74 - 𝐻𝑎𝑝𝑝𝑖𝑙𝑦
{«L'eternità era sui nostri occhi e sulle nostre labbra, la felicità nell'arco delle ciglia; e non v'era parte, anche misera, di noi che non fosse di natura celeste»
Shakespeare - Giulio Cesare}
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"Ho una proposta per te."
Non alzai gli occhi dal mio saggio di Astronomia, che dovevo consegnare la settimana dopo. "Mh-mh?"
"Vuoi darmi retta?" insistette.
"Devo finire questo."
"Ma è per martedì. Oggi è sabato."
"Non voglio rimanere indietro."
"È tutta la settimana che studi come un'ossessa," mi fece notare, sedendosi al tavolo, vicino a me. "Prenditi un pomeriggio libero. Divertiamoci un po'."
"L'ultima volta che hai proposto di divertirci Gazza ci ha rincorsi per tutto il Castello, Julian," gli feci presente, scuotendo la testa.
"Veramente," replicò lui ghignando, "l'ultima volta siamo stati da M.A.E.S.T.À. Mi stai dicendo che non ci torneresti?"
Finalmente gli dedicai la mia attenzione, e un lampo di soddisfazione gli attraversò gli occhi verdi, riflettendosi nel suo sorriso. Cinque giorni erano passati dall'infausto incontro con lui di fronte la Sala Grande, ed erano stati di tortura. Come avevo previsto, sapere che non era al Castello mi aveva aiutata a costruire una specie di corazza, il non averlo di fronte mi aveva fatta credere forte di me; e invece adesso mi ritrovavo con un pugno di mosche, il cuore sempre in gola e della polvere al posto della mia armatura.
Soltanto le ore che passavamo chiusi nella stessa aula costituivano un delirio. Lui da una parte, io da quella opposta, e mai alcuna interazione. Nessuno si permetteva di guardare l'altro, figurarsi di parlarci. I nostri amici, e di questo mi dispiaceva, non sapevano più che pesci prendere, e se volevano stare tutti insieme dovevano rinunciare o alla mia presenza, o a quella sua. Io infatti ero diventata molto più intima del gruppo di Julian, e, sorprendentemente, anche Livia aveva deciso di seguire la mia stessa strada, non volendo stare troppo a contatto con Noah. Non si erano lasciati, ma stavano attraversando un periodo difficile, e vivere insieme di sicuro non migliorava le cose. Lui, dall'altro lato, aveva iniziato a preferire la compagnia di Norah, Wilhelmina e i gemelli Flint, e così il gruppo centrale si era ridotto all'osso.
Oltre le varie dinamiche nostre interne - i litigi costanti tra Livia e Noah, il rapporto confuso di Kalea e Dave, - si respirava un'aria indubbiamente pesante in generale tra i ragazzi del settimo anno. Non avrei voluto creare così tanti problemi, ma due giorni prima ero venuta a sapere di uno screzio tra gli amici di Julian e i Serpeverde, avvenuto a causa della nostra rottura. Se poi si andava ad aggiungere la partita di Quidditch Corvonero-Tassorosso di quel pomeriggio, si poteva ben comprendere come nessuno fosse propriamente tranquillo. Quella partita avrebbe deciso le sorti dell'intero campionato: se i Corvonero avessero vinto avrebbero avuto lo stesso numero di vittorie di noi Grifondoro, e in base al punteggio della successiva partita di maggio si sarebbe saputo se i Campioni saremmo stati noi o loro, oppure, sperando di no, i Serpeverde.
Così era fiorito il rapporto tra me e Julian. In un clima torbido e difficile come quello, era stato il mio faro nella nebbia. Dove lui era tenebroso e dal carattere difficile, Julian aveva sempre il sorriso, la risata pronta, si faceva amare da chi aveva attorno, e se ne usciva sempre con nuove idee per divertire se stesso e gli altri. Il giorno prima aveva fatto spuntare dal nulla dei pattini e ci aveva invitati a sciare - aveva invitato anche Izzy e Kalea, che avevano portato Dave e Albus, rendendo il tutto ancora più bello; e quello prima ancora aveva organizzato una sorta di torneo magico tra i Grifondoro dell'ultimo anno nella Sala Comune, che era finito con il raccontarsi storie dell'orrore tutti insieme davanti al fuoco.
Non c'era nemmeno un'ora che non passassimo insieme, e questo per un motivo preciso: la sua presenza, così esuberante, dolce, divertente e simpatica, mi teneva impegnata dal pensare a lui. Quest'ultimo popolava ancora i miei sogni, ovviamente, ma dopo quasi un mese dalla rottura avevo capito che dovevo dare a me stessa tempo di guarire, e mi sentivo di poter dire che con Julian stavo iniziando a farlo.
Mi ero anche, in una conversazione con le ragazze, ricordata di un pensiero che mi aveva sfiorata tempo prima, in uno dei giorni più belli mai passati con lui. La mattina di San Valentino, infatti, avevo ricevuto una rosa bellissima da parte di Julian, e questo mi aveva portata a pensare, anche per un solo attimo, a come sarei stata se mi fosse piaciuto. Mi aveva guardata con così tanto desiderio, che mi aveva fatto riflettere su quanto sarebbe stato facile starci insieme, solo tanto amore, divertimento, niente gelosie, bugie, sotterfugi, litigi plateali. Al tempo avevo creduto che nulla potesse eguagliare il marasma di emozioni che lui era in grado di darmi, e che anche un solo secondo felice ne valeva la pena di mille complicati - ma era veramente così?
Mentre ci ero stata insieme ci avevo creduto veramente, dovevo ammetterlo, però adesso le cose erano diverse. Non aspiravo alla felicità, perché sapevo che senza di lui non avrei potuto averne; volevo solo un briciolo di serenità, volevo poter passare le mie giornate senza tristezza, afflizione, ansia, paura, volevo ritornare ad un equilibrio che avevo perduto miseramente.
Julian era lì, e mi stava offrendo tutto questo.
Io mi sentivo pronta ad accettarlo.
"Ti ricordi?" mi disse allegro, posandomi una mano tra le scapole per farmi accomodare sulle poltrone morbide. "Ti avevo detto che questa volta avresti scelto tu."
Feci scorrere il dito sulla schermata comparsa sul tavolino. "Ma sono così tante, come faccio a scegliere?"
Mi rispose con un sorriso dolce. "Torneremo tutte le volte che vorrai," mi assicurò con voce tenera. Percepii le guance riscaldarsi nel sentire la premura nelle sue parole.
