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Capitolo Cinque

Corridoi d'ambra

Maed socchiuse la porta dietro di sé e riappese la lampada che aveva usato per farsi luce nella stanza. Rindossò le scarpe, le stesse che aveva estratto da sotto le tegola quel pomeriggio, ora che non avrebbe più dovuto stare attenta a fare silenzio. Non si trattava di eleganti scarpe di pelle, lucide e scomode. In realtà erano confortevoli e leggere, ma un po' sporche. Un buchino si apriva sulla punta del piede destro. Si era dimenticata di cambiarle, quando era stata nella sua camera, distratta dalla presenza di Adel. Durante la cena i suoi familiari non le avrebbero di certo guardato i piedi, bensì la faccia e il vestito. Lo spazzolò con la mano, cercando di rimuovere più polvere possibile. Alla prossima scalata non avrebbe indossato un vestito così scuro.

S'incamminò, accertandosi di aver chiuso per bene la porta della stanza. Il corridoio che stava attraversando era affiancato da numerose colonne di pietra verde e ambra arancione. Nello spazio tra ogni pilastro era appesa una lampada di un colore diverso. Nel cuore della Villa le pareti non erano bianche come le mura all'esterno, ma di un colore più caldo, molto più accogliente. Maed giunse all'incrocio con un altro corridoio e svoltò.

Si ritrovò di fronte Adelin. Sua sorella balzò, afferrandosi il cuore con la mano. Maed arretrò di scatto. Sospirò. Per fortuna si trattava di lei.

«Quanto ci hai messo?» chiese Adel, col fiatone.

Maed si guardò attorno. Le uniche presenze nei dintorni erano le fiamme danzanti nelle lampade. «Sono tornata nella mia camera.»

Adel le afferrò un braccio e la trascinò a sé. «E per quale motivo?» Attese una risposta, le dita serrate sull'avambraccio della sorella. Aveva sostituito il vestito azzurro con un altro verde e bianco, così lungo che strisciava per terra. Sul petto e sulle clavicole era più trasparente. Lì sotto, dominava una collana dorata con alcune gemme bianche. Si era cambiata per il grande momento?

Adel la fissò per qualche altro secondo, con gli occhi spalancati. Le iridi del colore del ghiaccio. Maed poche volte aveva visto sua sorella così agitata e aperta nei suoi confronti. Anzi, una sola volta: quel giorno in cui erano diventare sorelle.

«Sono tornata indietro perché avevo dimenticato questa.» Maed tirò fuori dal vestito una collanina argentata con un pendolo a forma di stella.

«Solo per quello?»

«La metto sempre quando ho bisogno di fortuna.»

Adel la fulminò con lo sguardo. Fece per aprire bocca, ma probabilmente preferì non perdere altro tempo, e quindi non disse altro. S'incamminò a lunghi passi, trascinandola con sé nella direzione da cui era venuta.

Non sapeva che Maed, in realtà, quella collana non la toglieva mai, nemmeno quando dormiva e quando si tuffava nel mare. La teneva sempre nascosta sotto al vestito. Di certo non avrebbe mai ammesso di aver perso il suo tempo ad origliare la lite tra due nobili, tantomeno di essersi fermata a discutere con Tadon e poi di averlo preso a pugni. Non avrebbe mai nemmeno rivelato per quale vero motivo era ritornata nella sua stanza, ripercorrendo al contrario tutta la strada. Era stata una scelta difficile, ma si era convinta di aver fatto la cosa giusta. Il Cavalluccio diceva sempre di pensare a tutte le conseguenze. Sempre. Pensare.

In poco tempo entrambe raggiunsero un'altra svolta. Prima che potessero sbucare in un posto più affollato, dove un servitore o qualcun altro della famiglia avrebbe potuto notarli, Maed piantò i piedi a terra, e attese che sua sorella si fermasse.

«Dài!» bisbigliò Adel

«Puliscimi la faccia.»

«Cosa?» sbottò.

Maed rimase impassibile. Adel sbuffò, poi estrasse da una tasca del vestito un fazzoletto, e lo passò sul volto di Maed. Quando finì, la stoffa da bianca era diventata grigia.

«Ora,» disse Adel, mentre passava l'altro lato del fazzoletto sulle braccia di Maed «tu entri nella sala e ti siedi, senza dire nulla.»

«Tu non vieni?» ribatté lei, allungando il collo per farselo asciugare.

