77 - 𝑆𝒉𝑒'𝑠 𝑛𝑜𝑡 𝑎𝑓𝑟𝑎𝑖𝑑
{Una scena attesa}
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"Rose, vieni un attimo?"
"Mmh?"
"Potresti sputare il dentifricio invece di borbottare una come una vecchia senza dentiera?"
Roteai gli occhi e mi sciacquai la bocca, per poi chiudere il getto del lavandino. "Arrivo," ripetei. "Ho dormito a malapena due ore, potresti anche—"
Non feci in tempo ad arrivare nel dormitorio che mi ritrovai immersa in una scena surreale. Mi sfregai bene gli occhi per assicurarmi che non fosse stata la nottata a fare festa a provocarmi le allucinazioni. Davanti a me, l'intera stanza si era trasformata in una serra.
Fin qui, in realtà, niente di nuovo. Già da quando eravamo tornate, distrutte dalla stanchezza e con la ridarella facile, dal Giardino Botanico, alle sei del mattino, avevamo trovato mazzi di fiori letteralmente ovunque. Principalmente rose - quello più grande era stato dei miei genitori, seguito da quello di James e poi da zio Harry e zia Ginny, accompagnati tutti da lettere che mi avevano fatta finire in una valle di lacrime. Poi c'erano i tulipani dei nonni, i fiori di campo raccolti direttamente da Villa Conchiglia per mano di zia Fleur e zio Bill, addirittura delle meravigliose e intatte orchidee a nome di Draco.
Quello che invece mi ritrovai davanti quella mattina, fu Ben.
Ben era un ragazzino del secondo anno che era entrato nelle nostre vite quando mi aveva chiesto, disperato, un aiuto per studiare i Troll. Si era praticamente innamorato di Malfoy, per qualche motivo a me non troppo oscuro, e adesso aveva preso a seguirlo ovunque; ma quello che davvero mi aveva sorpresa era come il biondo ricambiasse questo affetto così smisurato, perché l'aveva preso sotto la propria ala, aiutandolo nello studio e persino con il Quidditch, la vera passione del ragazzino. Una volta l'avevo pure beccato a dargli dei consigli su come conquistare una ragazza.
"Consegna per Rose Weasley," dichiarò, assumendo un tono eccessivamente formale ma calato nella parte di postino, e divertito da questa missione.
Comunque, dire che me lo ritrovai davanti fu forse esagerato, perché gracile com'era, l'unica parte di lui che riuscivo a vedere era la massa folta e disastrosa dei suoi capelli ricci - tutto il resto era coperto da un mazzo di fiori alto all'incirca come lui. Addirittura sembrava tremare sotto il suo peso, avendo difficoltà a reggerlo.
Fu Isabelle a precipitarsi ad aiutarlo, perché io mi ero immobilizzata. Non era niente di che - avevo ricevuto un milione di fiori, qualche decina in più non faceva la differenza - ma era il tipo di pianta ad avermi fatta impietrire.
Girasoli.
Girasoli dai petali colore dell'oro liquido, dal cuore di un ricco marrone, che profumavano ancora di terra, di luce, di aria. Li fissai con tanto d'occhi, senza distogliere lo sguardo nemmeno quando Izzy li prese tra le braccia, sollevando Ben dal suo incarico gravoso.
Girasoli!
"Li manda lui," mormorai, stupefatta, sentendo il loro aroma naturale invadermi i polmoni, e svegliandomi del tutto dalle ultime tracce di sonno. La mia non fu una domanda, né ci fu bisogno, peraltro, di chiedere a chi mi stessi riferendo.
"Lascia stare, mi ha fatto svegliare all'alba per accompagnarlo a raccoglierli," replicò Ben, massaggiandosi la spalla con una brutta smorfia. "Non è andato a dormire per farlo. Lui e il suo amico, Noah, credo, si sono spezzati la schiena per prenderli."
"Non hanno usato la magia?" domandò Izzy, con le mani raccolte al petto e gli occhi a forma di cuore.
"È quello che ho chiesto anch'io," si rallegrò Ben, felice del fatto che Izzy avesse avuto la sua stessa idea. "Però il professor Longbottom ha detto che sono specie molto delicate, e che per farle restare integre per tanti giorni bisogna prenderne le radici e poi farci qualcosa che non ho capito... Scorpius non è stato molto chiaro."
"Devo—devo andare," fu tutto ciò che riuscii a dire, prima di afferrare il mantello - per fortuna ero già vestita - e letteralmente scapicollarmi giù dalle scale.
Dove avrei potuto trovarlo? Oh, ma che importava? L'avrei cercato per ogni metro quadrato dell'intero Castello se ciò avesse significato poterlo vedere, e ringraziarlo.
Certo, la sorte come al solito non fu dalla mia parte. Con l'eccitazione ad offuscarmi la mia già minata lucidità mentale, la mia distrazione proverbiale mi portò a sbattere contro la schiena di Julian, che stava parlando in Sala Comune con Troy.
"Hey, rallenta, rallenta," rise, prendendomi per le spalle. "Dove stai andando così di fretta?"
Dal mio ex fidanzato, che mi ha appena regalato un'intera serra?
Grande risposta, Rose.
"Da nessuna parte," borbottai, mordendomi la lingua.
Julian si aprì in un sorriso entusiasta che alleviò un poco la mia delusione. "Bene," esclamò allegramente, "perché ho il tuo regalo di compleanno."
Mi dimenticai all'istante dell'urgenza che mi aveva animata fino ad un attimo prima. "Oh, no, Jules non dovevi, davvero," balbettai, a disagio. Non avrei mai voluto che spendesse soldi per me.
Mi guardai attorno: anche Troy si era defilato, e stava discutendo in maniera animata con Noah, che conoscendolo l'aveva provocato in qualche modo fastidioso come solo i Serpeverde sapevano fare. Livia li stava ascoltando con una ruga tra le sopracciglia e le braccia al petto. Poco più in là, sparsi attorno ai tavoli e ai divani, chiacchieravano e studiavano i ragazzi più piccoli.
"Ma certo che dovevo," replicò lui. "La mia fidanzata ha fatto diciotto anni, è un evento da celebrare. Vieni," senza che potessi rifiutare mi prese per mano, guidandomi attraverso una larga scala a chiocciola fino nel suo dormitorio. Non ero abituata ai colori rosso e oro del dormitorio maschile, perché l'unico in cui avevo passato il tempo era stato quello della Casa di Salazar, ma alla fine non differiva troppo dal mio.
Il letto di Julian e quello di Simon erano gli unici rifatti - potei identificarli dalla quantità di libri di Antiche Rune, passione dell'occhialuto studioso, e da quelli sulle tattiche del Quidditch, come Il Quidditch attraverso i secoli, che appartenevano al mio compagno di squadra, l'unico giocatore del loro gruppetto. Mi fece strano vedere quanto fosse ordinato, perché per quanto lui e Malfoy fossero agli antipodi, condividevano quella caratteristica.
Prese un pacchetto infiocchettato dal primo cassetto del comodino, e me lo porse con un sorriso. "Tanti auguri, anche se in ritardo."
Mio malgrado dovetti ammettere che provavo un certo grado di curiosità, come era nelle mie corde. Che cosa poteva mai avermi regalato?
Quando tirai fuori un Magiorologio da polso dovetti far ricorso a tutte le mie doti recitative per non assumere un'aria delusa. E, attenzione, non tanto perché fosse il regalo in sé a non piacermi, ma perché non sarei mai riuscita ad apprezzarlo pienamente, avendone altri due a casa.
Il Magiorologio da polso era composto esattamente come un comune orologio da polso Babbano, con la differenza che, al posto dei numeri, aveva vari simboli runici. Questo perché non indicava l'ora della giornata, ma attingeva dalla memoria di chi lo portava per dargli indicazioni come "Sei in Ritardo", "È l'ora del té", "Tempo Libero", "È ora di lavarsi" e via dicendo. Queste indicazioni si trovavano su tutti i modelli, ma quelli più avanzati sfruttavano i significati secondari delle rune con altre lancette che potevano funzionare, per esempio, per descrivere lo stato fisico di una persona, come "Malaticcio", "Ritratto della Salute", "Febbrone da Cavallo", "Piede nella Fossa", oppure per descrivere situazioni psicologiche come "Innamorato", "Scontroso", "Svogliato", "Iperattivo".
