Capitolo Sei
Astrali e cristalli
Cinque anni prima
Maed era sbocciata in un giorno di Saluto. La notte stessa nella quale gli Spiriti nel cielo annunciavano l'inizio dei giorni. Il sangue era stato copioso, rosso come le rose che crescevano a cespugli nel giardino della Villa.
La giornata era afosa, l'aria appiccicosa persino tra le viscere più nascoste e fresche della Villa. O era lei che stava sudando più del solito? Il corridoio era deserto. La luce soffusa, arancione come la resina solida che ne ricopriva le pareti e il soffitto. Ogni volta che Maed muoveva un passo, percepiva le vibrazioni giungere gravi dalle profondità cave sotto di lei. Trascinava per terra una borsa di stoffa, piena di scarpe e vestiti. L'ambra vibrava e risuonava come una corda di violino.
Nella famiglia Tamoni, quando una ragazza fioriva e diventava donna, era sempre stato un giorno di festa. O almeno, lo era stato per Tanesin, e tre anni prima per Adelin. Eppure, quell'anno, quel giorno di Saluto era incominciato e terminato come qualsiasi altro giorno. Sua madre aveva annuito distratta, Tanesin aveva fatto finta di niente, Adel le aveva augurato 'buona fortuna', come se fiorire fosse stata una brutta cosa.
Erano stati giorni di preparativi. Tutti nella Villa, da suo padre Farnel al cuoco, erano stati in fermento. Forse per quello la questione della sua appena arrivata giovinezza era passata in secondo piano?
Maed cercò con lo sguardo le sue scene preferite. Stava camminando sopra la storia degli Astrali, percorrendola a ritroso, diretta verso l'uscita che dava sul quartiere dei nobili. Era riuscita a scappare da sua madre qualche ora prima, perché non aveva avuto voglia di lasciare la Villa così in fretta. Tanesin l'aveva scoperta nel suo nascondiglio, ma non aveva detto niente. In realtà con lei non aveva parlato da quando Maed aveva cercato di darle fuoco senza riuscirci.
Saltò sulla scena dove i nobili ricostruivano la città. Un rimbombo simile a quello di una campana ruppe il silenzio del corridoio. Mentre il suono riecheggiava, Maed osservò i protagonisti della figura risalire il pendio di Asdenar. Avevano fuochi colorati sulle mani e spargevano per la prima volta l'odore di magia nell'aria, diretti alle dimore bianche sulle colline. Come Tanesin, quegli uomini non si stavano bruciando. O almeno, le loro espressioni non sembravano dire quello. Era forse il tipo di fuoco, il problema?
Diede uno strattone alla sacca, e una sventagliata di note risuonò dietro di lei. La scena precedente a quella raffigurava la stessa città di prima, Asdenar, in preda alle fiamme. Rubini e ambra e altre migliaia di pietre arancioni e rosse erano incastonate nel pavimento, a formare il fuoco più brillante e vivo che Maed avesse mai visto. Il fuoco proibito, quello maledetto, quello pericoloso degli scienziati. Forse avrebbe dovuto provare con quello.
Era strano percorrere la storia al contrario. Le scene in quell'ordine sembravano non avere un senso preciso, a prima vista. Eppure Maed si divertì a costruirci sopra una storia. La sua famiglia la stava attendendo sulla nave, pronta per partire per la Reggia, ma lei si sarebbe goduta l'arte che stava ai suoi i piedi un'ultima volta.
Giunse sopra la scena delle navi. Da quell'angolazione sembrava che le navi stessero arrivando ad Asdenar. Anche se tutti sapevano che gli Astrali, in realtà, la città l'avevano lasciata, e da quel giorno erano scomparsi, fino a divenire leggende. E infine dei. Ma per Maed, quel giorno, gli Astrali sarebbero approdati ad Asdenar, sulle loro navi dalle vele ammainate, in quel giorno di bonaccia, scivolando sull'acqua contro ogni legge. Pensò a qualcosa di plausibile che potesse motivare un loro ritorno, mentre si attorcigliava il laccio della borsa tra le dita. Scosse la testa, poi balzò in avanti. Ci avrebbe pensato con le immagini seguenti. O precedenti. Sorrise, tra sé e sé.
