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Capitolo Due

Fuoco rosso, fuoco blu

Il Faro, a quell'ora del giorno, era un semplice faro, mattoni neri ricoperti di muschio e sale incrostato. Sulla sua cima infuriava un fuoco blu, installato dai nobili per mostrare la strada di ritorno alle imbarcazioni. Fino a quando su Asdenar non fosse calata l'oscurità, esso sarebbe parso agli occhi di tutti una vecchia torre a guardia della città. Di notte, invece, nelle profondità delle sue fondamenta, fiaccole di fuoco rosso illuminavano e alimentavano le folli idee degli scienziati. Idee che avrebbero potuto rovesciarla, quella stessa città.

Maed, dopo aver lasciato la boccetta nel Faro, si era seduta su uno scoglio a osservare il tramonto. Gamon era più veloce a cavalcare il cielo, quando si avvicinava al mare per baciarlo. Era più grosso, in quegli ultimi istanti prima di scomparire, e meno accecante. Dopo essersi immerso nelle acque, passavano davvero pochi minuti prima che scomparisse del tutto, sgomberando per qualche istante il cielo di Tumenor. La sua luce tendente al verde persisteva qualche altro momento e, prima che svanisse del tutto, un altro pianeta faceva la sua comparsa nel firmamento. Udenas, il pianeta rosso, quando sbucava dalle colline era già morente. Compiva un piccolo arco alle spalle della città, rischiarando l'atmosfera con una luce calda e debole. Poi si rituffava timido dietro alle colline, lasciando che il freddo e la foschia strisciassero dal mare.

Maed si massaggiava la caviglia. Nel frattempo, si chiedeva come facessero ogni giorno quei dischi lucenti e colorati a cavalcare il cielo, a sorgere e a tramontare, sempre nello stesso punto, sempre alla stessa ora. Il vecchio Cavalluccio ce l'aveva un orologio, e lei aveva controllato che fosse veramente così. Lo era. Possedeva anche un tubo che permetteva di osservare gli oggetti lontani. Lenti telescopiche, le aveva chiamate. Una volta Maed aveva sbirciato da quelle lenti, per due giorni consecutivi. Sì, aveva visto Hajen — il pianeta giallo, il primo a sorgere — nascondersi esattamente nello stesso punto, dietro a quella casa col tetto verde.

Quando Gamon scomparve completamente sotto l'orizzonte, lanciò un barbaglio di luce verso l'alto, come per congedarsi. E Maed seppe di essere in ritardo. Con cautela si rimise in piedi e saggiò la pietra col piede sinistro, pronta a ricevere la scossa. Stringendo i denti, zoppicò via dalla scogliera, diretta alla piazza dove si svolgeva il mercato. Da lì, ogni sera, la carrozza di un mercante di canne da pesca e suo figlio risaliva la città. Se Maed voleva tornare a casa prima della cena ed evitare che i suoi familiari sospettassero di quello che combinava ogni giorno per i tetti di Asdenar, doveva muoversi. Non osò soffermarsi su quello che sarebbe successo se l'avessero scoperta.

Maed guardò in alto, di fronte a sé, osservando Udenas che sorgeva dietro alle bianche e lucenti ville dei nobili. Esse sovrastavano la città di Asdenar, i tetti ricoperti da tegole e le strade lastricate. L'aria incominciava a diventare pungente, e l'oscurità calava sui vicoli. Gli scienziati si preparavano ad aprire le danze nelle profondità del Faro, mentre, la sua famiglia, molto probabilmente si chiedeva dove fosse finita la loro figlia più piccola. Maed, quella stessa sera, avrebbe chiesto del suo addestramento. Era stato rinviato fin troppe volte; ma se lo sentiva, sapeva che quella volta le avrebbero finalmente indicato una data. Però doveva sbrigarsi. Avrebbe dovuto intrufolarsi nei giardini della Villa. Poi si sarebbe diretta nella sua camera, avrebbe indossato un vestito che si addice ad una ragazza nobile e, infine, si sarebbe seduta al tavolo della cena. Immacolata, come se non avesse mai messo piede nei lordi e puzzolenti vicoli della città.