Il vero disastro era che quel manufatto era un regalo comune che si faceva ai maghi che diventavano maggiorenni, anche se ciò non toglieva che qualcuno possa averlo ricevuto ben prima. E avendo compiuto già diciassette anni, ne vantavo due esemplari riposti nel mio portagioie, al sicuro nella mia camera da letto a Londra.
"Avevo paura che ne avessi già uno," mi confidò, mentre io lo tiravo fuori dalla scatola senza sapere bene cosa fare. Be', che potevo fare? Solo fingere. "Per fortuna poi ne ho parlato con tuo fratello, e lui ha detto che lo avresti adorato."
Ah, ecco. Non poteva che c'entrarci quella peste mortifera, non se si trattava di fare scherzi di pessimo gusto.
Questo non mi sorprendeva affatto: Hugo era diventato molto affezionato a Malfoy. Certo, non si parlava di un amore spropositato e di venerazione assoluta come quella di Ben, ma più di vicinanza dal punto di vista intellettuale. Più volte li avevo visti parlare, ad esempio a casa mia durante le vacanze di Natale, ma negli ultimi mesi anche a scuola. Non erano conversazioni di chissà quale profondità, però proprio il fatto che si fermassero a vicenda nei corridoi per un saluto semplice, una battuta stupida, o per chiacchierare di Quidditch... be', Hugo non era un tipo espansivo, aveva più ripreso il carattere della mamma in questo, e perciò ben si comprendeva come fosse speciale il rapporto con il biondo.
Questo, sfortunatamente, lo portava di conseguenza dalla sua parte, e lui Julian, quasi a livello di Izzy, non poteva proprio vederlo.
"Oh," dissi, stampandomi un sorriso, "è vero, lo adoro. Grazie, Jules," mi allungai per dargli un bacio sulla guancia, ma lui intercettò il mio volto per portare le nostre bocche ad unirsi.
Devo solo abituarmi, mi dissi, costringendomi a portargli le braccia al collo. È solo questione di abitudine.
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Sabato primo aprile.
Il Platano Picchiatore, al nostro risveglio, si era fatto ritrovare con i primi germogli primaverili a inghirlandargli i rami. Un vento più tiepido aveva iniziato a scacciare il gelo dalle ossa. Il quarantaseiesimo compleanno di zio George, e di zio Fred. I M.A.G.O. - finalmente, avrei detto - cominciavano a mettere pressione agli studenti più indietro.
Aprile. Non mi piaceva come mese: non faceva né caldo né freddo, invogliava a dormire dalla mattina alla sera, si sentiva già il profumo dell'estate ma le giornate continuavano ad essere brevi, il Sole a tramontare presto, e i pomeriggi si riempivano di studio.
Certo, mi piaceva ancora di meno se vantavamo tutti soltanto due ore di sonno e impegni vari mi impedivano di trovare quel benedetto ragazzo.
Dove poteva essersi cacciato? Perché era così facile fermarlo un solo attimo, parlare del suo regalo?
"Io vado a dormire," annunciò Izzy, una volta terminato il pranzo. Incrociò le braccia sul tavolo, affondandovi il viso. "Vi giuro, non mi reggo in piedi."
"Ecco che succede a fare baldoria fino alle sei del mattino," ribatté Livia, forse l'ultima persona da cui mai mi sarei aspettata un commento del genere.
"Perché, tu a che ora sei andata a letto ieri?" chiesi io, portandomi la mano alla bocca per coprire uno sbadiglio.
Quella era l'atmosfera che permeava l'intera Sala Grande: nessuno sopra il terzo anno sembrava avere le forze per reggersi in piedi.
"Alle due, credo," rispose lei, sfogliando la Gazzetta del Profeta.
Kalea alzò entrambe le sopracciglia, reggendosi il mento con una mano e versandosi il caffè nel bicchiere con l'altra. "Strano."
"Non è strano," ribatté Livia, scostando i capelli biondi dal volto. "Ho il torneo, oggi. È la terza volta che ve lo ricordo."
Emisi un grugnito, cedendo anch'io alla stanchezza e imitando la posa di Izzy. "Siamo delle amiche orribili," borbottai.
Era da un anno e mezzo, da quando frequentava Hogwarts, che Livia lavorava a quel progetto. Nella sua vecchia scuola, Ilvermorny, negli Stati Uniti, ogni anno nel secondo trimestre si organizzava un torneo di scacchi magici famoso in tutto il Paese. Ciascun partecipante pagava una piccola somma, questione di pochi zellini, e la somma totale veniva messa in premio per il vincitore.
Dato che ad Hogwarts non era mai stato costruito nulla del genere, Livia, amante del gioco, ci si era messa d'impegno, ed era finita per tallonare la McGranitt nei corridoi per farle approvare la bozza del progetto. Se la Preside era stata così restia, era per un altro motivo: lei non si era limitata ad una gara interna alla scuola, ma aveva sfruttato le posizioni politiche dei suoi genitori, ambasciatori statunitensi in Inghilterra, per formulare un torneo internazionale. Il vincitore di ogni scuola si sarebbe sfidato con un altro alla fine di maggio, poco prima dell'inizio degli esami, e avrebbe vinto il titolo di Giovane Campione.
Un'iniziativa bellissima, che aveva riscosso davvero tanto successo a scuola - peccato che, come la McGranitt mi aveva annunciato, servivano dei supervisori, ovvero un insegnante, e i due Capiscuola.
Avrei dovuto rinunciare al mio riposo pomeridiano, ma almeno avrei avuto l'occasione di vedere Malfoy, finalmente.
"A che ora è?" chiese allora Kalea, con la tazza di caffè fumante sotto il naso. "Non voglio perdermelo."
"Alle cinque," rispose allora Livia, rivelando la sua emozione incontenibile. "Ma ci pensate? È la prima volta al mondo, in assoluto, che viene organizzato qualcosa del genere! E se funziona, se davvero si riesce a decretare il Campione, io avrò fatto qualcosa di buono per la pratica che amo sopra ogni altra cosa... non siete emozionate?"
Izzy fece un lamento. "Molto."
"Io sto tremando, calcola," le feci eco, sarcastica. Poi mi accorsi della sua espressione e mi misi a ridere. "Sto scherzando, Camp. Sono felice per te."
"Chi partecipa?" intervenne Lily, seduta poco più in là, interrompendo la conversazione con la sua miriade di amiche starnazzanti. "So che Hugo già crede di aver vinto."
Livia mise giù la Gazzetta. "Be', l'ho visto giocare, ed è molto bravo," ammise, "ma ci sono persone formidabili, quindi non so quanto gli convenga essere così sicuro. Ad esempio, Noah è eccellente, e anche una specie di ragazzina prodigio, si chiama Ava..."
"Non ha possibilità contro di me," dichiarò Hugo, con una cinquantina di patatine fritte in bocca e le parole perciò storpiate. "Io ho imparato dal migliore."
Mi accigliai. "Il migliore sarebbe papà?"
"Il migliore," concordò mio fratello.
"Buon giorno, stelle più luminose del firmamento del mio cuore," Noah sbucò fuori dal nulla avviluppando me e Kalea in un abbraccio da boa constrictor. "Come state, oggi?"
Mi venne da ridere, e mi feci più in là per creare un posto in mezzo a noi. Noah mi mise il braccio attorno alle spalle, e mi strizzò la guancia. "Allora, ti è piaciuto il frutto delle nostre conoscenze in Erbologia?" domandò, versandosi una tazza colma fino all'orlo di caffè. "Non ho chiuso occhio per raccogliere quei dannati fuori. Senza contare che quel decerebrato del tuo amico ha insistito per fare tutto senza magia per non creare il panico nella serra... ho la schiena a pezzi," si lamentò, e prese lo zucchero di canna versandosene due cucchiaini e mischiando il tutto.
"Tu sai dov'è?" replicai, abbassando la voce. La questione non era tanto farsi sentire da Julian, seduto poco più in là con i ragazzi, ma più cercare di evitare che il mancato tatto di Noah attirasse le attenzioni del resto del tavolo. Julian sapeva, in un modo o nell'altro, che tra me e Malfoy non c'era più niente, ma tutti gli altri studenti no.
Noah alzò lo sguardo dalla tazza e lo puntò al soffitto, picchiettandosi le lunghe dita sul mento. "Oh, non saprei—oggi è sabato, giusto? Allora potrebbe essere da Queenie."
Sentii un vago bruciore accendermi le guance. "Queenie? E chi è?" cercai di suonare il più casuale possibile.
Era una ragazza?