Superò le scene più piccole, quelle meno importanti, fino a quando non si ritrovò sopra a quella ricoperta di ametiste. Un Astrale era il protagonista di quella imponente raffigurazione, la carnagione azzurrina e i capelli lunghi e bianchi, fatti di sottili striscioline di marmo. La sua espressione era triste. Lo sfondo viola era sfumato, scuro ai lati e più chiaro al centro. In quella scena, nella storia raccontata nel giusto ordine, gli Astrali avevano avvertito gli uomini di una grande sciagura, ma loro li avevano ignorati. Qualche tempo dopo le loro città erano saltate in aria tutte quante. Distrutte dal fuoco rosso.
Sì. Se aveva fatto cadere a pezzi intere città, quel fuoco avrebbe di sicuro bruciato anche sua sorella.
Maed si fermò, pensosa. Cos'avrebbe fatto con quella scena? Che funzione avrebbe avuto nella sua storia? Considerò le immagini che aveva già passato in rassegna: il giorno in cui gli uomini avevano usato per la prima volta la magia e Asdenar in fiamme. Non riusciva a trovare niente, nessun nesso...
Poi lanciò un'occhiata alle ultime immagini, quelle che costituivano l'inizio della vera storia. E sorrise, cogliendo un'idea.
Si lanciò la borsa sulle spalle. Saltellò sul piede destro, la pietra che tintinnava. Cercò l'equilibrio, infine saltò in avanti. Prima sul sinistro, poi sul destro. E di nuovo. Una melodia raffazzonata la seguì fino alle ultime due scene, mentre balzava da un'immagine all'altra.
Eccola. La scena del cratere. Si raccontava che alle spalle di Asdenar, dietro alle colline erbose e lontano dalle ville dei nobili, l'immensa desolazione della prateria fosse interrotta da un buco enorme nella terra. Era proprio lì, ai piedi di Maed. In quell'immagine il cratere riversava nell'aria fumi gialli, schegge di topazio e strisce di resina solida. Migliaia di individui ne riempivano il fondo, accalcati attorno ad una roccia enorme, appuntita e allungata verso l'alto, infilzata nella roccia. Erano Astrali e umani, tutti insieme. Quella scena raccontava del loro primo contatto, subito dopo che gli Astrali erano caduti dal cielo. Non si conosceva il vero motivo della loro fuga dalle stelle, ma a Maed non importava. La sua storia era un'altra. Molto più divertente.
Si raccontava che gli Astrali fossero caduti a Tumenor e che avessero donato la magia agli uomini. Ma quella versione aveva troppo l'aria di una favola. E Maed ormai non era più una bambina. Il suo corpo aveva sanguinato.
No. Nella storia di Maed gli uomini avrebbero rubato la magia agli Astrali. Ne avrebbero sparso l'odore per le strade di Asdenar, in una grandiosa scalata verso le loro nuove ville bianche, modellando fiamme colorate con le dita. Per vendicarsi del furto subito, gli Astrali avrebbero dato fuoco a tutte le loro città. Maed si voltò e osservò la scena coi rubini. E poi sarebbero fuggiti con le loro navi, in un giorno senza vento, e gli uomini, non ancora esperti nell'uso dell'appena trafugata magia, non avrebbero potuto fare altro che osservare. Gli Astrali sarebbero scomparsi. E dopo qualche anno, sarebbero ritornati. Si sarebbero riversati nel cratere alle spalle di Asdenar, per mostrare la loro segreta creazione.
Sì, per ora sembrava quadrare tutto. Maed avanzò di qualche passo. Si chinò, accarezzando la penultima scena, tutta zaffiri e lapislazzuli. E piccoli diamanti, le stelle. Un sussurro accompagnò il suo dito. Al centro dell'immagine, un cristallo allungato volava nel cielo. Nella vera storia, nella vera favola, quel cristallo aveva ospitato gli Astrali mentre erano crollati verso Tumenor. Ma per Maed no. Da quella posizione, dal verso sbagliato, tutto acquistava un altro senso. Quelli erano gli Astrali che sfrecciavano verso l'alto, ad una velocità impressionante, fuggendo dagli uomini, dopo averli distrutti e infine estasiati.