Fortunatamente, trovò la carrozza di Edon ad aspettarla, parcheggiata a lato della piazza. Alcune casse vuote erano sparse sulla pietra umida, disseminata di alghe e reti da pesca. Maed accelerò il passo, appiattendosi contro il muro. Controllò che non ci fosse nessuno ad osservarla, facendo correre gli occhi dalla carrozza alle finestre che si affacciavano sul piazzale ormai deserto. Poi s'infilò in un vicolo e attese il momento giusto per saltare a bordo.

Il padre di Edon passò davanti a lei. Maed si accucciò a terra, trattenendo il respiro. L'uomo aveva una cartelletta in mano, finì di annotare qualcosa. «Edon, hai sistemato le canne da pesca?» chiese, voltandosi e infilandosi la cartelletta sotto il braccio. La sua figura era un'ombra nera nell'oscurità incedente.

«Sì, papà.» La voce del ragazzo giunse in un mugugno confuso. «Tu sali. Ho solo un problema a togliere il freno di destra. Arrivo.»

Suo padre sbuffò e s'incamminò nella direzione che aveva seguito prima. Maed sentì una porta chiudersi e fu di nuovo libera di poter respirare. Attese qualche secondo e Edon sbucò di fronte a lei. Si voltò furtivo, a destra e a sinistra, senza accorgersi che lei era nascosta proprio ai suoi piedi. Dovette acchiapparlo per una gamba per catturare la sua attenzione, facendolo sobbalzare.

«Su, muoviti che stasera mio padre è nervoso» disse infine, ansimando. Aiutò Maed a rialzarsi e l'accompagnò sul retro della carrozza, spalancando le imposte per lei. «Veloce, dai» si affannò, spingendola a bordo.

«Non toccarmi il sedere, idiota.»

Edon le chiuse le ante in faccia e d'un tratto nel retro della carrozza fu buio. Maed prese posto seduta contro la parete che sosteneva le poltrone dei conducenti. Cercò con le dita lo sportellino che usava per spiare le discussioni dei due. Lo aprì. Poi fece spazio di fronte a sé, scostando alcune canne da pesca, e allungò le gambe, mettendosi comoda. Udì i cavalli sbuffare e rischiò di cadere in avanti, mentre la carrozza incominciava a muoversi. Si afferrò ad una maniglia che pendeva dal traballante soffitto di legno e chiuse gli occhi, cercando di riposarsi.

«Papà, hai visto quei nobili giù al porto oggi?» La voce del ragazzo si era trasformata da quando Maed aveva iniziato a rubare per la combriccola, ma era pur sempre quella di un giovane.

«Sì ho visto» rispose in tono sommesso suo padre. Qualche attimo di silenzio. Maed si chinò, avvicinando l'orecchio allo sportellino che aveva ricavato lei stessa dal legno della parete.

«Anche all'ultimo Saluto ne ho visti un paio passeggiare tra i moli del porto. Cercano altri di quegli scienziati?»

«Edon, non lo so.» La carrozza ricevette uno scossone e uno dei cavalli nitrì. «Sono stanco, fammi guidare.»

«L'altra volta li ho visti osservare il faro.» Maed aguzzò l'udito, strisciando ancora più vicina allo sportellino.

L'uomo non rispose. Le pareti di legno cigolavano e gli zoccoli dei cavalli percuotevano la pietra.

«Papà, non avrà a che fare con quell'aggeggio che usi da poco per fare i conti?» azzardò ancora Edon.

«Zitto, diamine. Quello l'ho nascosto a casa di Quon. Non parlarne mai più.»

«Allora è quello, papà» disse Edon alzando il tono della voce. «Ma così Quon rischia di essere catturato per colpa nostra!»

«Ora che i nobili si spostano così in basso con le loro carrozze non possiamo rischiare nulla» rispose, la sua voce che tornava carica come sempre. «Potrebbero fermarci da un momento all'altro e perquisirci. Anche adesso. Ora zitto, e fidati di me. I nostri affari vanno a gonfie vele da quando uso quella cosa.»