Eravamo appena entrati da M.A.E.S.T.À., e ci eravamo accomodati davanti al tavolo della volta precedente: come a febbraio, infatti, la superficie di questo era diventata trasparente, e si era trasformata in una specie di schermo che proiettava le immagini delle epoche storiche offerte dal servizio. Jeremy, il proprietario, che stavolta si era presentato senza armatura ma con una tunica di lino come se fosse appena tornato dal deserto, ci stava aspettando poco più in là, pronto a portarci dal macchinario. La stanza era la stessa meraviglia di sempre: un tornado di oggetti esotici e colorati, gli scaffali stracolmi di tesori e manufatti, ampolle di vetro, libri rovinati e animaletti veloci. Una delle parti più belle era costituita dall'armadio, che ospitava vestiti di ogni epoca, ma adesso sapevo che quella vasta quantità di abiti - armature, corsetti, toghe, pellicce preistoriche - non era nulla rispetto a quella contenuta nello studio della signora Schmitz, al piano di sotto.
Le immagini che stavo scorrendo mi toglievano il fiato: l'agorà di Atene ai tempi di Socrate, la Firenze del Rinascimento Italiano, un salto nella Russia descritta da Tolstoj in Guerra e Pace, o ancora, e questo mi aveva rapita, il Giappone delle geishe nel 1930. Ero sul punto di scegliere questo scenario, quando il mondo da verde, nero e azzurro si colorò di arancione, e mi apparve sotto gli occhi, strappandomi un gemito di sorpresa, il palazzo dei Tolomei governato dalla regina Cleopatra.
"Questo," dissi di getto, "andiamo qui, ti prego!"
Julian si sporse per guardare, e poi sorrise ampiamente. "A me va più che bene, Cap."
La parte più bella del viaggiare nel tempo non era il viaggio in sé, ma la preparazione da parte della signora Schmitz. Si trattava di una donna sui sessanta anni, affabile, che amava tenere i propri capelli in un'acconciatura vistosa, uno chignon nero alto sulla testa dotate di due piume rosa shocking. Era alta, sottile, eleganti, gli occhi color liquirizia vivaci e intriganti. Quando Jeremy la chiamò e lei ci vide, risucchiò il respiro all'interno delle guance e mollò il corpetto cui stava lavorando per corrermi incontro.
"Rose!" salutò, quasi emozionata. Io ero piacevolmente stupita che ancora si ricordasse il mio nome, e mi feci stringere. Mi prese la mani fra le sue. "La scorsa volta, alla corte di Versailles... oh, non ho parole, davvero. Questo ragazzo è stato un tesoro a farti una sorpresa del genere, eri così bella."
Lanciai un'occhiata affettuosa a Julian, che aveva le mani in tasca e un sorriso cucito sulle labbra. "Sì, è davvero un tesoro," concordai, sentendo un'altra ondata di calore sulle guance quando lui mi rivolse uno sguardo intenso, verde come l'antigelo.
"Mi occuperò subito di te," mi promise la donna, tirandomi dentro la stanza, "fammi prima mollare qualcosa a lui, e poi sono tutta tua. Ah, perché hai aspettato così tanto a tornare?" aggiunse quasi fra sé, facendomi accomodare su una sedia e sparendo con Julian e Jeremy.
Io mi guardai attorno, sentendomi più emozionata di quanto fossi stata in settimane di tempo. Forse Izzy aveva ragione, dopotutto: lo shopping sapeva essere terapeutico. Conoscendola, se gliel'avessi detto sarebbe stata capace di rapirmi per portarmi a Londra, in barba alla McGranitt. Come per la scorsa volta, la parola d'ordine per quella stanza era abiti. Ce ne erano ovunque: negli armadi, appesi ai manichini, sospesi in aria, sulle grucce; era un tripudio di colori, fogge di tutti i tipi, e di tutte le epoche - corsetti, gonne, parrucche, mantelli, pepli, pellicce, calze.
La signora Schmitz tornò dopo meno di cinque minuti, trafelata. "Antico Egitto," esultò, con un sorriso grande quanto il mondo, "corte di Cleopatra. Ho esattamente quello che serve per te, cara ragazza."
Mentre lei si aggirava qua e là e scartava e raccoglieva abiti, io osservai la quantità di trucchi disposta sulla postazione a forma di scrivania, dotata di un grande specchio la cui cornice bianca era costellata di luci. "Crede che i miei capelli saranno un problema, lì?" domandai, con un velo di preoccupazione. "Così rossi, intendo."
"Assolutamente no," rispose lei, ritornando con un vestito bianco appoggiato sull'avambraccio e dei bracciali di legno tintinnanti. "L'Egitto Tolemaico era molto cosmopolita, e non era affatto strano che confluissero persone di vari popoli... potresti benissimo essere una greca. Ora parliamo di moda, ti va?"
Annuii entusiasta, e lei ridacchiò nel posare il vestito sul bracciolo della mia sedia. "L'abbigliamento del luogo deve fare i conti principalmente con il caldo torrido che infestava la zona desertica attorno al Nilo," iniziò, "nonostante si stia parlando di un fiume, che dovrebbe perciò mitigare il clima così violento, comunque gli Egiziani si avvalsero di un vestiario dalle linee essenziali, e confezionato con stoffe leggere e tinte di colori chiari."
La sua incredibile e infinita sapienza nel campo della moda mi stupiva una volta ancora. La passione nel parlare trapelava da tutti i pori, e rendeva ancora più affascinante il suo modo di esprimermi.
"Passo al trucco," mi avvertì, appoggiandosi sul tavolo da make-up e facendomi inclinare la testa all'indietro. "Comunque, gli abiti venivano considerati come ornamenti, più che come effettive coperture con funzione protettiva, e per questo, una volta al riparo delle mura domestiche, venivano tolti con la più totale disinvoltura. Non ti assicuro che non troverai persone nude una volta in un palazzo," terminò divertita.
"Speriamo di no," sbuffai io.
"Chiudi gli occhi. Ecco, per quanto riguarda gli uomini, è tutto molto semplice e veloce. Per molto tempo l'unico indumento è stato il perizoma, confezionato in lino per i più abbienti, in cuoio o in fibre intrecciate per soldati e popolani. Per fortuna per Julian," ghignò, "ai perizoma vennero aggiunte varie sottane, tutte con una lunghezza diversa, ma tenute in vita da una cintura. Altre volte, dei gonnellini a pieghe, che i sacerdoti ornavano con pellicce di leopardo."
Pensai ad Izzy e al suo amore per animali e natura, e rabbrividii. Se avesse trovato qualcuno con una pelle vera addosso, sarebbe stata capace di rifilargli un ceffone di potenza nucleare.