Maed sorrise, poi si guardò alle spalle. Le immagini, in tutto, dietro di lei, erano una ventina. Avrebbe dovuto lavorarci, e costruire una storia ancora più solida di quella che aveva...
«Maedlin!»
Maed si girò di scatto. In fondo al corridoio, suo fratello Soenin era chino su se stesso, le mani appoggiate sulle ginocchia. Fece un gesto col braccio. «Muoviti! La nave ci sta aspettando.»
Se n'era dimenticata. Maed si sistemò la sacca sulla spalla, poi si alzò in piedi. Avrebbe voluto continuare a pensare alla sua nuova storia, c'era ancora molto da migliorare, ma le sarebbe servito del tempo.
Saltellò verso suo fratello, la sacca che le ballonzolava sulla schiena. Percorse tutto il corridoio e Soenin le afferrò la mano, una volta che lei arrivò al suo fianco. «Dai, una carrozza ci aspetta fuori. Gli altri saranno già arrivati.»
Maed cercò di divincolarsi dalla stretta di mano di Soenin. «Lasciami, sono grande, ormai.»
Soenin l'adocchiò dall'alto, poi sciolse la sua presa. Maed sperò che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.
«Guarda che io non mi sono dimenticato» disse, mentre camminavano a passi lunghi verso l'uscita. «Ora sei una ragazza, fra pochi anni il tuo sangue sarà blu.»
«Ancora quattro anni.»
«Shh!» Smise di camminare. Si accovacciò e la guardò dritta negli occhi. «Farai silenzio, se anticiperò per te l'addestramento? Solo un piccolo assaggio. Sarà il mio regalo.»
Maed spalancò la bocca.
«Sulla nave, durante il viaggio. Ci aspetteranno venti giorni in mare. Dobbiamo trovarlo un modo per divertirci, no?»
Si prospettava la vacanza più bella che Maed avesse potuto desiderare. Avrebbe pensato alla storia sugli Astrali. Avrebbe usato la magia per la prima volta, in anticipo di ben quattro anni. Il suo sangue sarebbe già diventato blu, le avrebbe macchiato le cosce, rendendo la sua giovinezza ancora più forte. E infine avrebbe cercato un modo per creare il fuoco rosso e usarlo contro sua sorella Tanesin.
Entrambi uscirono allo scoperto. La carrozza era parcheggiata all'esterno, su un largo sentiero di ciottoli. Era quella d'oro e blu, la preferita di Maed. Corse verso di essa saltellando, facendo roteare la sacca sopra la testa. Aprì la portiera e prese posto all'interno. Si sdraiò, la sacca sotto la testa come un cuscino e i piedi fuori dal finestrino. Sentì suo fratello prendere posto nella parte anteriore. Una volta seduto, guardò indietro e scoppiò a ridere.
Avrebbe voluto ridere anche lei, ma la carrozza sussultò e l'odore di magia ne pervase gli interni. Dopo qualche secondo si mise seduta, perché in quella posizione respirava a fatica. Tossì. Guardò alle sue spalle, appoggiando le braccia allo schienale.
Il solito fuoco azzurro bruciava nel retro della carrozza, dentro ad un canestro di legno intrecciato. Da quello che aveva capito era quello a generare la magia che spostava la carrozza in avanti. Sembrava non esaurirsi mai. E non infiammava ciò che toccava. Eppure Maed non osava sfiorarlo, perché era sicura che lei si sarebbe scottata. Certamente era dovuto alla sua inesperienza, perché tutti i suoi familiari erano in grado di toccarlo senza farsi male. Maed ricordava alla perfezione l'ultima volta in cui aveva provato a bruciare sua sorella Tanesin, senza riuscirci.
Era stata la prima volta in cui era riuscita a intrufolarsi nel bastione centrale della Villa. L'aria era stata irrespirabile. Si era tappata bocca e naso, prendendo fiato ogni tanto per non soffocare. La testa le era girata, e per poco non era svenuta accasciandosi contro una parete.
Le mura lì erano asettiche, bianche e luminose, intervallate da finestre e mosaici colorati. Il ricordo di quella volta aveva la parvenze di un sogno tremolante, eppure era intenso e radicato in profondità nella sua memoria.