"Che cosa?" fece Izzy, sbalordita, prendendo parte alla discussione e lasciando le sue riviste di moda al branco di piranha - le ragazze di quarto anno - che la accerchiava. "Scorpius si sta vedendo con qualcuna?"
Poi puntò gli occhi su di me. Io, che la conoscevo come le mie tasche, lèssi due emozioni ben distinte albergarci: la prima era la preoccupazione, preoccupazione che io stessi male e che quel ragazzo non tornasse con me; ma la seconda, più sottile, e più letale, era una rabbia covata nel profondo. Equivaleva a dirmi, vedi quanto sei stupida? Io te l'avevo detto, che si sarebbe rifidanzato, che sarebbe sparito dalla piazza, e tu non mi hai dato retta! E adesso cosa hai ottenuto? Un ragazzo molto più brutto e stupido e la perdita dell'amore della tua vita. Brava, Rose, complimenti.
Praticamente potevo sentirne il sarcasmo velenoso.
Noah rimase con la bottiglia di sciroppo d'acero per innaffiare i suoi pancake - li prendeva ogni giorno, a pranzo - a mezz'aria. "Ragazza? E chi ha parlato di ragazza?"
Per quanto un moto di sollievo mi avesse invasa, a quel punto sia io che Izzy aggrottammo la fronte. "Ma l'hai detto tu," fece lei, "hai detto che sta da una Queenie."
Allora il ragazzo scoppiò a ridere, tenendosi lo stomaco con entrambe le mani e quasi rotolando giù dalla panca. "E voi avete pensato," boccheggiò in cerca d'aria, "che fosse la sua fidanzata? Oh buon Dio, dammi la forza..."
"Vuoi dirci chi è o no?" intervenni, piccata.
"Vallo a vedere tu di persona," continuava a ridere, "vai, Rose."
Se gli diedi retta fu solo perché io Malfoy lo stavo cercando già da prima, ma dovetti ammettere che c'era una certa dose di curiosità a muovermi. Le indicazioni parlavano chiaro: gli incontri con questa Queenie avvenivano nella Caverna della Piovra Gigante, sul Lago Nero.
Quando passai accanto alla Capanna di Hagrid mi sporsi per fargli un saluto, e lui mi fece fermare almeno venti minuti, diciannove dei quali li passai in fibrillazione. Dovevo andare via - non sapevo da quanto Scorpius fosse lì, e quindi quanto ancora sarebbe rimasto - ma al contempo non potevo certo ferire il gigante buono. Mi dovetti imbottire di quei suoi biscotti fatti di pietra che tanto desiderava Baby, la piccola di Demiguise, ma che avevo ricevuto l'ordine perentorio di non darle.
"Hagrid, io—" provai a dire, quando mi piazzò davanti anche una tazza di tè fumante. Sapevo che era solo, sapevo che ogni volta che riceveva compagnia, specialmente da noi ragazzi, ciò lo faceva felice, però dovevo proprio scappare. Anche perché la curiosità di sapere chi fosse quella Queenie mi stava divorando viva.
"Oh, lo so che devi andare, ti si legge in faccia," replicò lui, con un sorriso buono e la gentilezza che traboccava dagli occhi nerissimi. "Volevo solo dirti una cosa. Mi dispiace di non avertici fatto gli auguri di compleanno, ieri," continuò, muovendosi per la Capanna con affanno. "Per questo, ti ci ho fatto un piccolo regalo."
Con la bocca aperta lo vidi tirare fuori da un cassetto un piccolo pacchetto rivestito da carta regalo, tutta macchiata, ammaccata e, avrei osato dire, persino bruciacchiata, e il fiocco rosa che pendeva in modo sghembo da un lato. "Aprilo," fece, mettendomelo in mano e lasciando una carezza sul mio braccio.
"Oh Dio..." mi sfuggì, nel tirare fuori un braccialetto di legno intagliato in maniera finissima, con una cura per il dettaglio impensabile. Ogni piccola perla aveva sopra un disegno, un gioco di ghirigori, una serie di motivi geometrici ma anche naturalistici - rombi e quadrati mischiati a coccinelle e farfalle. E poi, a coronare il tutto, pendeva una stella a cinque punte, creata con attenzione quasi maniacale. Non aveva il minimo difetto: era perfetta.
"Ti ci piace?" chiese, vivace. "Sai che c'è, avevo visto che non avevi più la tua collana con quella stellina d'oro... visto che non la toglievi mai, ci ho pensato che l'avessi persa, capito. E così te ne ho voluto fare un altro ciondolo, un'altra stellina."
"Hagrid, è davvero bellissimo," esclamai, commossa dalla premura che mi aveva mostrato. In effetti il ciondolo appartenuto ad Astoria mi era mancato come l'aria da quando il metallo aveva lasciato il posto sul mio collo, e indossare quel bracciale - accanto a quello di Scorpius, quello con la leonessa - mi fece sentire sicuramente meglio.
Balzai in piedi e lo abbracciai, stringendo il suo torace enorme tra le braccia e venendo investita dal suo profumo di erba tagliata e di fumo. "Grazie mille."
Lui, impacciato, mi diede un paio di colpetti sulla spalla. "Oh, oh, figurati. Ora va', sembravi di fretta."
Il contatto fisico lo imbarazzava sempre, perché, secondo me e Albus, gli dava l'impressione di essere ancora più grande rispetto a noi; però sapevo anche che non riceveva molto affetto, specie durante l'anno che i nostri genitori lavoravano e non potevano venirlo a trovare spesso, quindi ero certa che gli facessero piacere questi gesti spontanei. Lui era come un nonno per me, o uno zio gentile e affettuoso, e ogni volta che lo vedevo mi rimproveravo sempre di non visitarlo abbastanza.
Quando uscii dalla sua casa, salutati lui, la cucciola di Demiguise e Thor II, ingranai la marcia e mi misi a correre. Per accedere alla Caverna della Piovra Gigante, era necessario scendere fino alla Rimessa delle Barche, un porto sotterraneo a Hogwarts dove le barche venivano depositate e ancorate dopo aver portato gli allievi del primo anno al Castello ogni primo settembre. A quel punto si doveva salire su uno scoglio poco distante dalle scale, su cui si insinuava uno stretto passaggio a strapiombo sul Lago Nero. Imprecai malamente appena mi ricordai che una volta oltrepassato quel punto non si poteva fare altro che immergersi, seppur di pochi metri, per trovare un passaggio sott'acqua che sboccasse nella Caverna.
Era aprile, vero, ma la superficie del Lago si era sciolta da poco, e di sicuro non faceva abbastanza caldo per fare un bagno tranquillamente. Se non vi avessi trovato quel ragazzo avrei dato di matto, conclusi stringendo i denti e tuffandomi di testa per non avere tempo di tirarmi indietro. Per fortuna la tortura durò pochi istanti.
Si trattava di una grotta naturale ampia e dall'alto soffitto, per quanto fosse in gran parte coperta dall'acqua e la superficie calpestabile di pochi metri quadrati, e formata da sabbia. Spesso vi faceva visita la Piovra Gigante - di qui il nome - che la usava come tana o vasca. Molte volte era possibile richiamare la Piovra utilizzando un incantesimo Lùmìnio su dei lucenti quarzi posti sulla parete, seguito da un Impulsus che avrebbe prodotto una vibrazione simile a un diapason.
Quando emersi dall'acqua e mi tirai a sedere sulla roccia coperta di sabbia che permetteva di soggiornare nella grotta, fui infinitamente sollevata di vedere Scorpius seduto poco più in là, con i piedi nudi e le scarpe posate accanto a sé. Aveva le ginocchia al petto, e con la bacchetta stava riempiendo l'ambiente di piccole luci dorate che permettessero di vedere oltre il buio del tardo pomeriggio. Si doveva essere asciugato con un getto d'aria calda, perché l'unica parte umida di lui erano i capelli, ricci e scomposti come ogni volta che si bagnavano.
"Che ci fai qui?" chiese, stupefatto, non appena mi vide.
"Una nuotata," risposi ironica, strizzandomi i capelli zuppi. "Secondo te? Sono venuta a cercarti."
Lui con un sorriso roteò gli occhi. "Meno sarcasmo, Weasley."
Si avvicinò con la bacchetta in mano e tramite un getto d'aria piacevolmente bollente si mise ad asciugarmi i vestiti. La mamma detestava quando io e Hugo usavamo la magia per queste piccole cose, cui magari avrebbe sopperito l'uso di un normale asciugacapelli, ma vederlo così impegnato nell'evitare che mi beccassi un raffreddore non poté farmi che piacere, e dimenticai subito i suoi rimproveri. Anche perché qui, adesso, l'asciugacapelli di certo non ce l'avevamo.
