle case, era difficile trovare qualcuno che vendesse da mangiare. E non aveva nemmeno un soldo per comprare qualcosa. Si sarebbe dovuta inventare qualcosa.

Avrebbe temporeggiato. Non aveva dove andare. Il Faro? Avrebbe fatto meglio ad aspettare. Se i nobili veramente lo avevano occupato, non sarebbe stata di certo una destinazione saggia da raggiungere. Avrebbe tenuto d'occhio il fuoco, avrebbe teso le orecchie per ascoltare le chiacchiere della gente, infine avrebbe deciso.

Sul fianco della strada un uomo stava aprendo una cassa. Aveva del cibo. Maed lo raggiunse, pensando a come convincerlo a darle qualcosa. Solo per fermare quelle odiose fitte allo stomaco.

«Signore» chiamò.

L'uomo si voltò. I suoi capelli giallastri erano radi, la pelle del viso macchiata e spellata. «Dimmi, ragazzina.»

«Cos'ha da mangiare?» La voce di Maed era roca. Quello l'avrebbe di certo aiutata nel suo intento.

«Aspetto la pesca di 'stanotte, ma mi sono rimasti dei filetti di sgombro da ieri. Qualche cozza.» Prese altre cassette da dietro, poi le aprì sul suo banchetto vuoto. Immerso nel sale c'era qualche rimasuglio.

«Crudo...» commentò Maed, osservando quello che le aveva messo sotto gli occhi. Se ne pentì all'istante. Forse non avrebbe dovuto dirlo.

L'uomo la osservò con gli occhi socchiusi. Chiuse le sue cassette. «Se preferisci altro, vai a chiedere qualche strada più in alto.»

«No, mi perdoni» disse Maed, allungando le mani in avanti. «Non intendevo... È che non mangio da...» Si fermò. Avrebbe fatto meglio a zittirsi. Stava parlando con uomo comune, non con un nobile.

«Non ho i soldi per cuocermi le cose. Vattene, se non ti piace la roba cruda. Se hai i soldi per comprarti pesce cotto, non è a me che devi chiedere.»

«Non ne ho.» Maed lasciò cadere a terra la sacca. Il suo vestito era abbastanza sporco. Era elegante, o almeno, lo era stato. Ma il pescivendolo avrebbe pensato di certo che lo avesse rubato a qualcuno.

L'uomo la studiò. «Non hai... nulla?»

«Nulla, mi dispiace.» Maed allargò le braccia, cercando di rassicurarlo.

Il mercante raccolse le sue poche cose e le tolse dal banco. «Non regalo il mio pesce crudo.» Si chinò, per nascondere tutto nella sua cassa. Poi si rialzò. «Non ho i soldi per permettermi gli aggeggi dei nobili per poter cucinare e secondo te regalo cibo alla gente?» Aveva urlato. Qualcuno si voltò, lì intorno. D'un tratto la strada divenne più silenziosa.

Maed aveva fame. Non aveva portato soldi con sé. Non ne aveva mai avuto bisogno, in realtà.

«Perché non usi il fuoco?» sussurrò all'uomo. «Qui vicino al porto non ti vedrebbe nessuno. Faresti un sacco di soldi, a vendere pesce cotto.»

L'uomo indietreggiò ancora, colpendo il muro dietro di sé. «Ragazzina, vattene.»

«Perché hai paura?»

«Usalo tu. Pescati il pesce e brucialo col fuoco. Allora saranno fatti tuoi. Ma lasciami in pace.» Tirò verso di sé il banchetto. La sua espressione era terrorizzata.

«Va bene, calma.» Maed fece un passo indietro, sperando di calmare le acque. Si guardò attorno. Una donna la stava osservando. Ma non sembrava essere pericolosa. Continuò. «Se mi darai qualcosa da mangiare, me ne andrò.»

«Voglio i soldi.»

«Ho altro.»

L'uomo si accigliò. Invitò Maed a proseguire, con un cenno del capo.

Maed si guardò sopra la spalla. La donna non la stava guardando più. Ma la strada si stava ripopolando. Doveva muoversi. Si srotolò la manica del vestito, quella del braccio sinistro. Quella del braccio tatuato. Mostrò il triangolo al pescivendolo.

L'uomo sussultò, per un attimo, ma non fuggì. Osservò il suo tatuaggio. Sembrava calmo, ma il suo petto si sollevava velocemente. Deglutì.

«Lo riconosci, vero?» disse Maed. «Mi basta qualcosina, solo per superare la mattinata.»