«Arriverò qualche minuto dopo, così il tuo ritardo risalterà di meno» rispose, abbassando lo sguardo. Osservò il lurido pezzo di stoffa tra le sue mani, arricciando il naso. Cercò la tasca del suo vestito, infine si voltò. Adocchiò una colonna ambrata a fianco dello spigolo del muro e si avvicinò ad essa. Strofinò il fazzoletto contro il pilastro, poi sollevò di scatto il braccio e spalancò la mano. Il pezzo di stoffa schizzò verso l'alto, incagliandosi nell'angolo tra il soffitto e la parete.

Maed fissò sua sorella, che ammirava la sua opera col collo piegato. Poi pulì le dita sul muro, e solo alla fine guardò verso di lei.

«Non hai usato il fuoco» disse Maed.

«Nemmeno quando ho sollevato le pietre, se è per questo.»

Maed sapeva che avrebbe dovuto solo aspettare per sapere altro. «Per quanto tempo resterà attaccato là sopra?» chiese.

«Non lo so.» Adel sollevò lo sguardo un'ultima volta. Il fazzoletto vibrava. «L'importante è che io non ho gettato niente per terra.»

Dal nulla, senza preavviso, un leggero odore di magia permeò il corridoio. Giungeva sempre così, immobile, senza smuovere l'aria. Maed aveva cercato di associarlo a qualcos'altro, a qualche altro odore fastidioso. Assomigliava tanto al puzzo dell'aglio, ma era molto più penetrante.

Maed voleva domandare a sua sorella per quale motivo — solamente quella sera — l'aveva aiutata così tante volte. Ma lei non avrebbe risposto in ogni caso. Quindi rimase in silenzio.

«Dài, muoviti.» Adel fece segno con entrambe le mani di andarsene. «Vai.»

Maed si mosse di lato, diretta alla sua sinistra. Cercò lo sguardo di sua sorella, che la invitò ancora a girarsi. Infine si voltò, e non ci fu più nulla da guardare.

Maed aveva ancora sudore da vendere. Le sue dita erano scivolose, continuava a strofinarsele contro i palmi, le braccia tese verso il basso. Era un ottimo modo per scaricare la tensione. Imboccò un ultimo corridoio. Era costeggiato da altre numerose colonne di resina solidificata. Il pavimento era decorato. Una serie di mosaici di pietra traslucida — gialla, arancione, blu e verde — componevano una striscia ondulata di immagini che si contorceva come un serpente. Raccontava un breve episodio storico, e s'ingrossava, a mano a mano che ci si avvicinava al finale. L'ultima scena avvolgeva tutto il corridoio: il pavimento, fino al soffitto — pareti comprese — era un'unica immagine fatta di lucida ambra. Ma Maed non stava pensando alla storia narrata ai suoi piedi. Piuttosto, cercava la sua musica. Cercava il suo conforto, voleva distrarsi un momento, prima di varcare l'entrata della sala. Ma il corridoio giaceva nel silenzio.

Le scarpe di corda di Maed non emettevano alcun rumore sulla resina solida ai suoi piedi. Di solito essa, percossa dai tacchi, risuonava e vibrava in profondità, come un tamburo, modulando flebili suoni di varia frequenza. Se sapevi percorrere il corridoio alla giusta velocità, appoggiando i piedi nei punti esatti, la striscia di pietra decorata suonava una melodia per te. Quella volta nulla. Tutto, perfino l'intera Villa, quella sera sembrava essere in ascolto, e in attesa.

Maed udì un chiacchiericcio sommesso, provenire da dietro le porte. Le ante erano socchiuse. Le voci si accavallano, rimbombando, inghiottite immediatamente dalla pietra. Arrivata di fronte alle porte massicce di metallo bianco, Maed si fermò ad ascoltare.

«... entro un paio di minuti, la confinerò nella sua camera.» Era la voce di sua madre Yanesin. Maed avvicinò l'orecchio per sentire meglio.

Silenzio.

«Tanesin?» Ancora sua madre. «Perché così silenziosa questa sera? Non sei d'accordo forse? Tua sorella ha raggiunto e superato ogni limite.»

Maed si accorse che le enormi ante si stavano spalancando solo quando percepì il gelido metallo sulla guancia. Presto l'imposta premette contro il suo corpo, costringendola a indietreggiare. Si scostò in fretta, prima di finire schiacciata tra il muro e il portone.