«Chi te l'ha venduta, uno scienziato?»

«Non t'importa. Quello che conta è che ho già recuperato tutti i soldi.»

Nella carrozza calò il silenzio. Maed si raddrizzò e riacchiappò la maniglia sopra la sua testa. Rabbrividì. Allora non solo quel giorno i nobili si erano spinti così in basso. Edon li aveva visti osservare il faro. Doveva stare più...

«Edon!» urlò d'un tratto suo padre. «Cosa cazzo tieni in mano?»

Silenzio.

«Edon...» ringhiò ancora.

«N-niente.»

«Fammi vedere. Dammi qua.»

La carrozza sobbalzò e Maed fu spinta di lato. Cadde sopra la sua stessa caviglia e si morse il pugno, per trattenere un urlo.

«Sei fuori?» Poche volte la voce dell'uomo era stata così furiosa. «Quella cosa fa il fuoco! Dove l'hai trovata?»

«Tu prima dimmi chi ti ha venduto quell'aggeggio.»

Il padre di Edon gli tirò uno schiaffo e la carrozza sbandò un'altra volta. «Se i nobili ci scoprono a usare il fuoco ci appenderanno. Buttalo fuori.»

Maed non indugiò un attimo e lasciò la maniglia del soffitto. Si lanciò in avanti, continuando a tendere l'orecchio dietro di sé. Maneggiò con le canne da pesca stipate ai suoi piedi.

Un altro schiaffo. «Gettalo subito» sibilò ancora il padre di Edon dall'altra parte. «Non è cosa per noi il fuoco.»

Qualcosa rimbalzò sulla pietra della strada, tintinnando.

Maed spalancò le ante del retro della carrozza con una spallata, mentre con le mani reggeva una canna da pesca. Scrutò la discesa che si apriva davanti ai suoi occhi, in cerca del minimo luccichio. Lo vide. Un piccolo oggetto metallico brillò a lato della strada, rischiarato da una di quelle lampade magiche appesa al muro.

Maed caricò la canna da pesca, attenta a non farla impigliare sopra di sé. Poi protese entrambe le braccia in avanti e mollò la presa dell'indice sulla lenza, attenta a contenere lo slancio del suo corpo. Il mulinello ruotò furioso e l'amo scomparve nel buio di fronte a lei. La lenza era un filo argentato, che scompariva e riappariva nell'oscurità. Poi ci fu un tintinnio e l'amo fu di nuovo visibile, mentre rimbalzava scintillante sulle mattonelle della strada.

Maed non sentì più nulla di quello che si stavano dicendo Edon e il padre, troppo concentrata a recuperare l'oggetto che aveva gettato il ragazzo. Diede uno strattone all'impugnatura della canna verso destra e attese, osservando l'uncino metallico sobbalzare sulla pietra, risalendo la strada che sfrecciava indistinta sotto i suoi occhi. Poi spostò di pochissimo la canna, allineando l'amo al luccichio metallico, mentre si avvicinava pericolosamente ad esso, dal basso. Quando entrambi furono ad una distanza minima, diede un colpetto al mulinello. Lo agganciò. Vide quel blocchetto metallico penzolare in aria, in un equilibrio molto precario.

Maed, le dita attentissime, continuò a recuperare la lenza, pregando che ciò che aveva pescato — se si trattava veramente di quello in cui sperava — non scivolasse via perdendosi per sempre nel ripido viale. Si spostò indietro e tenne la canna da pesca impennata, per evitare che il suo tesoro rischiasse di toccare la pietra e sfuggire dalla presa. Diede un colpetto con la spalla all'anta che nel frattempo si stava richiudendo su se stessa.

Quando ebbe recuperato quasi tutta la lenza, fece scorrere le mani su per l'asta, spingendo il resto della canna dietro di sé. Si morse il labbro, vedendo l'oggetto metallico sussultare, appeso all'amo. Si protese in avanti, afferrando con una mano il tettuccio della carrozza per non cadere. Tirò fuori la lingua, le sue dita che strisciavano verso l'alto.