Sentii qualcosa di caldo e appiccicoso attorno agli occhi chiusi, ma non potei chiedere cosa fosse per non interrompere il suo discorso. "La moda femminile, invece, è più complessa e sofisticata. La donna godeva di alto rispetto all'interno della società egizia, e sui perizomi portavano delle kalasiris, tuniche trasparenti. Queste fasciavano il corpo femminile sino a sotto al seno da dove si dipanavano poi delle bretelle che, incrociate sulla schiena, avevano anche la funzione di coprire in parte questa zona del corpo. Alza il mento, per favore."
Le dita leggere della signora mi sfiorarono gli zigomi quasi come una carezza, lasciandomi qualcosa di polveroso sulle pelle. Avrei voluto vedere cosa stesse facendo, ma qualsiasi cosa avesse applicato sugli occhi era ancora fresco, e credevo andasse asciugato prima di muovermi.
"Ciascuna donna sceglieva il colore dei suoi abiti in base a precisi significati sottesi dalle diverse cromie. Diffusissimi erano il bianco e l'azzurro in quanto in qualche modo associati ad una divinità positiva, Ammon. Il verde invece rimandava all'idea di gioventù ed il giallo oro era messo in connessione con tutti gli dei. Non mancavano poi i monili, i copricapi ed il trucco, tutte cose a dire il vero utilizzate anche dai maschietti. E comunque, in particolare quest'ultimo aveva una funzione protettiva, oltre che di abbellimento, per difendere occhi, naso e bocca dalla sabbia e dagli insetti del deserto."
Poi la signora Schmitz ghignò. "Per quanto riguarda i capelli, potrei starci le ore. Gli abitanti dell'Egitto tenevano infinitamente alla cura del corpo, e le chiome non erano da meno. In particolare, con il Nuovo Regno e l'epoca Tolemaica le parrucche, da uomo e da donna, si fecero molto più elaborate, costituite da treccine di capelli veri, fabricate da artigiani specializzati e da barbieri. Per raccogliere queste trecce venivano usati spilloni di legno, osso o avorio. Non potrò mettertene nessuna, perché non sappiamo il ceto sociale in cui ti ritroverai una volta lì, e le parrucche sono utilizzate dalle donne facoltose," aggiunse, suonando tremendamente dispiaciuta. "Ma va comunque bene, perché così tutti vedranno i tuoi bellissimi capelli. Vieni, ho finito."
La signora Schmitz mi fece alzare, e mi spinse senza che potessi vedermi verso il paravento fatto di carta di riso che stava nell'angolo della stanza. Sentii ridere indistintamente Jeremy e Julian, dall'altro lato della porta bianca di legno scorrevole che divideva le due parti, maschile e femminile.
"Ho lasciato questo per ultimo perché morirai di freddo, ti avverto," disse lei, appoggiato l'abito bianco al di là del paravento decorato con gli aironi. "Non credo tu abbia bisogno di aiuto, ma se vuoi ti do una mano a metterlo."
Potevamo essere al venticinque di marzo, ma il clima era ancora gelido qui nelle pianure scozzesi, nonostante il calore della stufa nella stanza. Presi il vestito, e notai che, come preannunciato, si trattava di una tunica. La fissai per qualche istante, poi non mi potei più trattenere. Sporsi la testa oltre il paravento, scandalizzata. "Ma sarò nuda!"
Si trattava solo di veli, veli trasparenti, che si infittivano in corrispondenza del perizoma, ma per il resto non c'era nulla a coprire il corpo.
"Rose, non solo stai andando in un posto dove ci saranno quaranta gradi, ma nessuno andava vestito come intendiamo noi all'epoca," potei dire dalla smorfia che stava trattenendo che stava per scoppiare a ridere. "Vuoi che ti vedano subito come un'estranea? Se dovessi ritrovarti come schiava, potresti essere incarcerata con l'accusa di aver rubato da una donna facoltosa," aggiunse, forse cercando di rabbonirmi.
"La prego," supplicai con le mani unite davanti al volto, "non posso andare così."
"Prima mettilo," replicò, "e a seconda di quanto scopre vedremo che fare."
Con uno sbuffo disperato ritornai dietro il paravento, pronta già a farmi le croci all'idea di uscire in quel modo di fronte a Julian. Se fosse stato lui, l'altro...
No, Rose. Non puoi pensare a lui.
Indossai il perizoma bianco sopra il mio intimo, percependo il corpo ricoperto di brividi nel dovermi spogliare dei miei vestiti caldi per rimanere nuda. Tutti i veli trasparenti che avrei dovuto mettere convergevano nel punto tra i due seni, coprendoli abbastanza, grazie al Cielo; si dipanavano poi sia verso il basso, fino a sfiorare, morbidi e leggeri come l'aria, la metà coscia, e sia verso l'alto, trasformandosi in bretelle che dovetti portare oltre le spalle, e che si intrecciarono sulla schiena.
Sembravo un'ancella direttamente uscita da un tempio egizio. O una prostituta dell'antichità.
Deglutendo uscii dalla copertura offerta dal paravento, tenendo nervosamente il nodo di veli che mi copriva il seno. Se solo fosse saltato, si fosse allentato, o rotto, io sarei rimasta nuda come un verme. Non potevo reggere quello stress.
"Oh, sei bellissima. Vedi che non è così male? Vieni," mi prese per la mano, facendomi sobbalzare dalla paura che potesse toccare quel punto così delicato, e mi lasciai condurre davanti allo specchio.
La me lì riflessa mi restituì uno sguardo colmo di panico, ma era anche quasi irriconoscibile. Per prima cosa, gli occhi, neri come la pece, dalla lunga coda che mi sfiorava le tempie, in pieno stile egizio; il blu dell'iride risaltava brillando come il mare. Poi i capelli, che mentre parlava la signora aveva intrecciato modestamente, in piccole trecce fermate da una spilla semplicissima. Infine, il vestito, che risultava meno scoprente di quanto avessi temuto, ma anche molto più scoprente di quanto volessi. Le braccia, le gambe, il ventre appena velato, collo, schiena... non c'era nulla di nascosto.
"Questa è meravigliosa," mi distrasse la donna, avvicinandosi a me tanto da sfiorare la collana di Astoria con la punta del dito. La mano mi scattò involontariamente a racchiuderla, un istinto che mi gridava di proteggerla da chiunque.
Quella collana... il simbolo del nostro amore. Donata in un momento di difficoltà, mai chiesta indietro, nemmeno quando a gennaio avevamo pensato di esserci lasciati, e nemmeno lo scorso mese, quando la rottura si era verificata veramente, e definitivamente. Il ciondolo a sei punte era diventato parte di me, come aveva fatto lui.