"Quindi..." fece, una volta riposta la bacchetta. Non si allontanò, rimanendo a mezzo metro di distanza, ma portò le mani dietro di sé per reggersi meglio, e allungò le gambe alla mia destra. Il suo viso era illuminato di oro dai lumini che galleggiavano in aria, e i movimenti dell'acqua accanto a noi vi si riproducevano sopra. Il rumore delle lievi onde che si infrangevano sulla superficie rocciosa era melodioso da ascoltare.
Presi un respiro. Avrei voluto riferirmi ai girasoli, dirgli che li avevo ricevuti e apprezzati, domandare cosa significassero, ma tutto ciò che uscì dalla mia bocca fu: "Chi è Queenie?"
La sua reazione mi fece arrossire. Un sorriso ampio e malizioso si espanse sul suo volto, seguito da una risatina divertita, compiaciuto di sé. "Sei venuta fino a qui solo per chiedermi questo?"
Mi presi il viso tra le mani, lasciandomi sfuggire un lamento, e questo lo fece ridere solo di più, gettando il capo biondo all'indietro. "Qualcuno è geloso," mormorò, con gli occhi che luccicavano.
"Lo sapevo, non dovevo venire," borbottai, alzandomi. Non mi piaceva l'idea di gettarmi di nuovo nell'acqua gelida, ma nemmeno di restare lì in silenzio a farmi prendere in giro. Anche perché, cosa potevo rispondergli? Certo che ero gelosa. Quando avevo sentito quel nome, una scarica di invidia mi aveva invasa.
Ed era da ipocriti, perché io ero fidanzata, ma non potevo farci niente.
"Dove vai?" chiese, balzando anche lui in piedi e prendendomi il polso tra le dita. "Stavo solo scherzando."
Gli lanciai un'occhiataccia. "Chi è Queenie?" ripetei, testarda e pure parecchio indispettita.
Scorpius alzò un angolo della bocca, sfiorandomi la guancia con un dito. Quel semplice gesto mi provocò più brividi del bagno appena fatto. "Se mi prometti che se ti lascio andare non scappi, te lo faccio vedere."
Curiosa, corrugai le sopracciglia, ma annuii. Lui interpretò correttamente e tolse la mano dalla mia, chinandosi per prendere la bacchetta. Mormorò qualcosa tra i denti che con il rimbombo nella grotta non riuscii a sentire, ma in un attimo un suono tagliò quella serie di rumori di sottofondo - l'eco, i nostri respiri, i passi sulla sabbia. Un suono perfetto, di intensità costante, lungo e acuto.
Avrei chiesto volentieri che cosa stesse accadendo, cosa stesse facendo, ma non potei farlo: non appena la melodia si interruppe, la roccia sotto di noi iniziò a tremare, dapprima lievemente, poi sempre più forte; il ragazzo mi prese per un braccio per sostenermi, quasi fosse abituato a rimanere in equilibrio, e mi fece indietreggiare. L'acqua davanti a noi prese a ribollire come se fosse stata sul fuoco, ricoprendosi di schiuma bianca e schizzando ovunque, tanto che dopo solo qualche istante i miei jeans furono zuppi come prima dell'asciugatura.
Con la mano che stringeva quella di Scorpius, che lui teneva ancora sul mio avambraccio, osservai a bocca aperta un tentacolo uscire dalla superficie piena di bolle - un tentacolo, sì: lungo, grigio perla, attorcigliato su se stesso e coperto di ventose bianche grandi come la mia faccia. Era di dimensioni abominevoli, e quando mi accorsi che un'altra decina di questi stava affiorando, fu istintivo per me gridare.
Per fortuna Scorpius agì prontamente, e si piazzò dietro di me, portando una mano sulla mia bocca e attutendo il grido, che con tutto il rumore fatto dai tentacoli non si udì. Io portai entrambe le mani sulla sua, mio malgrado consapevole di come mi stesse stringendo, del suo corpo alto e slanciato dietro di me, che toccava il mio in più punti.
I tentacoli si allungarono verso l'alto, quasi toccando il soffitto roccioso, mostrandosi larghi come il busto del ragazzo al mio fianco, e mostruosamente lunghi e flessibili. Non avevo nemmeno più fiato per urlare, ma non per questo allentai la presa su di lui, ancora alle mie spalle, che mi teneva tra le braccia - e non solo perché non mi stringeva in quel modo dalla notte del suo incubo, ma perché non avevo le facoltà motorie per farlo.
Quando poi credetti di aver raggiunto il massimo della paura, affiorò sulla superficie una massa grigia come i tentacoli, enorme, estesa come l'intera Sala Comune dei Grifondoro. Era lucida e piena di macchioline nere simili a lentiggini. Appena l'acqua scivolò via da questa, si rivelò lucida, assomigliando in tutto e per tutto alla pelle di un delfino. Quello che però più mi colpì fu l'occhio - un occhio dalla pupilla nera come la liquirizia, e l'iride azzurra come il mare, come la mia. Solo quello aveva le dimensioni di un banco da due. Era impressionante.
"Rose," Scorpius mi lasciò andare e si avvicinò all'essere, che ci guardava senza muoversi, steso su un fianco per poter respirare in acqua. "Rose, lei è Queenie."
"Ma è—è la Piovra," dissi, senza fiato. Mi assalì un moto di nausea nel vederlo chinarsi sul bordo della superficie rocciosa, e mettere il palmo sulla pelle lucida dell'animale.
Fece una piccola risata. "Hai un grande spirito d'osservazione."
Poi voltò il capo e con sguardo tenero, la stessa tenerezza che si rivolge al proprio animale domestico, accarezzò la Piovra. "Ciao, bambola," lo sentii sussurrare, gentile e delicato. "Mi sei mancata."
La Piovra, con mia enorme sorpresa, socchiuse l'occhio come se godesse nel ricevere quelle carezze. Sollevò un tentacolo, il che mi mozzò il fiato dalla paura che potesse scagliarlo contro di lui - invece, con estrema lentezza e cautela, lo portò vicino al suo volto, e glielo sfregò sulla guancia, bagnandola.
"Va bene, va bene, lo so che sei affettuosa," rise il ragazzo, asciugandosi, "ma io ho una reputazione da mantenere. Che ne penserà Rose se mi strapazzi come se fossi un cucciolo?"
Davvero non sapevo spiegarmelo, ma fu come se nel sentire il mio nome l'animale si fosse improvvisamente reso conto della mia presenza, perché lasciò scivolare lo sguardo su di me, vigile. Una parte di me moriva dalla voglia di avvicinarsi, quella stessa parte che amava gli animali e che tormentava ogni giorno i miei genitori per prendere un cane. L'altra, invece, era dotata di spirito di sopravvivenza.
"Rose?" fece allora Scorpius, voltando la testa verso di me. "Vieni?"
"Sei sicuro?" chiesi, riacquistando con fatica le mie abilità dialettiche.
"Queenie non ha mai fatto male ad una mosca," mi assicurò, "e non te ne farà finché sarai con me. Puoi avvicinarti tranquilla."
Presi un bel respiro. Mi fidavo di lui, e se sosteneva che fosse sicuro, allora doveva esserlo per forza.
Lo sguardo della Piovra acquisì una nuova consapevolezza quando iniziai, lentamente, a muovere un piede dopo l'altro, capendo che a breve sarei stata accanto a lei. Scorpius aveva teso una mano nella mia direzione, e la teneva ancora, senza abbassarla. Le mie scarpe strisciarono nella sabbia, procedendo inesorabili. Il mio primo gesto fu quello di lasciar scivolare la mano nella sua, piano, percependo la sua pelle morbida sotto i polpastrelli, familiare. Le nostre dita si intrecciarono meccanicamente - forse mosse dall'abitudine, forse da qualcos'altro.
Mi invitò a chinarmi sulle ginocchia come aveva fatto lui, e mi sorrise con fare rassicurante non appena vide la tensione sul mio volto. "Stai andando benissimo," mi rincuorò.
Da vicino le sembianze della creatura erano ancora più mastodontiche, e provavo una certa ansia nello stargli così vicina sapendo che bastava che alzasse un tentacolo per ucciderci a tutti e due. Scorpius però era incredibilmente sereno, e continuava ad accarezzare con affetto la pelle lucida dell'animale.