La carrozza curvò. Maed cadde sul fianco, serrando gli occhi, e perdendo la presa dal tettuccio della carrozza. L'anta alla sua sinistra le sbatté contro il ginocchio. L'afferrò con una mano, mentre con l'altra stringeva ancora la parte superiore della canna. Mancava pochissimo, pochissimi centimetri. Il blocchetto di metallo era ancora appeso all'amo per un miracolo. La carrozza sobbalzò ancora, risentendo di un cambio di pendenza nella strada, e la preda di Maed rischiò di sfuggire, dimenandosi. Le sue dita si arrampicarono ancora su per l'asta, come le zampe di un ragno, mentre lei sentiva un crampo incominciare ad annodarle l'avambraccio. Soffiò, ringhiò. Poi la sua mano si arrese. E il suo tesoro sfuggì dall'amo.

Maed strinse forte il pugno. Al sicuro nel suo palmo sentì qualcosa di freddo e metallico. Sorrise, mentre osservava la canna da pesca che aveva afferrato fino a poco prima ruzzolare giù per la strada. Poi richiuse le imposte della carrozza e si appiattì di nuovo contro la parete. Si tappò la bocca con una mano, aspettando che il suo respiro si calmasse, mentre stringeva con l'altra il tesoro.

«Hai sentito quel rumore, papà?»

«Idiota, hai chiuso tutto là dietro? Che cosa ti passa per la testa oggi, eh?»

«Sì, sì, ho chiuso tutto, ti giuro che...»

Maed serrò lo sportellino e le voci dall'altra parte d'un tratto si affievolirono. Fece scivolare la schiena sulla parete e, quando fu comoda, chiuse gli occhi, stremata. Il suo petto si alzava e si abbassava, sentiva la sua maglietta appiccicata di sudore. Il traballare della carrozza e i suoi cigolii la cullarono.

Si svegliò d'un tratto. Si era addormentata. Qualcuno bussava alle imposte della carrozza. Il rumore delle ruote sulla pietra non c'era più, così come quello degli zoccoli dei cavalli.

«Maed» bisbigliò qualcuno. «Muoviti, siamo arrivati.»

Maed si alzò e picchiò con la testa sul basso soffitto. Massaggiandosi il cranio, si avviò a schiena curva verso il fondo della carrozza. Aveva ancora in mano il blocchetto di metallo pescato dalla strada. Lo strinse tra le dita.

Aprì i portelloni sul retro. Fuori era buio pesto, Edon che camminava furioso avanti e indietro, confondendosi nell'oscurità. Quando lei saltò giù a terra, lui si voltò.

«Ce l'hai fatta.»

«Non aspettarmi domani» disse Maed, sgranchendosi le gambe. «Potrei non aver bisogno del passaggio.»

«Come vuoi.» Chinò il capo, mentre Maed s'affacciava oltre la carrozza, per controllare se aveva via libera. «Penso sia inutile chiederti ancora quando mi farai vedere la tua villa» disse ancora Edon.

«No, non è inutile.» Maed si voltò verso di lui. «Ma la risposta è ancora no» disse, sollevando l'indice.

Edon fece per rispondere ma lei l'anticipò. «Ora vado, sono più in ritardo del solito.» Si voltò, poi si ricordò di un'ultima cosa, prima di scomparire nel buio. «Ah, non ti meravigliare se manca una canna da pesca al prossimo conteggio. Buona fortuna con tuo padre.»

Scomparve su per le strade. Camminò con cautela, attenta ad ogni angolo, per non farsi scoprire, ma anche per non sforzare troppo la caviglia. Edon e suo padre abitavano nella città elevata, dove le strade erano meno ripide e più ampie, meno puzzolenti. Essa distava molto poco dalle ville dei nobili, ed era per questo che Maed aveva scelto la loro carrozza, per ritornare ogni sera a casa. Camminò qualche minuto, fino a quando le strade di pietra illuminate dalle lampade magiche dei nobili non lasciarono posto ad una campagna scura come la pece. Si voltò. Asdenar si estendeva ai suoi piedi. Qualche luce sparuta risplendeva qui e là. In fondo, la cima del Faro avvampava di blu. Maed immaginò cosa stesse accadendo nelle sue profondità. A breve le avrebbe visitate. Ma in quel momento le priorità erano altre. Strinse il tesoro tra le sue dita e inspirò, facendosi coraggio.