Ci fu un tonfo, e lei fu visibile agli occhi di sua sorella Tan, sua madre e suo padre. Erano tutti e tre seduti al solito posto, al tavolo rettangolare al centro dell'enorme sala. Il lampadario di cristallo incombeva sulle loro teste, rendendoli minuscoli e impotenti.

Eppure il cuore di Maed sembrava non essere d'accordo con l'apparenza.

«Eccola qui, madre» disse Tanesin, con un tono di voce troppo alto. «Sempre più tardi, ma alla fine arriva sempre. Di cosa ti preoccupi?»

Yanesin, la donna seduta a capotavola, spostò un lembo del suo vestito nero, sistemando la postura già perfetta. «Vieni cara, vieni.»

Maed avanzò. Si diresse al solito posto, accanto a suo padre. Egli le rivolgeva le spalle, chino di fronte a sé. Non si girò, e non disse nulla, come sempre. Maed decise di sostenere lo sguardo di sua sorella Tanesin, seduta all'altro capo rispetto alla madre. Aveva la guancia appoggiata sul pugno, il gomito impuntato sul tavolo. Non appena capì che Maed la stava sfidando a una sorta di gioco, si mise composta, e trascinò la sedia in avanti, facendo aderire le spalle allo schienale.

«Per caso hai visto Adelin?» chiese sua madre, mentre lei scostava la sedia e prendeva posto.

Maed scosse la testa.

«Bene. Aspettiamo» disse rigida Yanesin.

Maed cercò di tenere lo sguardo sulle lampade al centro del tavolo. Fissare sua sorella per troppo tempo le avrebbe di certo provocato una risata. C'erano tre lampade, quella sera: una verde, una azzurra e l'altra nera. Le fiamme di quest'ultima danzavano lente e sinuose, inghiottendo la luce. Rivolse i pensieri alla domanda che avrebbe dovuto formulare di lì a poco. Perché sì, anche se la situazione quella volta sembrava la più propizia, i suoi genitori non le avrebbero regalato un bel nulla. Sua madre, non le avrebbe regalato un bel nulla.

«Dove sei stata oggi?»

Maed si girò d'istinto verso di lei. «Ho fatto un giro con Danya e Wend» rispose. «C'era anche Torm.»

«Non ricordo, di chi è figlio Torm?»

«Famiglia Rencan» disse con voce flebile Farnel, il padre di Maed.

Lei si voltò per osservarlo. Fissava intensamente il piatto vuoto sotto di lui. Non batté ciglio.

«Ah, ricordo» continuò Yanesin. «Non hanno forse l'addestramento, loro? Oggi è Saluto.»

Maed serrò i pugni sotto al tavolo. «Wend ancora non ha sedici anni. Torm e Danya invece non sono andati.»

«Non pensavo che la famiglia Rencan permettesse ai loro figli di trasgredire così facilmente. Torm deve essere un ragazzo abile. Più abile di te.»

Maed annuì. Forse ci era cascata.

Sua madre si allungò verso di lei, sfiorandole i capelli con la mano. Le solleticò la nuca con le dita, e afferrò qualcosa. Spostò la mano davanti ai suoi occhi, facendo penzolare qualcosa di scuro e sottile.

«E non mi risultava che tra le ville ci fossero queste schifezze.» Sua madre sventolò un frammento di alga davanti ai suoi occhi. Lo lasciò cadere nel suo piatto. «Cosa diamine ci fac—»

«Adelin!» chiamò Farnel, voltandosi di scatto. Si girò pure Maed, grata dell'interruzione. Adel era in piedi accanto alla porta. Dopo averla socchiusa, si avviò verso il tavolo. Passò dietro a Tanesin, ancora con lo sguardo fisso su Maed, e infine si sedette di fronte al padre, dopo aver spostato il suo lungo vestito.

«Scusate il ritardo. Ho avuto una discussione col maestro Gantion.»

Yanesin, ancora protesa verso Maed, si ritrasse e si rilassò sullo schienale. Sventolò la mano in alto, e un dolce tintinnio riempì la sala. L'imponente lampadario sopra le loro teste vibrò, mandando qualche lieve bagliore sulle pareti. Il cristallo di cui era composto sembrava curvare la luce in tanti modi diversi. Maed era convinta da un bel po' che fosse simile al Girateste che aveva rubato alla combriccola degli scienziati qualche mese prima.