"Vieni, prova," mi disse, cercando il mio sguardo. Mi fece segno di lasciare anche io un leggero tocco sul suo muso.
Una scarica di nervosismo mi invase, ma la respinsi. Non avrei fatto la figura della ragazzina piagnucolante spaventata da qualsiasi cosa, benché fosse del tutto accettabile la mia paura di fronte ad un essere cinquecento volte più grande di noi. Con grande prudenza tesi una mano - quella non legata alla sua - verso la Piovra, che fece scivolare quello strano occhio azzurro sul mio viso. Non si ribellò, né si mosse, ma attese che trovassi il mio tempo con pazienza.
Quando posai il palmo accanto a quello di Scorpius, ebbi la conferma della somiglianza della sua pelle con quella di un delfino, tanto che risultò umida, morbida ma resistente al tatto.
"Whoa," mormorai, passandovi sopra l'indice. "È... assurdo."
"Le piaci," replicò Scorpius, sorridendo compiaciuto.
"Come fai a dirlo?"
"Queenie è molto diretta nel far capire le cose," rise, "se non le fossi andata a genio te ne saresti accorta, fidati."
Mi venne da sorridere pure a me. "Anche tu mi piaci, Queenie," dissi alla Piovra, e un moto di gioia mi pervase nel vederla socchiudere quell'occhio gigantesco esattamente come aveva fatto prima con Scorpius.
Mi accorsi che quest'ultimo mi stava guardando in modo intenso, tutta la sua attenzione su di me, gli occhi che scavavano nel mio volto alla ricerca dei miei. Quando li distolsi dall'animale e incontrai i suoi, li vidi densi di emozioni cui non sapevo dare un nome.
"Che c'è?" sussurrai, con la gola secca. Era impossibile per me, adesso, smettere di fissarlo: i nostri sguardi erano attratti come magneti di poli opposti.
Si sporse in avanti, e il suo viso bellissimo fu a poca distanza dal mio. Quando parlò, la voce risultò melliflua, ipnotizzante. "Vuoi fare una pazzia?" domandò, serio.
Aggrottai la fronte. "Una pazzia?"
Mi accecò con un sorriso breve e luminoso. "Sì, una pazzia. Sei mai stata nel Lago Nero?"
^^
Be', chi non era mai stato nel Lago Nero? Tutti, almeno una volta nella nostra permanenza ad Hogwarts, persino i più restii e gli idrofobi, avevano fatto un tuffo nelle sue acque. Specialmente durante l'estate, magari dopo aver concluso gli esami, gli studenti abbandonavano volentieri la divisa in favore del costume da bagno. Nei fine settimana sembrava di stare in spiaggia: ombrelloni, teli, giochi acquatici con le sirene, non c'era nulla che mancasse per definirla una giornata di mare.
In inverno, invece, la superficie del lago si ghiacciava, permettendo scontri a palle di neve e persino il pattinaggio sul ghiaccio. Non mancavano gli esperti che, chissà quando, erano arrivati ad allenarsi al punto da offrire al resto di noi spettacoli meravigliosi, con piroette, salti e altre acrobazie che io non avrei fatto nemmeno con il paracadute.
Peccato che Scorpius Malfoy con quella domanda non mi avesse chiesto nulla di tutto ciò - ero stata nel Lago Nero? Certo, gli avrei risposto. Se non fosse stato che aveva fatto cenno a Queenie di allontanarsi un po', e poi con un tuffo esemplare si era gettato in acqua davanti a me.
"Be'?" aveva chiesto, accigliato. "Non vieni?"
"Faranno dieci gradi," avevo ribattuto, colma di orrore per quel gesto che gli era sicuramente valso una futura polmonite. "Esci, se vuoi sopravvivere!"
Lui era scoppiato a ridere, quel sorriso da fossetta che amavo con tutto il mio cuore, e che non mi era concesso amare. "Non dirmi che hai paura."
E così aveva vinto ogni mia resistenza, spostando la questione sull'orgoglio: e io adesso mi ritrovo immersa fino al collo in quella grotta naturale, con una Piovra mastodontica a pochi metri di distanza e un ragazzo bello quanto stupido davanti, che sorrideva come se avesse vinto alla lotteria.
"Smettila di fare quella faccia," lo rimproverai, muovendo le gambe per non affogare. I vestiti, incollati al corpo, mi facevano avere ancora più freddo del previsto. Per poco non battevo i denti.
Si mise a ridere, i capelli zuppi che gli gocciolavano sul collo. "Se tu non fossi così comica in ogni cosa che fai, smetterei."
Gli diedi una spinta sul petto. "Finiscila, io non sono comica."
"E io non sono bellissimo."
"Bene, allora siamo d'accordo," ghignai, il che gli fece roteare gli occhi.
"Sei insopportabile."
"E tu un pallone gonfiato pieno di sé. Sto gelando," aggiunsi, con una smorfia. "Se il tuo intento era quello di uccidermi, oggi lo realizzerai."
Sorrise, un sorriso largo e bianco. "Basta con le lagne, Weasley. Non puoi morire, non hai ancora visto niente."
"Noi dovevamo fare i giudici per la gara di scacchi," mi lamentai, stringendomi tra le braccia per racimolare calore. "E adesso moriremo qui, assiderati."
"Incantesimo Testabolla, hai presente?" replicò lui, senza prestare ascolto ai miei vaneggiamenti.
"Non dirmi che vuoi—ma certo, tu sei tu, e non sei contento se non rischi la vita ogni minuto della tua esistenza!" sbottai, spostandomi una ciocca di capelli zuppi dal viso.
Mi rispose con un sorriso. Si allungò verso la piattaforma rocciosa che ci aveva permesso di stare asciutti e al caldo e la puntò prima su di me, e poi su di se stesso. L'incantesimo Testabolla permetteva di respirare sott'acqua, creando una bolla gelatinosa attorno naso e bocca; ciò significava che aveva intenzione di immergersi, il che non rientrava esattamente nei miei programmi di quel sabato pomeriggio - specialmente perché non era difficile rischiare la vita in quel posto.
Largo e misterioso, il Lago Nero si estendeva a sud del Castello di Hogwarts, il quale era posizionato su un'alta scogliera che sporgeva sulle acque scure del bacino idrico. Con un diametro di circa mezzo miglio, era l'habitat naturale di molte creature, tra cui, appunto, la famigerata Piovra Gigante, e anche una comunità di Sirene. La tradizione voleva che i nuovi studenti del primo anno, per raggiungere il Castello, lo attraversassero su una barca.
Per il resto, non si sapeva praticamente nulla di specifico su questo luogo, perché dalla famigerata Seconda Prova del Torneo TreMaghi affrontato dallo zio Harry, tutti gli studenti avevano preso le misure su quanto fosse pericoloso. Nessuno si era mai spinto più in là di qualche metro, sapendo di poter incontrare le sirene - non tutte erano amichevoli e giocavano a palla - e i mostruosi Avvincini.
Per questo, quando Malfoy mi prese per la mano e mi indicò di aggrapparmi a Queenie, io pregai ogni santo di farmi uscire viva da quell'impresa, cosicché avrei avuto modo di uccidere quel testone accanto a me.
"Moriremo congelati!" gli feci notare, preoccupata.
Si mise a ridere. "Quante storie per un'eroina come te."
"Se sopravviviamo ti strozzo con le mie stesse mani," lo minacciai, e in risposta ricevetti solo un occhiolino.
"Non vedo l'ora, Weasley."
Queenie scelse quel momento per iniziare ad immergersi. Abbandonammo l'ambiente chiuso e a suo modo confortevole offerto dalla grotta, e l'acqua si richiuse sotto di noi, facendoci piombare nell'oscurità. Fu solo dopo aver superato il confine buio della caverna che la Piovra ci portò verso il cuore del Lago Nero, inondato della luce, già più calda, delle tre del pomeriggio. Respirare sott'acqua, benché fossi abituata alla magia, risultò strano, ma almeno potevo vedere ciò che avevo attorno, ed era bellissimo.
Il lago era gelido, così gelido che sentivo le gambe e i piedi perdere sensibilità man mano che procedevamo, e bruciava come se fosse stato fuoco anziché ghiaccio. Soltanto che tutto questo passava in secondo piano rispetto alla meraviglia che ci si stava spiegando davanti.
Vero - all'inizio l'ambiente era così profondo che non si riusciva a vedere oltre i tre metri dal proprio naso. In fretta i fondali scomparvero sotto di noi, lasciando il nulla al suo posto; allora Queenie si diresse in profondità, abbandonando la luce, e fu allora che la vita del Lago Nero si palesò ai nostri occhi.