Dopo poco tempo, giunse immancabile l'odore della magia. Era ancora flebile, lo percepiva a sprazzi. Talvolta sembrava che esalasse dalle stesse rocce, impregnate in profondità dagli incantesimi di centinaia di anni, da quando gli Astrali erano caduti dal cielo. Insieme ad esso comparvero dei bagliori colorati, dietro alla sommità di una collina. I tetti delle ville bianche dei nobili incominciarono ad ergersi maestosi. Quella dove abitava Maed era una delle prime, per chi proveniva da Asdenar, e anche una delle più elevate. Quando le sue scarpe calpestarono nuovamente la pietra, seppe di essere quasi arrivata, e dovette anche pensare ad un modo per intrufolarsi nella dimora senza essere scoperta.

Imboccò un'ampia strada, illuminata ai lati da lampade colorate, colme di fumi volteggianti. Erano state infuse dai nobili più esperti, e i più ricchi abitanti di Asdenar potevano accaparrarsele se disponevano di abbastanza denaro. Non tutti nella città potevano permettersi la luce quando veniva la notte.

Maed svoltò, e si ritrovò in un viale più piccolo, molto ripido, che curvava più volte scalando una collinetta. In fondo, la Villa della famiglia Tamoni, la sua Villa, si ergeva imponente. Sulla sua cima sventolava un'immensa bandiera. Raffigurava lo stesso simbolo che aveva tatuato sul braccio, bianco in campo blu, come ad avvisare gli ospiti che lì dentro accadeva l'impossibile. O almeno, questa era stata l'interpretazione di Maed.

Nessuno avrebbe dovuto scoprirla. Non sua sorella Adelin, non Tanesin, né sua madre o perfino suo padre. Suo fratello Soenin non era in città, non sarebbe stato un problema, per quella sera. E per fortuna, quando l'ultimo dei pianeti tramontava dietro le colline e il buio regnava sovrano, i servitori si spostavano all'interno, per ultimare le loro faccende. Nei giardini rimanevano solo il verso delle cicale e l'odore della magia, come a guardia per gli estranei. Nessun abitante della città di Asdenar sarebbe stato in grado di avvicinarsi alla villa di un nobile. Si trattava quasi di una difesa naturale.

I giardini di fronte alla dimora erano poco illuminati. Maed si nascose dietro a un albero e decise di mettere alla prova che ciò che aveva pescato dalla strada. Tastò il blocchetto di metallo con le dita. Era freddo, ma sapeva che si trattava solo di un inganno. Si apriva sulla sommità, e all'interno nascondeva una rotellina zigrinata e un piccolo tubicino bucherellato. Maed diede un colpetto alla rotellina e una fiammata si sprigionò dal piccolo cilindro. Era fuoco rosso. Rosso, non blu come quello dei nobili. Maed sorrise, tenendo aperta la sommità dell'aggeggio. Di certo si trattava di qualcosa costruito dagli scienziati. L'avrebbe aggiunto alla sua collezione.

Avanzò, tenendo d'occhio l'entrata della Villa, poco visibile dietro alle siepi e ai cespugli. Cercò di fare meno rumore possibile, le sue scarpe che sfioravano l'erbetta umida. Dovette riaccendere più volte la fiammella, perché essa si spegneva ogni volta che lei scattava da un tronco all'altro. La riaccendeva, non perché le servisse per fare luce, ma perché mentre aspettava che il dolore della caviglia si calmasse, le piaceva osservarla. Le piaceva il suo colore così strano. Rosso. Sapeva di follia.