Una porticina alle spalle di Yanesin si spalancò. Dietro di essa sfilarono tre camerieri che sorreggevano sulle braccia diversi piatti. Non indossavano le vesti blu e viola che portavano i nobili quando si esponevano alla folla. Quelle erano per le persone più importanti. I due inseguitori di Maed, quel pomeriggio, ne erano stati un esempio. I nobili servitori, invece, vestivano di un colore tendente all'avorio. Persino loro sapevano usare la magia. E Maed ancora no.

Disposero alcune pietanze sul tavolo, attorno alle lampade. Maed non prestò attenzione, troppo impegnata a cercare il contatto visivo con sua sorella Adel. Come avrebbe dovuto approcciare la questione dell'addestramento? Odori caldi e vapori giunsero dal basso. Niente pesce, quella volta. E quando non c'era il pesce, di solito, si trattava di un'occasione speciale. Maed, però, non aveva tanta fame.

I camerieri lasciarono la sala. Ci fu silenzio. L'aria era pregna della caratteristica commistione tra odore di magia e odore di cibo. Rivoltante. Maed, come sempre, sarebbe passata dalle cucine, di notte, per riempire il suo stomaco. Avrebbe dovuto resistere qualche altra ora. Quella volta più che mai.

Adelin si allungò sulla lampada azzurra davanti al suo piatto. La scoperchiò e infilò le dita nel fuoco. Chiuse gli occhi e inspirò.

Sotto il tavolo ci fu un trambusto. Adel sobbalzò sulla sedia, emettendo un gridolino. Sulle sue dita danzarono fiamme sottili. Tanesin la stava fulminando con lo sguardo.

«Tanesin, è tutto sotto controllo» disse Yanesin. «Ha avuto il mio permesso.»

«Maedlin non può vedere queste cose, mamma» disse Tanesin a denti stretti. Lanciò uno sguardo furtivo a Maed.

«Silenzio, dobbiamo parlare di una cosa molto importante. Lascia esercitare tua sorella. E stai zitta.»

Maed non sapeva chi guardare. Tanesin afferrava il tavolo con le mani, sporgendosi in avanti, i suoi capelli che rischiavano di finire dentro al piatto. Adelin fissava una forchetta, facendola tremare. Suo padre, nel frattempo, si era avventato sul piatto, senza prestare particolare attenzione a nessuno.

«Maedlin.» Sua madre le sfiorò il braccio, attirando di nuovo la sua attenzione. «Dimmi cosa ci facevi giù al porto.»

Maed la guardò. Se doveva esserci qualche parvenza di comprensione o affetto nel volto di una madre, quello non era di sicuro il caso. Stette in silenzio. Si girò verso Adel. Ma lei era impegnata a far levitare la forchetta, governandola con una mano. Con l'altra afferrava un cucchiaio colmo di riso giallo.

«Devi guardarmi.» Le afferrò il mento, per farla girare. «Non è vero che ti trovavi tra le ville, questo pomeriggio.»

Maed prese le dita di sua madre e le spostò. «Sì, ero ad Asdenar.» Sentì Tanesin mugugnare qualcosa alla sua sinistra.

«E per quale motivo?» Sua madre continuava a bruciarla con lo sguardo.

«Non ho niente da fare qua sopra. Mi annoio.» Yanesin guardò per un attimo la sua figlia più grande, all'altro capo del tavolo. Maed approfittò della breve tregua per cercare gli occhi di Adel. Ora la forchetta fluttuava sopra i suoi capelli. Un coltello sussultava poco più in basso, rimbalzando sul tavolo.

Guardami, cazzo.

«Non è nemmeno vero che ti trovavi con quei tuoi amici. Tu non ne hai amici.» Sua madre le afferrò ancora il braccio per farla girare. Strinse con prepotenza.

Maed fece per rispondere, ma lei l'anticipò. Sentì le unghie di sua madre premere sulla pelle. «Adelin mi ha assicurato di aver visto quei tre ragazzi nel giardino di un'altra villa, oggi. Non erano con te. Perché vai giù in città? Diccelo.»

Maed si voltò di scatto verso Adelin. No. Lei le aveva promesso che non avrebbe detto nulla. Le aveva pure curato la caviglia. Prima l'aveva vista nel corridoio, e l'aveva aiutata. Tanesin, al suo fianco, era ancora protesa in avanti. Un sorriso beffardo si stava facendo strada sulla sua bocca. Sembrava aspettare qualcosa.