Ovunque erano presenti fitte foreste di lunghe e contorte alghe nere come la pece, tra cui filavano pesci minuscoli, piantate su grosse rocce ricoperte di piccoli granchi bianchi e arancioni. Le alghe si agitavano in modo spettrale, quasi colorando l'acqua di nero. Potei giurare di aver visto una grossa coda muoversi tra esse, ma non volli approfondire per sapere se fosse stato uno scherzo della vista. Era sufficiente dire che avrei volentieri preso Malfoy per mano, ma non potei farlo sia per non allentare la presa su Queenie e quindi rischiare di perdere l'appiglio, sia perché, be', non ne avevo bisogno. Poco più in là, vaste piane colme di fango scuro, ricoperte di pietre che luccicavano come se fossero state cosparse di brillanti.
La Piovra si diresse verso il centro del lago, con la sua andatura lenta ma costante, agitando i suoi lunghissimi tentacoli alle nostre spalle e creando scie di bolle d'aria. Adesso che potevo vederla intera, mi resi conto delle sue effettive dimensioni: arrivava almeno a diciotto metri, una lunghezza che, da quanto avevo letto l'anno prima per una ricerca, sarebbe dovuta essere preclusa agli esemplari femmine, tradizionalmente più piccole. Le otto braccia erano munite di ventose; le più grandi, da quanto potevo vedere, erano ricoperte da piccoli denti, e uncini affilati per immobilizzare e ferire le prede. Dovevo ammettere che, benché facesse impressione nella grandezza e con tutta la serie di pericolose armi mortali, era anche bellissima.
Ormai la luce era ridotta ad un lucore grigiastro, una parvenza di essa, che diveniva sempre più opaca e meno intensa man mano che procedevamo. Non per questo però vedevamo meno nitidamente: era come se l'incantesimo Testabolla, che ci impediva di morire soffocati e di restare schiacciati dalla pressione, ci avesse anche reso la vista più acuta. Mi accorsi che il freddo era stato scacciato dalle mie ossa dal viaggio spettacolare che stavamo facendo, e ciò mi rese così emozionata da sorridere tra me e me, senza badare a trattenere una piccola risata.
"Il meglio deve ancora venire," mi assicurò Malfoy, con un sorriso che era lo specchio del mio. Per fortuna sembrava aver abbandonato quella cupezza sconfortante che gli avevo visto addosso nell'ultimo mese: rare volte l'avevo trovato così spensierato.
Queenie si abbassò ancora di più, quasi a volerci far fare un giretto turistico. Piccoli pesci saettavano attorno a noi, colorando l'acqua di sprazzi argentati, per nulla temendo la creatura che viaggiava per quei fondali. Più volte avvistai vecchi tronchi anneriti o ricoperti di vegetazione, o fitti e inquietanti cespi di alghe brune. All'improvviso il paesaggio si diradò davanti a noi, riempiendosi di colore: un prato smisurato di alghe lunghe circa mezzo metro, dal verde più brillante, del tutto simile agli occhi di Albus e dello zio Harry.
Ero così impegnata a guardare estasiata la meraviglia davanti a noi, che non vidi una piccola figura uscire da quel prato lucente. Strizzai gli occhi per distinguerne i contorni, quando riconobbi un Avvincino. Si trattava di demoni acquatici, prevalentemente di acque dolci, di scarsa altezza e un colorito verde, pallido e malsano. I lunghi capelli, anche questi verdi, gli incorniciavano un viso affilato e arcigno, e da questi spuntavano due piccole corna sulla fronte. Quando aprì la bocca per emettere uno spiacevole ghigno, delle acuminate zanne fecero capolino, minacciose.
"Devi dargli un calcio!" mi gridò Malfoy, anche lui impegnato con una di quelle creature che gli avevano afferrato la caviglia e lo strattonavano verso il basso.
Gettai un'occhiata sotto di noi, e mi accorsi che almeno una mezza decina di Avvincini stavano risalendo da quel prato che era sembrato tanto accogliente di primo impatto.
"Non posso!" urlai in risposta, "così gli farò del male!"
Un'imprecazione sentita uscì dal petto del ragazzo. "Stiamo per essere divorati dagli Avvincini e tu ti preoccupi di fargli male?" chiese, sbalordito, piazzando calci e torcendo le dita sottili delle creature fino a spezzarle. Avevamo studiato come difenderci da quegli esseri, e la magia sott'acqua non funzionava affatto bene, avendo effetti anche opposti rispetto a quelli comuni e voluti.
"Senti, non mi pare il momento adatto per usare tutto questo sarcasmo," sbottai, agitando la bacchetta in direzione delle creature ma sparando solo fiotti di acqua calda che li tenessero lontani anziché ferirli. "Occupati dei tuoi mostriciattoli e lasciami—"
La sua mano mi interruppe; mi afferrò per il braccio strattonandomi senza delicatezza e mi tirò verso di sé. Nell'esatto punto in cui un secondo prima c'era la mia testa, quello dopo c'era un Avvincino a zanne scoperte, che non trovando me affondò nella pelle di Queenie. La Piovra, che fino a quel momento per nulla era stata toccata dall'attacco di quegli esseri così più piccoli di lei, quasi invisibili, tutto d'un tratto emise un lungo verso, più arrabbiato che sofferente, il quale mi ricoprì la pelle di brividi. Queenie mosse un tentacolo, che si separò dalla massa che si muoveva in sincronia per spingerci in avanti, e con quello afferrò l'Avvicino che aveva ancora le zanne e gli artigli piantati nel suo fianco. Con uno sforzo che sinceramente mi parve minimo, lo strinse tra le sue spire e con un gesto secco lo scaraventò via, facendolo roteare in maniera vertiginosa fino a farlo sparire alla nostra vista.
In breve ogni tentacolo fu occupato con un Avvincino, ma fu questione di secondi prima che fossimo circondati di piccole creature urlanti che venivano lanciate con velocità assurda nella direzione opposta alla nostra. Mi resi conto di avere il respiro corto, e che Scorpius mi stava ancora tenendo il braccio, tenendomi contro di sé.
Mi schiarii la gola e mossi appena l'arto per fargli capire che doveva lasciarlo andare, cosa che lui fece senza esitare. Mi allontanai dal suo corpo, con le guance scaldate di rosso. Che stavo combinando? Non potevo buttarmi addosso a lui alla prima occasione, poi che avrebbe pensato di me?
Queenie continuò imperterrita, senza rallentare o mostrare dolore per l'accidentale morso dell'Avvincino, per circa venti minuti. Passammo sull'insidioso prato verde brillante, e poi su vaste distese di fango che vorticava nell'acqua sotto di noi, mostrando la presenza di correnti mediamente forti. Qua e là erano presenti enormi massi, che davano vita a piccoli ecosistemi: non ero un'esperta delle specie di pesci di lago, ma era bellissimo vedere questi animali nuotare pacificamente, protetti dalle rocce ricoperte di alghe scure, dai colori più disparati. I più belli erano di sicuro quelli grigi con il ventre arancione, il cui nome mi riproposi di cercare una volta usciti di lì.
"Guarda," mi disse Scorpius, indicando l'oscurità davanti a noi.
Dall'acqua fangosa davanti a noi emerse, tutto d'un tratto, una grossa roccia. Avvicinandoci meglio, potei vedere disegni rozzi che raffiguravano il popolo delle sirene. La maggior parte delle incisioni, oltre quelle che sembravano delle celebrazioni, erano composte da personaggi dai ghigni duri che brandivano lance, all'inseguimento di quella che sembrava proprio Queenie, la nostra Piovra Gigante.
"Queenie ci lascia qui," mi avvertì infatti Scorpius, accarezzando con evidente affetto il fianco della Piovra. Mollai la presa su di lei, la quale fece un largo giro, ci sfiorò con i suoi tentacoli e poi se ne tornò nella direzione dalla quale eravamo venuti.
Deglutii nervosamente. Senza i suoi confortanti diciotto metri, il Lago sembrava molto più cupo e minaccioso. Se non fosse stato per lei, dubitavo che ce la saremmo cavata così facilmente con gli Avvincini, che erano pur sempre solo dei piccoli e fastidiosi demoni acquatici; come avremmo fatto con le sirene?
Malfoy dovette vedere il dubbio e la paura ritratte sul mio viso. "Se vuoi tornare indietro possiamo farlo."