Maed, ancora prima di intrufolarsi là dentro, aveva rubato una boccetta piena di una polvere grigiastra e una lampada dalle fiamme azzurre. Aveva individuato la stanza dove si trovavano lei e sua madre. Ne aveva cosparso il pavimento con la polvere, procedendo all'indietro e formando una striscia sottile, fino a dove poi si era nascosta. Aveva svitato la lampada e aveva aspettato. Forse si era addormentata, inebriata dall'aria densa di odore magico. Forse aveva cercato una finestra per poter respirare, questo non lo ricordava. Ricordava però che le sarebbe bastato solamente udire le urla di Tanesin e poi scappare nel giardino della Villa, in attesa di scoprire se aveva vinto. Non era giusto. Non era giusto che Maed non potesse nemmeno sfiorare il fuoco, mentre sua sorella era in grado persino di modellarlo con le dita.
Quando aveva infine sentito parlare Tanesin e sua mamma, aveva adagiato la lampada a terra, attenta a non toccarne le fiamme, che si riversavano come lingue affamate all'esterno. Quando una di esse aveva lambito la scia di polvere, questa aveva preso fuoco. Maed aveva impiegato ben dieci Saluti per mettere in piedi quel piano, quaranta giorni trascorsi a informarsi sui materiali da raccogliere, procurarseli e infine trovare un giorno adatto per agire.
Il fuoco aveva bruciato la polvere. Era avanzato sfrigolante sul pavimento, seguendo la scia lasciata per terra. Dopo aver percorso tutto il corridoio, aveva svoltato un angolo. Maed aveva aspettato, accucciata a terra, tendendo l'orecchio a ogni minimo suono.
E poco dopo erano giunte, le urla. Maed aveva esultato in silenzio, aveva afferrato la lampada e l'aveva gettata fuori dalla finestra. Poi era scappata dal bastione. In una corsa sfrenata aveva lasciato la lunga scalinata alle sue spalle, ed era sbucata fuori nel giardino.
Adelin aveva pianto. Davanti a lei cespugli e fiori erano avvolti da fuoco azzurro, lingue chiare che si allungavano verso l'alto. Era stato inutile gettarci sopra l'acqua dall'annaffiatoio con cui aveva sempre curato le sua piante. Il fuoco non aveva fatto altro che soffocare per un attimo, per poi risorgere più impetuoso di prima.
Le urla di Tanesin erano diventate d'un tratto molto più chiare. Maed si era voltata. E l'aveva vista lì, sulla soglia del portone. Nuda, dalla testa ai piedi. Non aveva nemmeno provato a coprirsi, mettendo in mostra il seno e le lunghe gambe, la pelle chiara e liscia macchiata di nero. Con passo deciso si era fatta avanti. C'erano stati alcuni servitori nel giardino. I loro schiamazzi erano cessati all'istante, zittiti dall'urlo furioso di Tanesin, che nel frattempo si era lanciata in una corsa. Maed si era voltata per scappare via dal giardino, ma sua sorella le era saltata addosso. Aveva strillato, seppellendola col suo peso. Nella zuffa Maed aveva intravisto sua madre giungere al portone, coperta da un mantello. Adelin le era corsa in contro, abbracciandola e continuando a frignare.
Maed trasalì. La carrozza si era arrestata di colpo, sbilanciandola indietro. I versi dei gabbiani e il soffio della brezza avevano sostituito il rumore delle ruote sul selciato. Soenin era proteso alla sua destra, affacciato alla finestra.
«Papà?»
Cosa?
Maed scostò una tendina e diede un'occhiata all'esterno. Quella zona era piena di alberi. A Tumenor, soprattutto ad Asdenar, erano una rarità. Farnel era in piedi sotto uno di essi, uno dal tronco tozzo e basso, con una chioma folta e rigogliosa.
«Soenin!» Farnel sventolò il braccio e alcuni frutti caddero ai suoi piedi.
«Che stai facendo, papà?» gridò Soenin.
Lui non rispose, troppo impegnato a raccogliere i frutti che gli erano caduti. Li avvolse nel suo stesso vestito.