Glielo lèssi nello sguardo: nell'Antico Egitto non c'era spazio per l'oro bianco, tantomeno non al collo di una persona qualunque. Eppure, separarmene per me costituiva un malessere fisico, un vuoto allo stomaco. Mi sembrava di non tenere fede alla promessa che avevo fatto, non solo di amarlo, ma anche di prendermi cura di lui, e di custodire il ricordo della persona cui teneva sopra ogni altra cosa.
Quando riposi la collana e il bracciale che mi aveva regalato per Natale, quello a forma di leonessa, nella tasca interna del mantello, mi sentii ancora più nuda di prima. Era una nudità diversa, però: il vestito ne comportava una fisica, questa era spirituale, psicologica. Avevo affrontato di tutto con quei gioielli addosso, e ora esserne priva mi provocava dolore, mi faceva sentire vulnerabile. Mi avevano aiutata per tutto quel periodo così burrascoso a non sentirmi troppo sola, a non sentirmi distante da lui. Adesso lo ero, in tutti i sensi.
"Farete tardi," esclamò la signora, inconsapevole del mio dilemma. "Non vedo l'ora che il tuo ragazzo ti veda."
"Lui non è—"
"Merda."
Mi voltai, trasalendo nel sentire la voce di Julian, e la sua espressione di colorito stupore.
Eccolo lì: quello stesso sguardo della rosa di San Valentino, servito su un piatto d'argento. Non notai che era truccato, e vestito in modo ridicolo, con un gonnellino bianco e il petto nudo, ma solo i suoi occhi verdi sgranati, e la bocca aperta. Arrossii fino alla radice dei capelli, cercando di coprirmi in modo velato. Non sapevo nemmeno che dire.
Fu Jeremy a interrompere, per fortuna, quel momento, annunciandoci che la macchina era pronta. Fui certa di averlo sentito ridacchiare insieme alla signora Schmitz una volta che io e il ragazzo l'avemmo superati.
"Sei molto bella," disse Julian sottovoce, camminando accanto a me a testa bassa. "Anche se di sicuro non è solo grazie a questa tunica."
"Grazie," replicai morbidamente, decidendo di buttarmi sullo scherzo con una battuta. "Speriamo solo che faccia abbastanza caldo lì. Sto congelando."
Ridacchiò, ma non aggiunse altro. C'era un sottile velo di imbarazzo tra di noi, non troppo spiacevole, dovuto ai complimenti e al modo in cui mi guardava. Che però non mi dispiaceva, ecco.
"Ragazzi, pronti?" domandò Jeremy, inserendo una combinazione tramite i tasti del macchinario.
"Pronti," rispondemmo io e Julian in coro, e tesi una mano al mio compagno. Il suo sorriso mite fu l'ultima cosa che vidi prima che la visuale mi si appannasse, e il pavimento scomparisse da sotto i piedi.
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La prima differenza di cui mi accorsi fu il caldo. Anzi, più che accorgermene, ne fui letteralmente investita; un vento bollente mi sferzò il volto, rimuovendo all'istante i brividi che mi avevano cosparso la pelle fino a quel momento.
La seconda, la sabbia. Crollai come un sacco di patate su un mare di sabbia, che mi sfregò le ginocchia e la parte inferiore delle gambe. Il Sole era troppo forte per aprire del tutto gli occhi, quindi mi aggrappai all'unica cosa di cui ero consapevole, ovvero la mano di Julian.
"Jules..." tossii, sentendo i polmoni pieni di aria bollente e i granelli di sabbia nella bocca. "Che cosa..." la mia voce sfumò, portata via dal vento.
Mi portai la mano libera davanti agli occhi per proteggerli dalla luce accecante, e riuscii a socchiuderli. Quello che mi si presentò davanti fu il posto più bello che avessi mai visto, in assoluto. Sapevo che il palazzo della regina Cleopatra non esisteva più dal IV secolo dopo Cristo, a causa di disastri naturali che avevano fatto sprofondare il terreno su cui si trovava negli abissi, e che al giorno d'oggi si trovava al largo delle banchine orientali del porto di Alessandria d'Egitto.... ma adesso, adesso era lì, davanti ai miei occhi.
Benché l'isola su cui sorgeva, la celebre Antirodi, fosse piuttosto piccola, il suo splendore giungeva allo sguardo di ogni persona nel porto. Vantava non solo il monumentale palazzo, ma anche edifici, templi enormi, monumenti. La sabbia bianca, le acque cristalline, la brezza profumate che spirava dal mare... quel posto era un vero paradiso. Osservai le palme lussureggianti che costellavano l'isola, e il via vai di gente affacciata sul porto - gente dalle fattezze egiziane, ovviamente, che indossavano, come preannunciato dalla signora Schmitz, solo dei perizomi e tuniche leggerissime per combattere l'afa; gli schiavi, ahimè, che portavano ceste di cibo, gioielli, attrezzi, e le donne le anfore colme d'acqua, e chi abbaiava, con una tavoletta di cera in mano, ordini a destra e a manca.
"Sembrano tutti in fermento," osservò Julian, tirandomi di lato per evitare che un uomo che si portava appresso un piccolo blocco di marmo con delle funi mi investisse. Io ero troppo assuefatta da quell'aria esotica e orientale e così lontana per dargli retta, ma effettivamente aveva ragione: la processione di persone con i loro carichi e il velo di sudore addosso procedeva, lenta ma inesorabile, verso le piccole barche ormeggiate al porto.
"Secondo te che sta succedendo?" chiesi, guardando la meravigliosa città di Alessandria alle nostre spalle. Gli occhi mi caddero subito sul mastodontico faro, una delle Sette Meraviglie del Mondo Antico, ora perduto. Oltre a guidare le navi, simboleggiava il potere della mente dei grandi filosofi, scienziati e artisti che abitarono la città, la quale, nell'epoca Tolemaica, era la più importante dell'intero Mediterraneo. Si trattava di una gigantesca torre, l'edificio più alto dell'antichità, formato da tre corpi distinti di cui quello inferiore era quadrato con finestre allineate lungo le quattro facciate e conteneva circa trecento stanze. Scale a doppia spirale portavano al secondo livello di forma ottagonale, mentre un terzo corpo cilindrico terminava con il vano della lanterna ed era coronato da una statua di Poseidone. Si narrava che la luce della gigantesca lanterna fosse visibile a più di trenta miglia di distanza e che fosse prodotta da un grande fuoco alimentato da un sistema di montacarichi ad azionamento idrico, che sollevava il combustibile fino in cima alla torre. Vederlo dal vivo, come se i millenni non fossero mai passati, mi fece bruciare la gola dall'emozione.