"No," risposi, sebbene il buon senso mi imponesse di darmela a gambe. "Non mi tiro indietro, sennò tu fai la parte del coraggioso e io della fifona!" scherzai per stemperare la tensione, e lui parve apprezzare, perché sorrise.
"Lo sappiamo benissimo che sei tu la coraggiosa tra noi. Andiamo, dai."
Superata la roccia ricoperta di incisioni, davanti a noi, da tutti i lati, apparvero dall'oscurità una serie di edifici in pietra viva. Sembravano quasi palazzi moderni, pur circondati dal buio, con tanto di finestre e persino giardini privati, e si affacciavano su una via principale, che noi stavamo percorrendo lentamente. Proprio alle finestre, man mano che avanzavamo, si affacciarono le sirene. Di certo non erano belle come dipinte nei vetri del bagno dei Prefetti: possedevano una pelle che virava sul grigio, e lunghe e contorte chiome verde scuro. La parte meno rassicurante era sicuramente rappresentata dai piccoli e affilati occhi gialli, dello stesso colore dei loro denti, la maggior parte spezzati. I Maridi, generalmente conosciuti come tritoni e sirene, erano caratterizzati da testa e torace umano, e da una lunga coda di pesce, ricoperta di scaglie argentate che mandavano bagliori nel loro continuo movimento.
Ben presto le caverne divennero più numerose, rendendo possibile vedere alcuni giardini di alghe. Fui subito inquietata dal vedere che molti Avvincini addomesticati erano legati a dei pali fuori dalle porte. Le sirene non erano particolarmente pericolose o feroci, ma il Ministero le aveva comunque classificate XXXX, ovvero pericoloso/richiede una conoscenza specialistica/trattabile da un mago esperto - e questo perché andavano trattate con immenso rispetto.
Mille volte, sin da bambina, avevo sentito dell'avventura dello zio Harry nel Lago Nero durante la sua Seconda Prova, e non ne aveva dei ricordi molto felici.
I Maridi ci continuavano a fissare stupefatti e sospettosi, nascondendosi i volti con le mani oppure sporgendosi oltre il davanzale per osservarci meglio. Noi procedemmo senza fermarci, e io sentivo il cuore battermi nelle orecchie dall'ansia. Bisognava stare attenti ad ogni sguardo, ad ogni parola, ad ogni gesto, perché non sapevamo cosa li avrebbe potuti disturbare, scatenando il caos e mettendo in pericolo la nostra stessa vita.
Diversi tritoni, con qualche sirena, nuotavano davanti alle abitazioni che fiancheggiavano ciò che avrei definito il punto focale del villaggio, ovvero la sua piazza. Al centro troneggiava una grossa statua, appena sbozzata con mano inferma, di un tritone.
Ci venne allora incontro una sirena. Era chiaramente il capo della piccola cittadina, con al collo una collana fatta di denti di squalo e circondata di altri Maridi come lei. Teneva una lancia nella mano destra, e ci fissava con quegli strani e taglienti occhi gialli.
"Lei è la Capitansirena Murcus," mi disse Malfoy a mezza bocca. "È al potere da prima che tuo zio venisse qui per il Torneo TreMaghi. Inchinati, o ci farà uccidere."
Lo vidi chinare il capo, fino a guardare il fondale sotto di noi. Quando la sirena, soddisfatta, voltò lo sguardo su di me, mi affrettai a fare lo stesso. O ci farà uccidere non era un'alternativa che ero disposta ad affrontare.
Improvvisamente mi sentii toccare i capelli, i quali fluttuavano nell'acqua, unica macchia di vivo colore in quel luogo. Mi voltai, pensando, d'istinto, che potesse la mano di Malfoy a farlo per qualche motivo. Invece mi ritrovai davanti una piccola sirena, in miniatura rispetto alle altre che avevamo attorno, e che adesso stavano soffiando come gatti per la vicinanza di una delle loro figlie a noi. La sirena aveva occhi molto meno cattivi rispetto al capitano, densi di curiosità, e le sue dita sottili, grigiastre e nodose erano ancora a mezz'aria, segno che era stata lei a farle correre tra la mia chioma. Mi ricordò quelle bambine dell'Orfanotrofio Seymour, che si erano presentate a me, Malfoy, Albus e Izzy con i nomi delle Winx. Una di loro, quella che aveva scelto di identificarsi con Bloom, con la quale condividevo il colore dei capelli, mi aveva chiesto se potessi toccarli, estasiata.
Allora l'adolescente prese dalla cintola che aveva in vita una pietra grezza, acuminata, e sotto il mio sguardo stupefatto se la portò alla testa, e la utilizzò per tagliare una ciocca dei suoi capelli verde acquamarina. Poi, senza allontanare gli occhi dai miei, me la porse.
Non conoscevo le usanze dei Maridi, dovevo ammetterlo, ma capii che il suo era un gesto di fiducia, un modo per stabilire una connessione, un rapporto di amicizia. Allora presi ciò che mi stava offrendo, le sorrisi e me lo misi in tasca, e poi allungai una mano davanti a me.
Lei mi guardò perplessa, agitando la lunga coda sotto di noi. Io indicai la pietra che aveva usato, e la creatura si illuminò nel porgermela. Recisi anche io una ciocca della mia chioma rosso scuro alla base della nuca, dove speravo che non si sarebbe visto più di tanto, e a mia volta gliela diedi. Non parlavamo la stessa lingua, ma era facile capirsi, e i nostri sorrisi comunicavano per noi.
Quel gesto ci fece guadagnare un giro turistico del luogo. La piccola sirena non abbandonò il nostro fianco per tutto il tempo in cui il Capitansirena Murcus ci fece visitare il villaggio, indicando con ampi gesti la mensa comune, il territorio di caccia, le credenze religiose, e quindi anche un grande tempio diroccato e coperto di vegetazione. Mi divertì particolarmente conoscere quel posto, e le usanze dei suoi abitanti, tanto che quando Malfoy mi fece notare che l'effetto dell'incantesimo Testabolla stava finendo, mi sfuggì un lamento sconfortato nel comprendere che dovevamo risalire in superficie.
Il capo si occupò di fornirci una scorta, due tritoni ricoperti di armi rudimentali fino ai denti e con una lancia a testa che utilizzarono per respingere, senza ucciderlo, l'unico Avvincino che sulla strada del ritorno provò di nuovo ad attaccarci. Ci lasciarono andare solo quando si poterono sincerare che saremmo arrivati sani e salvi a riva, e questo perciò accadde solo a pochi metri dalla spiaggia, quando Scorpius, con il suo metro e novanta di altezza, poteva già toccare il fondale.
Li salutammo con calore, prima di dirigerci verso l'esterno. Sarebbe stato inutile ritornare alla Caverna di Queenie e di lì farsi la strada fino alla Rimessa delle Barche e poi al Castello, quindi finimmo direttamente sul bagnasciuga del Lago che distava un centinaio di metri dal portone principale.
Ero così stanca che le mie gambe, per colpa dell'incessante movimento dato dal nuoto, affondavano con fatica nella fanghiglia e nella sabbia, trascinandosi di peso per arrivare all'asciutto. Non sapevo quanto fossimo rimasti precisamente in acqua, ma era ancora giorno, grazie all'allungamento delle giornate che seguiva l'arrivo della primavera. Avrei potuto guardare l'orologio, ma preferivo crogiolarmi nella mancanza di estremi cronologici per far vivere quel momento il più a lungo possibile.
Appena raggiungemmo lo spiazzo erboso del Giardino mi lasciai cadere a terra, incurante dei vestiti zuppi e del freddo che era tornato a gelarmi le ossa. Il tiepido Sole di inizio aprile aiutò, ma di sicuro non sarebbe stato abbastanza per asciugarci.
"Rose," mi chiamò Scorpius, sedendosi a gambe incrociate accanto a me.
Io sbuffai, gli occhi chiusi e le braccia piegate dietro la testa. "Sì, lo so, ci beccheremo un raffreddore. È solo che sono stanca morta, riposiamoci un minuto..."
Lui ridacchiò. "Non stavo per dirti di rientrare," disse, divertito, "non vivevamo niente del genere da mesi. Figurati se ho voglia di tornare alla normalità."
"Alla normalità," ripetei, con tono più amareggiato del suo - il che era tutto dire.
Socchiusi le palpebre quel che bastava per vederlo scrollare le spalle. "Sì, insomma. Fidanzati vari, amici che discutono, uno studio disperato, fantasmi che girano per il Castello," alzò un angolo della bocca in un sorriso amaro. "La nostra normalità."