Soenin sbuffò. «Papà, muoviti!»
Poco dopo, Farnel spalancò la portiera posteriore della carrozza e prese posto accanto a sua figlia. Scostò la tenda e guardò verso il mare lontano, dietro gli alberi.
«Cosa ci facevi tutto solo, lì?» chiese Soenin senza voltarsi, mentre la carrozza riprendeva a macinare terreno.
«Vostra madre e vostra sorella mi hanno consigliato di scendere dalla carrozza per venirvi a cercare.»
Sì, come no. Consigliato.
«E tu giustamente ti sei fermato a osservare gli alberi.»
«Certo, figliolo. Ho fatto scorta di frutta.»
Soenin sbuffò ancora, continuando ad osservare la strada davanti a lui. A Maed non sembrava stesse facendo granché, eppure il fuoco azzurro sul retro continuava a bruciare e la carrozza procedeva spedita senza fermarsi. In breve sarebbero arrivati alla nave ormeggiata alla scogliera, dove Yanesin, Tanesin e Adelin li stavano aspettando.
Farnel appoggiò una mano sul ginocchio di Maed. «Guarda Maed.» Tra le sua dita spuntarono alcuni piccoli frutti rossi. «Guarda cosa ti ho preso.» Erano tutti legati a coppie da sottili rametti verdi. Suo padre ne staccò uno. «Uno a te, uno a me.»
«Cos'è?»
«Li ho chiamati campanelli.» Ne prese un paio ancora attaccati e li agitò. «Mangiane uno. Ma attenta che il seme è grosso e duro.»
Maed osservò il frutto rosso e lucido sul suo palmo. Poi lo mise in bocca e masticò. Era dolce, succoso. Ma finì in fretta, lasciando posto ad un cuore duro e insapore. Guardò fuori dalla finestra, oltre la testa di suo padre, anche lui perso nel paesaggio. Prese dalla sua mano un altro frutto, un altro di quei campanelli. Suo padre si voltò e le sorrise. Annuì, masticando, mentre del succo gli fuoriusciva dal lato della bocca. «Dovremmo fare altri di questi viaggi» disse, pulendosi la guancia.
Per il resto del viaggio Maed si consolò mangiando quei frutti dolcissimi. Cercò di pensare ad un modo per poter creare il fuoco rosso, ma continuava a distrarsi. Osservava il mare lontano, curvo e luccicante, calmo e nascosto dietro le foglie degli alberi. Quello era un posto strano. Tutto verde, non bianco, marrone e azzurro come il resto di Tumenor.
Quando i nobili dovevano prendere una nave non passavano mai da Asdenar. Il porto si trovava lì, e pure le navi che dovevano prendere si trovavano lì. Ma non loro osavano minimamente mischiarsi alla gente della città bassa, dove la puzza era quella della pece e non quella della magia. Una strada in terra battuta, invece, avvolgeva da dietro tutta la città, senza attraversare le sue strade strette e affollate. Dopo aver affiancato filari di alberi, colline e prati deserti, scendeva fino ad un promontorio all'altezza del porto, ma qualche miglio più in là. Quella era una zona disabitata, tutta rocce e sale, dove le imbarcazioni ormeggiavano ad aspettarli.
Maed si ritrovò con le mani appiccicose, quando il paesaggio cambiò e il verde lasciò posto al grigio e al marrone della roccia. L'odore strisciò dalle sue spalle più pungente e l'aria divenne più calda. Maed sudava copiosamente. Una fitta le colpì lo stomaco. Si trattava della troppa frutta che aveva mangiato o era il sangue nel suo ventre, voglioso di fuoriuscire?
Si voltò, cercando una distrazione. Il fuoco azzurro era più alto e intenso di prima. La carrozza rallentò, nonostante stesse percorrendo una discesa. Svoltò alcune curve, portandosi verso il fondo, dove il promontorio si affacciava direttamente sul mare.
Suo padre le porse un altro frutto, questa volta arancione e pieno di peluria. Maed non volle saperne di mangiarlo, né volle sapere che nome gli avesse affibbiato. Non vedeva l'ora di arrivare in fretta alla nave, e sperò che il male allo stomaco si calmasse. Forse ci sarebbe stato tempo per farsi un bagno in mare, prima di partire.