E poi - era la Biblioteca, quella? Quel palazzo maestoso in direzione del cuore della città—
"Avanti, che fai lì impalata?" mi gridò una donna, afferrandomi per le spalle e strappandomi dalla presa di Julian. Io la guardai con gli occhi sgranati. Mi aveva appena parlato in inglese? O—Dio, ero riuscita a capire l'egizio?
"Sei sorda, per caso?" mi apostrofò, scuotendomi come a fare entrare le sue parole a forza nel mio cervello. Era forse una delle donne più belle che avessi mai visto, dalla pelle scura e occhi e capelli neri come la pece, ma aveva uno sguardo infuocato.
"Ci sento benissimo," risposi, piccata, e subito dopo mi portai una mano alla bocca, sconvolta. Che cosa diavolo stava succedendo? Com'era possibile che capissi e parlassi quella lingua di cui non sapevo nemmeno l'alfabeto?
Lei schioccò la lingua, esasperata. "Devi essere nuova, tu. Sbrigati, mettiti in fila con le altre, il tempo di amoreggiare è finito. La regina ci aspetta."
La regina?, stavo per ripetere, ma colsi di sfuggita l'occhiata preoccupata di Julian prima che la donna mi spingesse senza delicatezza verso una fila di ragazze più o meno della mia stessa età, tra i sedici e i vent'anni, vestite tutte di bianco e con lo sguardo basso a terra. Un singulto mi fece sobbalzare. Mi stavano per sacrificare in dono a qualche dio?
"Che sta succedendo?" azzardai a chiedere alla ragazza dietro di me. Anche lei aveva i lineamenti egiziani, ma meno marcati, gli occhi più tondi e la bocca più sottile. Doveva avere qualche parente straniero.
Lei si accertò che la donna stesse abbaiando a qualche altra povera malcapitata prima di rispondermi. "La regina ci ha chiamate per assisterla. Non possiamo non prepararla per il grande evento."
"Grande evento? Quale grande evento?" bisbigliai in risposta, confusa e disorientata. E Julian? Se, a rigor di logica, ci stavano facendo tutte imbarcare per raggiungere l'isola che ospitava il palazzo, e lui fosse rimasto a terra... come avrei fatto a recuperarlo in tempo? Come saremmo potuti andare via? Avevo la bacchetta, certo, nascosta con cura tra i veli della tunica, ma non potevo mica scatenare il panico per tutta Alessandria.
Lei mi guardò come se fossi stupida. "Il Romano."
Santo cielo, di chi stava parlando? Di Giulio Cesare? Di Marco Antonio?
Prima che potessi insistere la colonna di ragazze si iniziò a muovere, e mi ritrovai infilata su una barca di legno con una decina di loro, tutte strette senza dire una parola, e una sorvegliante che imponesse l'ordine. Quel breve viaggio fino all'isola fu ben accetto, perché la frescura del vento che sapeva di sale e di mare e le acque trasparenti mi misero di buon umore; peccato che quando sbarcammo non ci fu tempo nemmeno di aprire bocca. Ritornò, infatti, la despota di prima, la bellissima ma acida comandante di quella schiera. "Muoversi, muoversi, siamo già in ritardo," esclamò, e la processione riprese, stavolta per il palazzo.
Che cosa stavo facendo, a seguire quelle persone? Non potevo rischiare la mia vita, né tantomeno quella di Julian, che non sapevo che fine avesse fatto, abbandonato al porto in quel modo. Mi stavo andando a infilare in un guaio troppo più grosso di me, e non sapevo come uscirne.
La despota ci condusse non per l'entrata principale, bianca come la sabbia della costa e accompagnata dalle statue di due enormi leoni, ma per una secondaria, e sbucammo direttamente in quelli che, ci avrei scommesso la pelle, erano gli appartamenti della regina. Nessun'altra sembrava particolarmente sorpresa di stare lì, ma io provai una magra consolazione nel pensare che, se proprio dovevano sacrificarmi su un altare, non credevo l'avrebbero fatto nella parte più lussuosa dell'edificio.
Dovevo solo trovare Julian e andare via. Sì, ma come?
Anche qui, con una velocità e un'efficienza inaudite, il gruppo di circa quaranta giovani venne diviso in minuscoli sottogruppi, e io ebbi la grande fortuna di finire proprio in quello gestito dalla comandante suprema. Riuscii a capire parole come 'cucina', 'camere da letto', 'tavole' e 'abiti', come se ogni gruppetto fosse adibito ad una specifica occupazione. Peccato che ancora non avessi capito quale fosse la mia.
Mi trovavo con altre tre ragazze, e mi resi conto, stupefatta, che gongolavano come se avessero vinto il primo premio alla lotteria. "Dove stiamo andando?" chiesi a quella che camminava accanto a me, e lei sollevò gli occhi - azzurri, come i miei, - e sorrise appena.
"Oh, noi andiamo dalla regina."
Fu tutto ciò che poté dirmi, prima che facessimo il nostro ingresso nella stanza più solenne e imponente che avessi mai visto: i soffitti altissimi, le finestre, prive di vetro, le cui tende di lino bianche come le nuvole erano tirate per mostrare la baia e la spiaggia candida, e le palme e la natura mediterranea incontaminata, e il Sole, e il cielo terso, e il mare infinito; un letto immenso, con le lenzuola anch'esse chiare, e dei libri - libri!, quanto avrei voluto metterci le mani sopra. La parte, forse, magnifica sopra ogni altra, era la vasca da bagno. Non era del tutto convenzionale, perché sembrava essere stata scavata sotto il livello del terreno, dove si camminava, e, questa era la magia, era colma non di acqua, ma di latte. Latte bianco, immobile come se fosse stato marmo, il cui profumo si sentiva sin da lì.
Colpita da quel lusso e dalla maestosità dell'ambiente, l'ultima cosa che notai fu la figura, minuscola, che era immersa proprio in quella vasca così grande, di spalle rispetto a noi. Il respiro mi si mozzò dall'emozione: quella non poteva essere che Cleopatra. Non solo io ebbi quella reazione, ma anche le altre ragazze con me, anche se immaginavo per motivi diversi. Il volto e l'apparenza di Cleopatra costituivano tutt'ora uno dei più grandi misteri della storia, poiché Ottaviano, una volta che l'ebbe sconfitta con la celebre battaglia di Azio, ne aveva fatto distruggere tutte le sculture e disegni che la rappresentavano. Non si sapeva nemmeno se avesse fattezze egiziane, forse ereditate dalla madre, oppure simil-greche, a causa delle sue origini caucasiche...
La regina si alzò, con eleganza, sapendo che noi eravamo lì solo per servirla. Subito la despota, cioè la donna che ci aveva guidato fin lì, si separò da noi per prendere un telo e coprirla. Quando si voltò, l'emozione che mi percorse fu tale che per poco non caddi per terra.