"Be', neanche a me manca troppo," gli assicurai, godendomi i deboli raggi che scaldavano il mio viso.
"Da quanto tempo non passavamo un pomeriggio da soli, io e te?" chiese, con le gambe al petto e i gomiti poggiati sulle ginocchia, lo sguardo rivolto all'immensità del Lago Nero che riluceva con ogni movimento delle piccole onde.
Mi venne da ridere, e guardai il mio Magiorologio da polso. "Trentadue giorni, sedici ore e ventuno minuti, più o meno," risposi, efficiente.
Trentadue giorni, sedici ore e ventuno minuti.
La sera in cui ci eravamo lasciati.
Anche lui sorrise. "Non è così tanto."
"Sembrava molto di più," concordai, ritornando sdraiata sul prato e inspirando a fondo il profumo della natura che ci circondava.
Sentii un lieve rumore di erba schiacciata, e quando aprii un occhio vidi che Scorpius si era steso accanto a me. Anche lui aveva un braccio piegato dietro la testa, e l'altra mano sul proprio stomaco. Guardava il cielo.
"Mi è mancato," ammise, le ciglia bionde trasparenti alla luce del pomeriggio che le illuminava.
"Potremmo rifarlo," proposi, ottimista, tornando anch'io a fissare le poche nuvole sopra di noi. "Insomma, non c'è niente che lo impedisca."
"Non ti viene in mente proprio nulla?" chiese, ironico, e quando lo guardai di nuovo si era alzato su un gomito, ed era girato nella mia direzione.
Sbuffai. "Non stiamo facendo niente di male, sai. Julian può tollerare il fatto che siamo amici... non è uno psicopatico che mi impedisce di avere rapporti sociali."
Mai avrei pensato che sarei arrivata a definire il ragazzo accanto a me un semplice amico, né tantomeno ad arrivare a parlare con lui del mio fidanzato, eppure lì eravamo.
Sentendolo emettere un verso di scherno mi alzai anch'io su un gomito, replicando la sua esatta posizione e fronteggiandolo. Non mi resi conto di quanto fosse vicino il suo volto finché non lo ebbi davanti, ma non potevo certo indietreggiare. Mi accigliai. "Qualche problema?"
"Scusa ma non ho intenzione di parlare del tuo adorato fidanzatino negli unici minuti per noi che mi sono concessi," sbottò, con una ruga tra le sopracciglia.
Roteai gli occhi. "Ti sarebbero concessi molti più minuti se non fossi un insopportabile arrogante."
"Ti faccio notare che anche tu in quanto ad insopportabile arroganza non stai messa meglio," ribatté con una smorfia.
Io assottigliai lo sguardo, e il fastidio che mi attraversò bastò per darmi il coraggio di guardarlo in faccia. "E su quali basi dici questo, di grazia?" domandai con tono di sfida.
Una scintilla ilare gli balenò sul viso. "Renditi conto di come mi stai parlando."
"Come ti starei parlando?" insistetti, lottando contro ogni singolo ormone nel mio corpo per non far cadere gli occhi sulla sua bocca.
Troppo vicino!
"Come se credessi di avere sempre ragione," rispose, abbassando la voce.
"Ma io ho sempre ragione," avrei voluto che quell'affermazione uscisse dal mio petto con più convinzione, ma non fu altro che un sussurro flebile, che accompagnò la mia sconfitta. La battaglia interiore che avevo sostenuto fino a quel momento fu persa miserabilmente, tanto che mi distrassi da quella conversazione, dedicando al suo volto ogni grammo di attenzione che mi era rimasta.
Ormai sarebbe dovuto essere impossibile stupirsi ancora della sua bellezza, eppure eccomi lì, con il cuore che scalpitava come un cavallo imbizzarrito nella mia gabbia toracica. Lasciai scivolare lo sguardo sui capelli biondo scuro a causa dell'acqua che gli sfioravano ora il collo, e le sopracciglia bionde, e la pelle lattea, appena tinta di rosa sulle gote, la quale assomigliava a quella di un quadro in stile neoclassico. Il pallore del viso, dovuto al freddo, aveva fatto emergere delle minuscole tracce di lentiggini castane, concentrate in gran parte sulla zona del suo naso a punta, e che si diradavano procedendo verso gli zigomi alti e affilati. Le guance scavate rendevano più pronunciata la bocca, morbida, rossa dalle basse temperature, dai contorni perfetti, dall'aspetto invitante...
E poi, come tralasciare quegli occhi? Quel taglio spesso severo ma adesso delicato, l'iride color mercurio liquido, contornata di nero che la rendeva più appariscente, e dotata di milioni di piccolissime screziature verde chiaro, e le ciglia lunghe che la nascondevano.
"Non farlo."
Ci misi qualche istante in più a capire che aveva parlato. "Cosa?" domandai in un soffio.
"Guardarmi in quel modo," rispose, ma ormai era troppo tardi, perché smetterla di osservarlo sarebbe equivalso a smetterla di respirare.
"E se volessi farlo lo stesso?"
I suoi occhi grigi si spalancarono dalla sorpresa, o forse riacquistarono solo un briciolo di quella lucidità che stavamo entrambi perdendo.
"Ne dovrai accettare le conseguenze," sussurrò, e lo vidi deglutire.
Realizzai che senza nemmeno farlo di proposito eravamo scivolati l'uno verso l'altra, tanto che il gomito sinistro mi faceva male dalla pressione che stavo esercitando nel fargli reggere tutto il peso del mio corpo, in tensione e allungato verso il suo. I nostri visi erano così vicini che potevo sentire il suo respiro solleticarmi i capelli, e vedere ogni particolare del suo aspetto. Aveva un'aria sbarazzina con quei capelli scomposti, i vestiti in disordine dal tuffo fuori programma, ma soprattutto un'intensa passione e al contempo una altrettanto intensa agonia nel suo sguardo.
Dovevo accettarne le conseguenze, diceva.
Non mi veniva in mente conseguenza che avrei accettato più volentieri di ciò che stava intendendo.
Inclinò appena il capo verso destra, con il petto che gli si muoveva velocemente dal respiro corto. Il mio fece lo stesso, un movimento minimo, ma che fece inspiegabilmente avvicinare le nostre labbra più di quanto non fossero già prossime.
Allungò il collo, con le palpebre socchiuse tanto che le ciglia gli sfioravano gli zigomi.
Tutto quello che volevo in quell'istante era un bacio, era il bacio, quel bacio che mi stava offrendo e di cui sentivo la viva necessità.
Accostò la bocca alla mia. Era ormai questione di millimetri, ma entrambi sembravamo voler prolungare quell'attimo colmo di ardore, di bruciante desiderio, per far sì che ne ricordassimo, in futuro, ogni dettaglio.
Allora, sentendo la fitta al gomito insopportabile, e non volendo che nulla potesse frapporsi fra me e quel momento, spostai l'altra mano in avanti, per bilanciare il peso e alleviare il dolore.
Peccato che così facendo, un luccichio attirò la mia attenzione: il Magiorologio da polso.
La consapevolezza di ciò che stavo per fare mi inondò con la violenza di una doccia ghiacciata, e una sola immagine prese posto nella mia mente, annullando tutto il resto.
Julian.
Il tenero, dolce e premuroso Julian, che mi aveva aiutata a risollevarmi da un periodo orribile, che mi aveva organizzato una festa di compleanno, che aveva chiesto a mio fratello per il regalo da farmi.
E io stavo per tradire una persona che con me non era mai stata nient'altro che onesta, e che mi voleva davvero bene.
Strizzai gli occhi, sentendo un profondo dolore invadermi nel dover dire quelle parole. "Scorpius, non... posso..."
L'incanto si spezzò, l'atmosfera piombò nel gelo più totale. La velocità con cui riaprì gli occhi, e il colpo che vi era riflesso, fu come ricevere un Bolide in pieno stomaco per me.
Si tirò indietro con velocità dolorosa, e ritornò con il busto dritto, sorreggendosi con entrambe le braccia e guardando fisso il Lago davanti a sé. "Scorp, mi dispiace..." dissi, allungando una mano nella sua direzione. Subito il suo torace ebbe uno spasmo, come se lo ripugnasse l'idea del mio tocco, e non distolse lo sguardo dal paesaggio nemmeno per un secondo.
Capii che per me non era rimasto più spazio, non adesso; così mi alzai e mi incamminai a testa bassa verso il Castello, non prima di aver gettato via quel maledetto orologio.
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