La carrozza si fermò un'ultima volta. Maed si ricordò di prendere la sua sacca con i vestiti e appena mise piede sulla roccia butterata del promontorio vide la nave che li stava aspettando. Era un veliero maestoso, le imponenti vele nere e rosse che sbatacchiavano mentre venivano slegate dalle cime. Affacciata al parapetto, sua madre Yanesin sventolava un foulard blu. Urlava qualcosa, ma la brezza mascherava la sua voce.
Maed ignorò tutti i servitori che la salutavano e le chiedevano se aveva bisogno d'aiuto, e giunse sulla passerella traballante che collegava la nave al promontorio. Un maggiordomo si protese in avanti per afferrarle la mano e la tirò su a bordo. Le assi scricchiolarono sotto i suoi passi veloci. Non diede retta a nessuno, diretta dalle parte opposta, che dava sul mare. Lasciò cadere la sacca, chiuse gli occhi e permise alla brezza di gonfiarle il vestito e rinfrescarle la pelle.
«Mi faccio un bagno» sentenziò, voltandosi e osservando i presenti sul ponte.
Alcuni mozzi trascinavano dei sacchi, un uomo arrotolava una corda al braccio. Un ragazzo era seduto a gambe incrociate per terra, mentre giocava con dei pezzi di vetro. Suo padre salì a bordo, dall'altra parte, e qualcuno sollevò la passerella. Non c'era traccia di Tanesin o Adelin.
«Io vado» disse più forte, sperando che qualcuno la sentisse. «Mi lancerò in acqua e poi mi arrampicherò di nuovo su.» Ignorò la debole fitta allo stomaco. «Farò in fretta.»
«Tu non farai un bel nulla, ragazzina.» Qualcuno le colpì la testa e Maed si voltò per osservare. Una donna le passò accanto in uno svolazzare di vesti nere, proprio come le vele che stavano sopra le loro teste. «Siamo in ritardo e tua madre è furiosa.» Si allontanò, senza degnarla di uno sguardo. Poi si avvicinò a un mozzo e gli tirò un calcio alle gambe, urlandogli qualcosa.
Maed sbuffò, osservando la donna. Forse era il capitano. No, non poteva essere. Una donna capitano?
Si voltò, sporgendosi oltre la murata del veliero. L'acqua sbatacchiava contro il legno, chiamandola a sé. Frescura e profumo di salsedine giunsero dal basso.
Maed si staccò. Voleva prendere una bella rincorsa. Si sarebbe lanciata in acqua e si sarebbe lavata per bene. Nessuno la stava degnando di attenzioni. Era il momento perfetto.
Fece un altro passo indietro, scostando con i piedi la sacca che aveva lasciato per terra e si raccolse il vestito, pronta a partire.
Qualcuno strillò, alle sue spalle. Maed cercò di non fargli caso, e si lanciò ugualmente nella rincorsa. Ma lo strillo si ripeté di nuovo, più forte e disperato di prima. Maed frenò e si voltò.
E aveva fatto bene a fermarsi.
Un fuoco rosso e arancione scoppiettava al centro del ponte della nave. Il ragazzino, quello di prima, indietreggiò davanti ad esso, ammirandolo con occhi affascinati. Lasciò cadere i vetri che aveva tenuto in mano, dischi spessi che incominciarono a rotolare sul legno, lanciando barbagli di luce in tutte le direzioni.
Sua madre Yanesin era qualche metro più in là. Si copriva la bocca con la mano, tenendosi i lembi del vestito. I marinai si dileguarono, mentre il fuoco avvampava verso l'alto e al contempo strisciava sul legno, ingrossandosi sempre di più.
Si aprì la porta di una cabina. Tanesin si affannò all'esterno, poi si bloccò non appena vide cosa stava succedendo.
«Idiota, levati!» La donna dalle vesti nere giunse alle spalle del ragazzino e lo spinse a terra. Si fermò di fronte al rogo, a pochissima distanza dalle fiamme, come per cercare di sfidarlo.