«Guardami in faccia e dimmi veramente perché ti spingi così in basso durante il giorno.»

Maed non ascoltò sua madre. Fissò sua sorella Adel. L'aveva ingannata. Il suo viso stava virando al rosso. Abbassò per un attimo lo sguardo, ma non lo incrociò mai con quello della sorella più piccola. Cercò un'altra posata da sollevare. Adocchiò il cucchiaio di Tanesin, e lo fece strisciare sulla tovaglia. Andò a sbattere contro un piatto, incagliandosi sotto il bordo.

Yanesin tirò la manica di Maed. Lei continuò a ignorarla, attendendo il momento in cui Adel avrebbe finalmente incrociato gli occhi con i suoi.

Guardami in faccia. Non ce la fai a sollevare quel cucchiaio, il senso di colpa ti assale. Guardami.

Il sorriso di Tanesin era sempre più largo. Si protese ancora di più in avanti, allungando un braccio verso la lampada nera al centro del tavolo. Farnel sollevò la testa, ancora in silenzio. Non appena vide quello che stava per fare la sua figlia più grande, si rituffò sul piatto.

Ma Maed era più vicina di Tanesin. Afferrò la lampada nera prima di lei e la trascinò a sé.

«Maed!» urlò sua madre.

La forchetta e il coltello che stavano fluttuando nell'aria crollarono a terra in un tintinnio scomposto. Adel fissò Maed negli occhi.

Ecco. Finalmente.

Maed abbracciò la lampada. Cosa girava per la sua testa? Si era pentita? Perché l'aveva ingannata?

«Posa quella lampada, Maed.» Yanesin allungò un braccio verso sua figlia.

«Adelin mi ha fatto vedere come si usa il fuoco per fare la magia» disse, scacciando la mano di sua madre, mentre continuava a guardare sua sorella.

Sua madre si ritrasse. Persino Farnel, smise di mangiare, prestando finalmente attenzione alla discussione. Tanesin era ancora slanciata sul tavolo. Il suo sorriso era scomparso.

«Mi ha fatto vedere come curare una caviglia usando le fiamme di colore viola» continuò Maed. Teneva lo sguardo fisso su Adelin. Lei ricambiava. I suoi lineamenti erano contratti. I suoi occhi spalancati sembravano dire qualcosa. Sembrava che lo stessero urlando. «Mi ha pure detto che domani avrei incominciato l'addestramento. È vero, mamma?»

«Non è vero.» Fu Tanesin a parlare.

Maed la fulminò. «Ho chiesto a mamma. Non sei tu a decidere in questa casa.» Si girò verso sua madre. La lampada era calda tra le sue braccia. «Allora? Non credi alle parole della tua amata Adelin, adesso?»

Yanesin era in chiara difficoltà. Lanciò occhiate di fronte a sé, a Adel, a Tanesin. Persino a suo marito. Infine guardò di nuovo Adelin. Lei stava squadrando ancora Maed.

«Mamma.» Tanesin spinse la sedia indietro, con un frastuono. Si alzò in piedi. Con ampi passi girò dietro a Farnel e si posizionò dietro a Maed. I suoi tacchi risuonarono sul pavimento. Lei non si voltò, continuò a godersi l'indecisione di sua madre.

«Tanesin, ferma. Non s—»

Tanesin non permise a sua madre di finire la frase. Si fiondò sopra sua sorella, agguantando la lampada che stava stringendo. Tan le tirò una gomitata, e Maed si piegò in avanti, sputando sul riso un fiotto di saliva. Poi sentì un braccio agguantarle il collo. Attorno a lei sua madre o sua sorella strillarono. Ci fu un trambusto di sedie.

«Tu... non puoi...» farfugliò Tanesin. «Chi parla con gli scienziati... non può conoscere la magia. Può solo morire...»

Maed stava soffocando. Si ritrovò schiacciata tra lo schienale e lo spigolo del tavolo. Sua sorella aveva spinto la sedia in avanti. Sentiva che stava per perdere la presa sulla lampada, Tanesin gliela stava strappando. Con una mano Maed afferrò il braccio con cui la stava strangolando. Lo graffiò, come aveva fatto con la gamba di Tadon.

Tanesin urlò e mollò la presa. Maed strinse ancora più forte la lampada. Si guardò attorno. Intravide sua madre, china a terra. Il suo volto era puro terrore. Non vide Adelin, invece. Poco importava. Avrebbe fatto da sola, da quel momento.