Era meravigliosa, certo, ma la sua straordinaria bellezza non veniva dai suoi tratti somatici. Era piccolina, più bassa di me ma dalla forma fisica perfetta, e molto meno orientale di quanto mi sarei aspettata: i capelli, lisci come se piastrati, erano castani ma dai chiari riflessi ramati, e la pelle più chiara di quella tipica del luogo. La bocca era sottile ma carnosa, e il celebre naso più grande della media. Gli occhi, castano chiaro, quasi dorati, avevano la forma tonda delle fattezze greche, non certo allungati come ci si sarebbe aspettato. Il fascino traboccava da ogni parte di lei, da come si muoveva, dal modo in cui dominava la scena, e dalla spettacolare intelligenza nel suo sguardo, profondo, ammaliatore.
Era il tipo di persona di cui tutti, tutti, si sarebbero invaghiti. Era impossibile non farlo, a prescindere dall'orientamento sessuale, dallo spazio, dal tempo, dai gusti. Quando fece scivolare quegli occhi su di me, arrossii fino alle orecchie.
La despota la avvolse con il telo, e Cleopatra - brividi solo a pensare il suo nome - le disse qualcosa sottovoce, che fece ghignare la donna e sorridere lei. Mi investì un altro fulmine, il suo sorriso. Il modo in cui alzava appena l'angolo della bocca, e l'aria compiaciuta e divertita le invadeva il volto, tutto concorreva alla sua aura di mistero e fascino e carisma.
Poi la regina camminò, a piedi nudi, fino ad un lato della stanza che mi era sfuggito, un tappeto fatto di cuscini morbidi e colorati, e vi si adagiò, sempre coperta dal telo. Le ragazze si sedettero sui cuscini con lei, ma ai lati più esterni, e così, dopo un attimo di ritardo, feci anch'io. Subito mi invase un'ondata di ansia tale da farmi contrarre ogni organo interno. Voleva fare conversazione? Speravo di no. Non sapevo quasi nulla del momento storico, se non che stava arrivando un "Romano", che poteva essere davvero chiunque. Non solo avrei fatto una figuraccia epocale con una delle donne più famose della Storia, ma avrei corso il rischio anche di farmi smascherare come completa estranea.
Le ragazze si attivarono immediatamente, chi prendendo delle creme e degli oli profumati, chi una parrucca, chi polveri colorate. Io rimasi immobile, con gli occhi spalancati, capendo cosa dover fare prima che la regina si accorgesse del mio essere così spaesata.
"Prendi il kohl," sbottò la despota fissandomi male al di sotto delle ciglia nere. Ma non iniziava a capire che aveva raccattato la persona sbagliata? Improvvisamente temetti per la mia pelle. A causa della mia incapacità mi avrebbero sotterrata viva? Buttata in mare con un bavaglio e i polsi legati? Certo, sarei potuta scappare con la magia, ma che fine avrebbe fatto Julian?
Prima che me ne rendessi conto, un pensiero, naturale e irritato, mi attraversò la mente: con Scorpius non sarebbe mai successo niente di tutto questo.
Vuoi per il disagio dell'aver pensato il suo nome, vuoi la verità innegabile di quell'affermazione, vuoi per il malessere fisico dovuto alla lontananza tra di noi, l'unica cosa che mi uscì dalla labbra fu un "cosa?" detto fin troppo ad alta voce. Mi sovvenne troppo tardi l'errore del mio gesto, perché con gli occhi sbarrati vidi Cleopatra voltare il mento nella mia direzione.
I suoi occhi castani mi percorsero il viso con scrupolosità. I tratti somatici egiziani, miscelati perfettamente con quelli greci tipici della dinastia tolemaica, la rendevano affascinante oltre ogni misura. "Sei nuova, vero? Non ti ho mai vista qui."
Aprii la bocca per rispondere, con un lieve ritardo a causa dell'emozione - Cleopatra d'Egitto mi stava rivolgendo la parola, santo Cielo, - ma la despota mi precedette. "Non è nuova, regina. Evidentemente è stata nelle cucine per tutto questo tempo. Perdonatemi, non avrei dovuto portarla qui—"
Cleopatra alzò elegantemente una mano. "Basta così, Carminia," disse, e poi si rivolse di nuovo a me. "Da dove vieni?"
Di sicuro non potevo dirle che provenivo da Londra, quindi mi inventai una località a caso dell'Antica Grecia, l'unico luogo che potesse giustificare i miei capelli e il colore della pelle. "Da Atene, regina," replicai, sperando di nascosto che la città fosse sana e salva all'epoca.
"Sei molto bella," commentò con un lieve sorriso a incresparle la bocca. "Cosa ti ha spinto fin qui?"
Carminia, la donna che guidava le altre ragazze, doveva essere la sua prima ancella; mi ricordavo vagamente del suo personaggio nella tragedia di Shakespeare, il Giulio Cesare. "Stava amoreggiando nel porto con un ragazzo," sentenziò, nonostante nessuno glielo avesse chiesto.
"Non stavo amoreggiando," replicai, puntigliosa, non riuscendo a trattenermi. "Ci tenevamo solo la mano."
Un singulto percorse le altre tre ragazze, che stavano assistendo allo scambio in religioso silenzio. Mi morsi la lingua. Non avrei dovuto parlare. Perché non riuscivo a starmene zitta anch'io?
Cleopatra ridacchiò, mentre chiudeva gli occhi per farsi applicare il trucco sulle palpebre. "Hai senz'altro il temperamento che si confà alla stirpe di Temistocle, ragazza."
"Vi ringrazio, regina," mormorai.
"È tutto pronto per l'arrivo del Romano?" chiese Cleopatra a Carminia, e quest'ultima fece segno a noi di muoverci. Una ragazza mi schiaffò in mano una ciotola colma di crema bianca e mi fece segno di metterla sulle mani della donna distesa.
"Gli ordini sono stati disposti," replicò l'ancella, "la nave è pronta."
I lineamenti di Cleopatra si ammorbidirono. "E Cesarione?"
Un lampo di genio mi colpì. Ma certo, era troppo in là con l'età perché il Romano di cui tanto si parlava fosse Giulio Cesare: lei era diventata la sua amante a soli vent'anni, e adesso ne dimostrava almeno trenta. Inoltre, Cesarione era il figlio che aveva avuto da lui. Dunque stava per conoscere Marco Antonio, e vivere una delle storie d'amore più celebri dell'antichità.
Lei iniziava la sua, e io finivo la mia. Dio... avrei solo voluto tornare a casa. Ma la mia casa era lui, e lui non c'era più per me.