«Dannazione, fate qualcosa!» urlò infine, indietreggiando. «Voi, fate qualche magia, spegnetelo!» Sbracciò verso Tanesin e Yanesin, mentre circumnavigava il fuoco sempre più grande.
Maed era rapita. Osservò quella cosa inconsistente schioccare e ondeggiare nell'aria tremolante. Sua madre indietreggiò sempre di più, fino a quando non andò a finire contro una parete di legno. Attorno al fuoco erano rimasti solo la donna e Tanesin. Maed si staccò dal parapetto, muovendo qualche timido passo in avanti.
«Sollevate dell'acqua dal mare, portatela qua!» sbraitò ancora la donna. «Fate qualsiasi magia e prendete della dannata acqua!»
Tanesin continuava a studiare le fiamme. La sua risposta fu silenziosa, ma il labiale chiarissimo. Non possiamo...
La donna le diede una spallata, mentre si dirigeva verso i mozzi accalcati in fondo al ponte. «Tu, prendi dei secchi e valli a riempire» ordinò a uno di loro, afferrandolo per il braccio e facendolo allontanare. «Qualcun altro ammaini le vele prima che diventino cenere.» Agguantò un altro paio di ragazzi. «Forza! Non vi cagate addosso.» Fece per allontanarsi, poi ordinò un'ultima cosa, rivolgendosi a tutti. «Gli altri in coperta, ai remi. Chi vorrà scappare sarà costretto a buttarsi in mare, e allora io prenderò la balestra e lo farò fuori prima che possa fare solo due bracciate.»
Il fuoco era diventato grande, alto il doppio di tutti i presenti. Il capitano donna si voltò un'ultima volta per fronteggiare la minaccia in mezzo al ponte, mentre i suoi uomini le sciamavano attorno. Yanesin si avvicinò a lei. «Capitano Ranya, ti ordino...»
«Un bel nulla.» La scansò, poi si guardò attorno. «Dov'è finito il ragazzino con le lenti?» Si voltò, cercando i pezzi di vetro a terra. Erano scomparsi. Poi si affacciò per guardare in mare. «Qualcuno prenda la balestra! Lo ammazzo!»
Maed approfittò della confusione. Tanesin era là, ancora di fronte al fuoco.
Non possiamo...
Il fuoco rosso, quello proibito, avrebbe rappresentato davvero la soluzione vincente?
Maed, dopo che il capitano aveva finito di impartire gli ordini, aveva continuato ad avanzare. La schiena di sua sorella ora era a un palmo dal suo volto. Dietro, le fiamme proibite.
Allungò le mani e la spinse in avanti.
Tanesin cadde dentro al fuoco, urlando. Le fiamme la avvolsero. Qualcuno gridò, sul ponte. Qualcun'altro la cinse, lanciandola a terra. Impattò il legno. Era stata Ranya, la donna, finendo sopra di lei. «Cosa hai fatto, stupida ragazzina?» Le prese la faccia tra le mani e la scosse. Le tirò uno schiaffo. Cosa voleva da lei? Cosa c'entrava? Era una questione tra lei e sua sorella. E basta.
Sua madre aveva smesso di strillare. Si stava avvicinando, ma qualcuno la fermò con una mano.
Tanesin mise piede fuori dal fuoco, nella stessa maniera in cui si attraversa l'uscio di casa. Era nuda, come quell'altra volta. Alcune fiammelle danzavano sui suoi capelli castani. Si strappò ciò che rimaneva dei vestiti, sbriciolandoli con le dita. La sua pelle era chiara come sempre, intatta, lucida, illesa. Nemmeno il fuoco proibito l'aveva ferita. Nemmeno il fuoco selvaggio l'aveva bruciata. I suoi seni erano cresciuti dall'ultima volta e ormai era più alta di sua madre. Incuteva paura in quella posa, a pochissima distanza dalle fiamme.
Non si mosse, come quell'altra volta. Non le saltò addosso, non urlò. Forse ormai si era abituata. Si limitò a sorridere. Prese la sacca di Maed e la gettò nel rogo. Il fuoco se la mangiò emettendo un soffio soffocato.
Sua sorella Tanesin avrebbe vinto ogni fiamma. Era impossibile bruciarla. Probabilmente non sarebbe morta mai.
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