Il pescivendolo rimase ancora qualche secondo in silenzio, facendo correre lo sguardo dal tatuaggio agli occhi di Maed. Infine avanzò. «Perché un nobile vorrebbe del cibo crudo?» Deglutì ancora. «Non capisco, ragazzina. Ve lo potete cucinare. Siete ricchi, potete usare il fuoco, quello buono. Cosa vuoi da me, eh?»

«Niente.» Maed non si era aspettata una reazione del genere. Il tatuaggio aveva sempre funzionato tra la gente comune. Doveva insistere. Ma non era brava a minacciare. Sua sorella sarebbe...

L'uomo le afferrò il braccio. «Fammi vedere» ringhiò.

«Lasciami.» La stretta dell'uomo era tenace. «Cosa vuoi fare?» Il pescivendolo la teneva ferma. In quel modo non avrebbe potuto girare attorno al banchetto, per tirargli un calcio o mordergli la pelle. Maed si guardò attorno, in cerca d'aiuto.

«Bambina, fammi vedere una magia e ti darò tutto quello che mi rimane.»

«Non...»

«Forza! Fammi vedere se non sei davvero un impostore.» L'uomo strinse ancora più forte. Le artiglio la pelle, proprio sopra il tatuaggio. Sangue rosso zampillò sulle linee nere del triangolo. L'uomo sogghignò. «Rosso, eh?» Poi la tirò a sé, facendola crollare sul banchetto. Sputò sul suo avambraccio, proprio sul sangue, proprio sul suo tatuaggio. «Vediamo...» Iniziò a strofinare con i pollici. «Non se ne va. Dannazione...» Continuò, sfregando ancora più forte.

«Basta, il tatuaggio è vero. Sono davvero una nob—»

«Fermi, voi due.» Un uomo spinse via il pescivendolo, frapponendosi tra lui e Maed. Sradicò le dita del povero mercante dal suo avambraccio, e li separò. «Buona giornata, signore.» Fece un cenno col capo all'uomo. Poi si rivolse a Maed. «Tu, signorina. Vieni con me. Ho del cibo da darti.»

La prese per mano e la portò lontano. Imboccarono una stretta stradina laterale. «Chi sei?» chiese Maed, cercando di dimenarsi.

In mezzo al vicolo c'era un altro banchetto. Casse di legno erano ricolme di gamberi, polpi, molluschi.

L'uomo afferrò un grappolo di gamberetti, poi prese una piccola vaschetta e la riempì. La allungò verso Maed.

«Non vuoi nulla?» Maed osservò chi aveva davanti. La blusa dell'uomo era stata bianca una volta, ora era piena di macchie e ditate. Eppure sembrava ordinata. I suoi capelli bianchi erano pettinati all'indietro. «Me li stai regalando?»

L'uomo annuì. Avvicinò ancora di più la vaschetta. La invitò a prenderla, annuendo.

«Non parli?» chiese Maed.

L'uomo rimase impassibile. Accennò un sorriso, debolissimo.

Maed afferrò i gamberetti e lasciò il vicolo, immettendosi nel viale che conduceva al porto. Camminò a passo svelto, senza voltarsi. Quando fu arrivata a uno dei moli, si sedette sul bordo, senza interrogarsi sul perché quell'uomo l'avesse aiutata. Immerse il braccio nell'acqua del porto. Il suo avambraccio sfrigolò quando l'acqua lavò via il sangue.

Aveva deciso.

Prese un gamberetto per la coda e lo osservò. Anche quello era crudo. Tirò la testa, poi tolse tutto il guscio, lo gettò in acqua e mise ciò che era rimasto in bocca, chiudendo gli occhi. Era molliccio. Non sentì nessun sapore, troppo impegnata a non sputarlo e a continuare a masticare. Non mangiava pesce crudo da tanto tempo, ormai. La cucina dei nobili l'aveva abituata troppo bene. Inghiottì. Controllò il Faro, alle sue spalle. Il fuoco era ancora blu.

Sì, aveva deciso. Sarebbe andata dal Vecchio Cavalluccio. Nella sua casa galleggiante sul mare.

Si rimise in piedi. Costeggiò i moli, molti dei quali ancora vuoti, le barche grandi ancora fuori per la pesca notturna. Ma lei cercava qualcos'altro.

La sua barchetta era incagliata nell'angolo tra la banchina e un molo. Sbatteva contro la pietra, assecondando lo sciabordio dell'acqua. Per fortuna nessuno gliela aveva ancora rubata. Forse nessuno l'avrebbe fatto. Era una barchetta insignificante, così piccola da ospitare solo una persona alla volta.