"Vi dovete preparare," intervenne Carminia, rivolta verso noi ragazze. Disorientata, la fissai senza dire niente. Come ogni volta in cui pensavo a lui, mi ero estraniata del tutto dal mondo, applicando la crema sulle mani della donna con aria assente.
"Siete le ancelle della regina Cleopatra, e per questo dovete risultare le seconde donne più belle dell'incontro," spiegò, certamente irritata nel doversi ripetere. Almeno, non ero l'unica tra di noi a non aver capito cosa intendesse. Il riferimento all'incontro con Antonio era chiaro, ma rabbrividii nel ricordare come si vestivano le ancelle all'epoca. L'abito che portavo io al momento era da monaca al confronto.
Dovevo andare via di qui, ritrovare Julian e tornare nel nostro secolo.
Ancora, pensai che se ci fosse stato lui sarebbe già piombato nella stanza della regina, con le guardie che lo tentavano di trattenere, gli occhi luminosi, lo sguardo furibondo e bellissimo come quello di un dio... esattamente come aveva fatto quando ero stata in ospedale, e aveva trovato l'antidoto per il veleno di papà. Ma rappresentava l'eccezione, e io lo sapevo. Dovevo solo imparare a vivere senza quella gioia che mi dava, senza la sensazione di essere speciale.
Tuttavia, non ero quel genere di persona che aveva bisogno di essere salvata; se avessi dovuto togliermi da una situazione sgradevole, l'avrei fatto da sola.
"Andate, andate," ci ordinò Carminia, indicando la porta. Noi ci alzammo in fretta, abbandonando le nostre postazioni per uscire dalle stanze della regina. Stavo già riflettendo su come uscire dal palazzo senza essere notata, e sopratutto quale imbarcazione prendere per tornare al porto, quando mi sentii chiamare.
"Ateniese."
Mi ci vollero un paio di secondi in più per girarmi, non essendo abituata a rispondere a quell'appellativo. Era Cleopatra stessa ad aver parlato. "Sì?"
"Che la Fortuna ti assista, nella vita," disse, lo sguardo acuto, come se in qualche modo avesse saputo che non mi avrebbe più rivista.
Chinai il capo, consapevole del privilegio che mi era stato concesso nel conoscerla, e del suo triste ma glorioso destino.
Uscii dalla stanza senza guardarmi indietro, a passo veloce. Le ragazze aggrottarono la fronte nel vedermi separarmi da loro, ma non me ne curai troppo. Mentre la despota ci aveva condotte in quell'ala del palazzo, avevo cercato di memorizzare il più possibile il percorso, in modo da non essere in difficoltà nel ricercare un'uscita - e i miei sforzi furono ricompensati, perché facilmente individuai i corridoi che mi avrebbero riportata al piccolo porto dell'isola.
Con la testa bassa per non farmi notare sfilai tra lo sciame di servitori che entravano e uscivano dalle cucine e dalle stanze, con lenzuola e vassoi colmi di cibo. C'erano troppe persone perché potessero notarmi o fermarmi, e poi, da quel che avevo visto, per le ragazze essere le ancelle di Cleopatra era un grande onore, non qualcosa da cui scappare. Con il cuore in gola mi avviai verso l'ala a sud del palazzo, dalla quale, seguendo la logica, sarei dovuta sbucare nelle caotiche vie che avrebbero portato alla spiaggia. Quanto avrei voluto sapermi Materializzare, in quel frangente.
Speravo vivamente che Julian avesse avuto il buonsenso di non muoversi dal punto in cui ci eravamo lasciati, altrimenti non l'avrei più ritrovato. Certo, potevo sempre tornarmene a casa per conto mio, ma non volevo farlo. Non l'avrei abbandonato, come lui, credevo, non aveva abbandonato me.
Girato l'angolo, andai a sbattere contro qualcosa che con un rantolo di sorpresa mi fece finire per terra. Subito quella figura che mi aveva fatta cadere si chinò su di me e mi tese una mano per aiutarmi a rialzarmi, e io potei osservarla bene. In realtà, c'era poco da osservare: era vestita come un beduino nel bel mezzo di una tempesta di sabbia, con ogni centimetro di pelle coperta da strati di tessuto, anche il volto, fatta eccezione per gli occhi.
Rimasi attonita nel vedere le iridi azzurre, un colore sconosciuto ma dal taglio familiare, che tuttavia non riuscivo a riconoscere. La sua mano, ancora sul mio braccio, si ritirò velocemente, e con un cenno del capo scomparve alle mie spalle.
A quel punto ero consapevole di avere, fondamentalmente, due opzioni: procedere in avanti, giungere al porto, trovare Julian e andarmene, oppure seguire quella persona misteriosa e capire perché mi sembrava di conoscerla. La curiosità ereditata dai miei genitori, che mi aveva procurato già più di qualche guaio, prevalse sul buonsenso, e mi ritrovai a percorrere a ritroso la strada da cui ero venuta, stando bene attenta a non incontrare le ancelle di Cleopatra, lei stessa oppure Carminia, che mi avrebbe afferrata per la collottola come una leonessa e riportata con la forza con le altre ragazze.
La figura era veloce, nonostante fosse piuttosto alta e piazzata, ed evitava con maestria la moltitudine di persone indaffarate che le andavano incontro. Probabilmente tutto quel teatrino che stavo costruendo era inutile, e stavo perdendo solo il mio tempo - tra l'altro, io e Julian ci saremmo dovuti sbrigare per assistere in tempo alla partita tra Tassorosso e Corvonero - però sapevo che non mi sarei permessa di andarmene senza prima avere sufficienti informazioni. Anche perché, se c'era una cosa che avevo imparato da tutta la situazione del Lord Protettore, era che anche il minimo dettaglio poteva importare; potevamo non avere più quel problema, ma ciò non significava che fossimo completamente al sicuro, e che lo saremmo stati sempre.
La figura fece ben presto a mimetizzarsi tra la gente, incurvando le spalle fino a diventare, quasi, più piccola, e le tuniche, dello stesso colore delle pareti, di certo non rendevano più semplice il mio tentativo di seguirla. Alla fine, quando svoltai un corridoio deserto, vidi il tizio sconosciuto guardarsi intorno. Non potevo dire che l'avesse fatto nervosamente, ma si sincerò di farlo più volte prima di entrare in una stanza a parte. Io attesi, con il sangue gelido nelle vene, diversi lunghi instanti prima di abbandonare l'angolo in cui ero nascosta per raggiungere l'ingresso della sala in cui era sparito.