Schiantò la lampada sul tavolo, infrangendola in mille pezzi.

Fiamme nere si sprigionarono verso l'alto. Crebbero a dismisura, inghiottendo la tovaglia, divorando l'aria sovrastante.

La puzza di magia entrò a forza nel cervello di Maed. Si tirò indietro. Il fuoco catturò il suo sguardo, la ipnotizzò. Danzava, qualche lingua ogni tanto schioccava verso l'alto, come una frusta, ma silenziosa.

L'aria divenne calda. Tremolava. Tutto era indistinto. Attorno a Maed non esisteva più nulla. C'era lei, la sedia su cui era seduta, l'odore di magia, e il fuoco maestoso, simile a un'ombra infuriata.

Quella quiete surreale perse il suo equilibrio.

Una figura si mosse a lato di Maed. Era sua sorella Tanesin. Si protese sulla tavola imbandita, oramai celata tra le fiamme.

Come sempre, il dubbio pervase la mente di Maed nel momento meno opportuno.

Cos'era veramente il fuoco? Anche lui vinceva la gravità.

Nel frattempo, sua sorella Tanesin lanciò una mano tra le fiamme. Le sue dita fuoriuscirono illese. Erano cinque candele, le sommità che bruciavano nere come il tavolo. Si voltò. Era indistinta, confusa tra le nebbie che si stavano formando nella testa di Maed. La guardò, le fiamme che si contorcevano sulla sua mano. E chiuse il pugno. Stava ridendo?

Maed si sentì soffocare.

Il fuoco nella mano di Tanesin avvampò, mentre Maed perdeva fiato. Un peso immane la spinse verso il basso. Si sentì scivolare sulla sedia. Qualcuno — qualcosa — la stava tirando a terra. La collana che spesso si dimenticava di indossare, era diventata improvvisamente pesante come un macigno.

Maed singhiozzò. Sentiva il collo esplodere. Afferrò con le mani la collanina, cercando di sollevarla. Ma era impossibile. Tanesin spingeva il pungo verso il basso, ancora avvolto dalle fiamme nere. Gli anelli di metallo della catena scavarono nella pelle.

Perché Maed non era come il vento? Come i carri dei nobili? Come il fuoco, o come Tadon? Avrebbe voluto volare e vincere quel peso formidabile.

L'aria bruciò nella sua gola.

Si arrese. Era impossibile spostare la collana, improvvisamente dieci volte più pesante del suo corpo. Eppure le mani le poteva muovere, erano libere.

No, non poteva essere come il fuoco. Ma poteva crearlo.

Combattendo per spingere gli ultimi fiati giù per la gola, cercò con le dita nella tasca del suo vestito. Sua sorella era troppo impegnata nella sua magia che non si accorse di nulla.

Era ancora lì, il Fiammerino, nella tasca del vestito. Aveva fatto bene a tornare indietro nella sua camera e recuperarlo. Lo aprì, e fece scattare la rotellina.

La fiamma, che sarebbe dovuta essere piccola e incerta, quella volta fu violenta come una folata di vento. Una colonna di fuoco rosso si allungò di fronte a lei, scacciando via le fiamme nere. Il tavolo prese a fiammeggiare di rosso, e crollò, schiantandosi su una gamba rotta.

Tanesin si lanciò di lato, strillando. E la collana tornò a pesare qualche grammo.

Maed spinse la sedia nel fuoco, alimentando il rogo che aveva generato. Si voltò di scatto, cercando con gli occhi tra il fumo denso e pesante. Erano fuggiti tutti. Adelin. Suo padre. Sua madre. Ma Tanesin era ancora lì dentro, dietro di lei.

Maed fuggì.

Varcò le pesanti porte di metallo. Il corridoio d'ambra era sgombro dinnanzi a lei. Le immagini sul pavimento si spiegavano sotto ai suoi occhi, lucenti, illuminate dal bagliore lontano delle fiamme.

Una fitta lancinante partì dalla sua caviglia. Fu ancora più dolorosa delle altre, perché era stata inaspettata. Si era dimenticata di quel dolore. Anche su quello Adel l'aveva ingannata? La cura era stata una messa in scena?

Si voltò, e vide sua sorella Tanesin appoggiata allo stipite del portone della sala. Il suo braccio destro era interamente avvolto da fiamme nere. Un lembo del suo vestito sfrigolava di rosso.