Maed salì a bordo. Si guardò ancora intorno. Controllò ancora il fuoco blu del Faro. Ma cosa controllava a fare? Diede un calcio alla pietra del molo e la barchetta si allontanò.

Dovette remare qualche minuto, prima di allontanarsi abbastanza dal porto. Quando sentì la brezza accarezzarle i capelli, afferrò l'asta di legno e la conficcò in un buco nello scafo. Srotolò una pezzo di stoffa e lo legò al palo. La tela si gonfiò, spingendo l'imbarcazione nel verso sbagliato, di nuovo verso il porto. Ma il Cavalluccio le aveva insegnato come dominare il vento nel mare. Solo quello nel mare, però. Nel cielo Maed era stata ancora sua schiava. Fece ruotare la barca verso destra. Calò la deriva. Ora avrebbe dovuto solamente proseguire a zig-zag, scalando la brezza. Ci avrebbe messo un po', ma sarebbe arrivata. Avrebbe trascorso il tempo mangiando gamberetti crudi.

La gente comune mangiava quella roba tutti i giorni. Non aveva nient'altro, d'altronde. Pesce, sale e molluschi. Tutto veniva dal mare, e il mare ancora non sembrava essere completamente nelle mani dei nobili. Chi era abbastanza ricco, poteva permettersi di comprare il cibo da loro. Altri ancora, più benestanti, acquistavano degli aggeggi magici con cui cucinare, senza avere la minima idea di come funzionassero. Tutti gli altri mangiavano cibo crudo.

Maed frugò con le dita nella vaschetta. Le sue dita tastarono qualcosa di strano. Sollevò un gamberetto e intravide un pezzo di carta sbucare dal fondo. Lo afferrò. Era intriso di acqua giallognola e gocciolava. Lo aprì. Sembrava una lettera. Le lettere erano ancora leggibili.

Per Maedlin Tamoni.

Tanesin è viva. Ma questo dovresti saperlo. Volevamo soltanto avvisarti.
Da oggi Asdenar sarà ancora di più nelle mani dei nobili. L'hai vista l'esecuzione? Così vicina al porto... Era da tanto che non ne facevamo una schiantando la gente a terra. Li facciamo volare, facendogli gustare il brivido della nostra magia. Poi, sfiniti, altro brivido. Giù per terra, veloci. Vedono l'aria sfrecciare indistinta, sentono l'odore, si pentono di aver abbracciato la scienza. Quello scienziato aveva fatto il fuoco. Come te.
Puoi tornare. Ma non portare quel tuo aggeggio che ha incendiato la sala della nostra Villa. È pericoloso.
Non siamo arrabbiati. Tanesin non è arrabbiata. Adelin si scusa. Se tornerai ti faremo fare l'addestramento. Promesso. Ma non potrai più uscire dalla Villa. Se lo farai... La città è piena di nobili. In alto, in basso. Al porto. Sotto al faro. Il fuoco è ancora e sempre blu, sulla sua cima. Se tornerai e scapperai ancora, ti prenderemo. Siamo dappertutto.
Altrimenti, continua a mangiare pesce crudo e a camminare tra le alghe.
Ma sei sempre la benvenuta. Ti aspettiamo.

Tua madre, Yanesin Tamoni

Maed si guardò attorno. La barca oscillava. Il porto era lontano, ormai. Ma il Faro si scorgeva ancora. La luce era blu, come sempre. Forse rossa non lo era mai diventata.

Quell'uomo che gli aveva regalato i gamberetti era stato un nobile.

Siamo dappertutto.

L'avevano vista prendere la barca? Il nobile che aveva fatto levitare lo scienziato e l'aveva fatto precipitare al suolo l'aveva riconosciuta?

La casa galleggiante del Cavalluccio ancora non era visibile. Il mare attorno a lei era deserto. Maed era troppo lontana, non poteva tornare indietro. Non riusciva a capire se il Faro fosse stato occupato dai nobili o meno. Era tutto fermo, silenzioso. Il fuoco era ancora blu.

Tadon. Era al sicuro?

Sarebbe potuto essere morto, nelle profondità dove si nascondeva la Combriccola. Nessuno sapeva cosa accadeva lì sotto, durante la notte. Nessuno sapeva cosa ideavano gli scienziati, tra le radici del Faro.

E nessuno avrebbe saputo mai se ci fosse stata una carneficina, lì sotto.    

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