Prese un respiro profondo e lasciò l'ultimo albero, lanciandosi dietro ad un cespuglio fiorito. Riaccese la fiammella. Dopo quell'ultimo nascondiglio avrebbe dovuto affiancare un'ultima siepe e avrebbe raggiunto infine l'entrata. O meglio, la parete che avrebbe tentato di scalare. Si massaggiò il piede.

«Maed.»

Si voltò, il suo cuore che sprofondò per la durata di un battito.

Dietro di lei, sua sorella Adelin stava in piedi, in un lungo vestito azzurro e bianco. Maed rimase pietrificata, ancora accucciata a terra.

«Cosa tieni in mano?»

«Niente.» Maed chiuse il blocchetto di metallo e la fiammella rossa si estinse. Nascose l'aggeggio nel pugno. Notò solo in quel momento le pietre rotonde che fluttuavano attorno a sua sorella. Un paio sopra il capo, un paio sopra le spalle, un'altra ancora di fronte al suo petto. Altre più piccole davanti al suo volto.

«Non è vero. Rifallo. Riaccendi quel fuoco.» La sua espressione era impassibile. I suoi capelli biondi erano legati in cima al capo in una cipolla, lisci e perfetti.

Maed diede un colpo alla rotellina. Soffiò una brezza fredda, che la fece rabbrividire. La fiammella si piegò di lato, traballante, e le scottò il pollice.

«Quello è fuoco rosso. Pericoloso.» La voce di sua sorella era tremolante, come sempre.

«Ti prego, non parlare» disse, scacciando il dolore con la mente. «Silenzio...»

«Solo i nobili che sanno usare la magia sono autorizzati a fare il fuoco. Fuoco blu, lo sai.»

«Lo so.» Maed cercò di rimettersi in piedi, ma le girò la testa. Estinse il fuocherello con dita tremanti. «Lascia cadere quelle pietre, non vedo la tua faccia.»

«Devo allenarmi.» Altre pietre sorsero da terra. «Lo sai che se continui a scomparire così mamma rinvierà il tuo addestramento per anni.»

Maed deglutì. Una folata di vento fece sussurrare le chiome degli alberi e i cespugli. Portò con sé una lieve ondata di odore magico. «Certo, non farò così tardi. Mai più.»

Adelin si voltò, alcune delle pietruzze che crollarono alle sue spalle, mentre muoveva i primi passi.

«Adel, vero che starai zitta? Non dirai nulla a nostra madre. Nemmeno a Tanesin. Come sempre.» Quella volta, però, non ne era così tanto convinta.

Lei non si voltò. Maed si alzò, mettendo in tasca il blocchetto di metallo, e arrancò verso sua sorella, la fronte che le pulsava. Parlò ancora. «Ti prego, ti scongiuro, fallo. Ne ho bisogno. Shh...» Si portò l'indice alle labbra, sperando di attirare la sua attenzione. «Come sempre, Adel.»

Adelin girò il collo e la scrutò. Una delle pietre grosse ruzzolò sul selciato. Sua sorella stette così qualche secondo, il suo vestito azzurro che s'increspava sulle spalle. Maed strinse i pugni, pregando che facesse quel gesto, come sempre. Gli occhi di sua sorella erano due piccole fessure, indecifrabili.

«Shh» fece, infine, portandosi l'indice tremante sulle labbra, mentre un'altra pietruzza smetteva di librarsi attorno a lei, unendosi alle altre per terra con un tonfo. Voltò il capo e s'incamminò nuovamente, la ghiaia che scricchiolava sotto i suoi passi lenti e misurati.

Maed sospirò. «Grazie, sorellona.»

Sperò che si voltasse ancora, che dicesse qualcos'altro, qualsiasi parola. Ma Adelin non la degnò di uno sguardo. Si limitò a protendere la mano dietro di sé, e la roccia rotonda che prima era caduta si rianimò, dapprima rotolando sul sentiero, poi fluttuandole di nuovo dietro alle spalle, traballante. Un'altra densa zaffata di magia. Pungente, che perforava il cervello.

Maed socchiuse gli occhi, che lacrimarono, bruciando.

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