Maed avanzò, diretta alla stanza in cui aveva nascosto tutto le sue cose. Sì, aveva fatto davvero bene a tornare indietro. Dopo aver visto Tadon volare via nel vento, non si era diretta alla sala. Era tornata sui suoi passi. Tanesin li aveva visti. E il vecchio Cavalluccio le aveva sempre detto di pensare alle conseguenze.

Una melodia agghiacciante uccise il surreale silenzio che si era venuto a creare. Note distorte, allungate, gutturali e profonde si fusero in una disordinata cacofonia, mettendosi all'inseguimento di Maed. Lei voltò un attimo il capo, mentre arrancava in avanti, e vide sua sorella Tanesin percorrere la striscia colorata, percuotendola con i tacchi. Ma era tutto errato. Calpestava le immagini sbagliate, e andava troppo veloce. Il risultato della sua corsa fu un incubo di suoni.

Maed pensò a guardare in avanti. Sua sorella era più veloce di lei, aveva le gambe più lunghe, e non le doleva la caviglia. Qualche altro passo e l'avrebbe raggiunta. Doveva resistere, la stanza si trovava a pochi...

I piedi di Maed non toccarono più terra.

E l'aria smise di passare dalla sua gola. Si afferrò ancora la collana, appiccicata alla pelle, che cercava di entrarle a forza nella carne, quella volta spingendo dal basso. Voltò il capo, e vide Tanesin appoggiata ad un muro, il braccio ancora avvolto da fiamme nere, il suo vestito ridotto a brandelli, dal fuoco rosso.

Maed doveva resistere. Sentiva che a breve avrebbe smesso di vivere. Probabilmente sarebbe svenuta, appesa come un impiccato nel vuoto, strangolata dalla sua stessa collana, il suo portafortuna. Ma il fuoco rosso sul vestito di Tanesin cresceva, mangiandosi la seta che indossava. Danzava sinuoso verso l'alto, lambendole la pelle scoperta. Perché non si bruciava? Non urlava dal dolore, non...

Maed crollò di nuovo a terra. Non ebbe il tempo di voltarsi, non osò nemmeno allungare le braccia sotto di sé, e impattò il pavimento col fianco. Le sue ossa vibrarono. Lei urlò. Si prese il ginocchio, vide del sangue attorno a lei. Poi scorse Tanesin, oramai invisibile, inghiottita del tutto dalle fiamme rosse.

Strillò, agitando le braccia, strappandosi di dosso quel poco che rimaneva a coprirla. Infine si accasciò a terra.

Maed doveva rialzarsi. Strisciò contro il muro, tenendo d'occhio sua sorella. Agguantò la parete, e si tirò in piedi.

La strada fu lunga fino alla stanza. Ormai il dolore alla caviglia era un nulla, rispetto a tutto il resto. Nessuno la stava seguendo. L'aria attorno a lei puzzava di capelli bruciati. Sentì una goccia di sangue scorrerle giù per la coscia. Il suo fianco bruciava ad ogni passo.

Trovò la porta ancora chiusa. Maed non si curò nemmeno di raccogliere una lampada dal muro, e si abbandonò contro l'anta, che si aprì sotto il suo peso. Le finestre erano già aperte: aveva provvisto davvero a tutto. Una luce debole rischiarava l'interno, la sacca con tutte le sue cose non fu difficile da trovare. La raccolse e se la legò sulle spalle. Testò la resistenza dei nodi. La sacca era salda sulla sua schiena. Ora, avrebbe dovuto solamente volare.

Diede uno strattone alle tende e le strappò. Se la scienza aveva funzionato con Tadon, perché non avrebbe dovuto farlo anche con lei? Indossò la pesante stoffa come un mantello, infine si chinò e ne annodò gli angoli inferiori alle sue caviglie. Era pronta.

Salì sul davanzale. Il vento gonfiò la tenda, e lei dovette afferrare lo spigolo del muro per non cadere all'indietro. Prese un respiro. Poi si tuffò.

Mentre l'aria scura infuriava attorno a lei, Maed cercò con lo sguardo il Faro. Sarebbe stato il suo riferimento, per tutta la durata del viaggio.

Cosa?

Il Faro era lì, che illuminava l'oscurità, sopperendo alla mancanza dei pianeti, come ogni sera. Ma il fuoco sulla sua sommità non era blu. Quella notte era rosso e arancione.

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