"Perché ci hai messo così tanto?" stava ringhiando una voce bassa che mi solleticò la memoria. Mi sembrava di conoscerla, anche qui, ma era distorta, come se coperta, soffocata, e tetra. Com'era possibile? A rigor di logica, doveva appartenere alla seconda persona, non a quella che avevo seguito. Eppure, avevo la stessa impressione anche di lui. Erano entrambi familiari.
"Ho avuto un contrattempo," rispose un'altra, del tutto sconosciuta. Ancora, non capii cosa stava succedendo: avevo familiarità con gli occhi di uno ma non con la sua voce, e dell'altro riconoscevo quest'ultima ma non sapevo chi fosse?, "Non sono io che ho scelto il fottuto Antico Egitto per incontrarci."
Sentii uno sbuffo. "Non ti azzardare a parlarmi così. Ricordati quello che io posso farti—"
"Mi hai già ricattato abbastanza," replicò, scattante, l'altro. "Che altro vuoi da me?"
Una risatina, fredda, da accapponare la pelle, si diffuse nell'aria. Sconcertata, ma anche con una sorta di tetra soddisfazione, notai che stavano parlando inglese. Allora avevo ragione. Qualcosa non andava. Che fosse collegato con la figura che avevo visto settimane prima al margine della Foresta Proibita, mentre Caleb e Shacklebolt parlavano nell'Ufficio della Preside?
"Voglio sapere come sta procedendo," sbottò la voce familiare. "Il ragazzino mi dice che ci sta riuscendo, ma non so quanto sia affidabile. L'intero piano si basa su di lui, e lo odio. Insieme sono tutti troppo forti per noi."
Sentii un sospiro. "Ci sta riuscendo," fu tutto quello che disse l'altro.
"Bene," una nota di sollievo.
"Quando sarete pronti?"
"Mi serve ancora tempo. Sai che non è una cosa facile," aggiunse, piuttosto nervoso.
"Non mi interessa quello che fai," fu la replica, tagliente come la lama di un coltello. "Per quanto mi riguarda, spero che questo tuo progetto da psicopatico vada in fumo. Solo perché non posso fare nulla adesso—"
Un'altra risata, se possibile ancora più cattiva, fese l'aria. "Tu non potrai mai fare niente, e lo sai benissimo. Nemmeno quando sarà tutto pronto, anzi, specialmente allora... e questo perché sei un vigliacco."
"Non sono un vigliacco," sbottò cupo l'interlocutore, "la mia famiglia—"
"Sì, sì, basta con le spiegazioni," venne fermato, "volevo solo sapere come procedesse il ragazzino. Spero tu abbia fatto la tua parte."
Un ringhio. "L'ho fatta, e non ne vado fiero. Adesso non voglio più sentirti nominare, tantomeno vedere."
L'altro ghignò. "Credo che non avrai questo privilegio."
Un attimo di silenzio, poi un rumore forte, che mi fece sobbalzare. "Avevi detto che mi avresti lasciato in pace!" gridò, fuori di sé, la voce sconosciuta. "Non ho intenzione di tradire di nuovo chi amo, hai capito bene?"
"Potresti non avere scelta," fu la risposta, secca ma strozzata - immaginai che l'altro tizio fosse stato sbattuto al muro, a giudicare dal rumore, e che adesso avesse qualcosa al collo, una mano forse, che gli impediva di respirare correttamente. "Io so il tuo segreto, e se ne avrò bisogno lo sfrutterò."
"Mi fai schifo," ribatté sprezzante il primo. "Se solo quel tuo odioso tirapiedi non ci avesse spiati..."
"Sa essere utile," ridacchiò il ricattatore. "E ora sparisci. Sarò io a farmi sentire, e fidati, questo avverrà molto presto."
Sgranai gli occhi quando mi resi conto che stava congedando il simil-beduino incappucciato, e per questo mi allontanai rapidamente dalla stanza, sperando di non essere vista né sentita. Il lieve tendaggio che sostituiva la porta moderna non avrebbe rallentato chi stava per uscire, e per questo mi affrettai ad andarmene.
Ma ci sarebbe mai stato un momento in cui la fortuna sarebbe stata dalla mia parte? Forse Cleopatra con il suo augurio mi aveva portato ancora più sventura, perché mi sentii strattonare per un braccio, e venni spinta contro il muro senza troppe cerimonie.
Era lo stesso tizio incappucciato di poco prima, quello che mi aveva fatta cadere per terra. Mi fissò con quello sguardo profondo, conosciuto nonostante il colore delle iridi fosse diverso da quello di chiunque altro. Ancora non ero riuscita bene ad associare a lui uno dei due interlocutori della conversazione, ma lo riuscii a fare appena aprì bocca.
"Sei stupida, forse? Quello che stai facendo è pericoloso. Lui è pericoloso," latrò sottovoce, guardandosi alle spalle per assicurarsi che nessuno spuntasse nei paraggi. Era quello che stava venendo ricattato, era la voce misteriosa. Ero certa di sapere chi fosse lui, anche se non mi era chiaro adesso, ma la sua parlata non l'avevo mai sentita.
"Chi è?" chiesi, confusa. "E chi sei tu?"
"Non può vederti qui, o ti farà del male," disse tra sé, ignorando le mie domande. "Devi andartene. Torna a casa."
"Ma—"
"Vattene, prima che cambi idea," esclamò con un cenno di disperazione, e io, nonostante avessi mille domande da fargli - oltre la questione della sua identità, che rapporto avesse con quell'altro uomo, in che guaio fossi, perché mi stava aiutando, e via dicendo, - decisi di prestargli ascolto. Non sapevo se l'avrei rivisto, ma avevo capito che mi stava facendo un gran favore, se non salvarmi la vita, e gli ero del tutto riconoscente.
^^
"Corri!"
Una sincera risata gli scosse il petto. "Sto già correndo, Cap."
"Corri più veloce!"
Non vedevo l'ora di arrivare al Campo di Quidditch; e dai cori da stadio che si riverberavano nell'aria, già udibili dal Giardino, la partita doveva essere già iniziata.
Con la mano di Julian stretta nella mia mi cimentai in quella corsa disperata, con l'ansia di giungere troppo in ritardo. Era tutto accaduto troppo velocemente per avere il tempo di rifletterci con cura: appena quello sconosciuto mi aveva lasciata andare, e io ero scappata, avevo raggiunto il piccolo porto dell'isola appena in tempo per salire su un'imbarcazione che si occupava di fare rifornimenti in città per l'evento di quella sera. Da un lato mi dispiaceva perdermi l'incontro che avrebbe segnato la storia d'amore più celebre del mondo, e le sorti dell'intero mondo conosciuto allora, ma ero anche contenta di tornare a casa. Avevo trovato Julian mentre stava discutendo con il capitano di una barca che si rifiutava di portarlo all'isola di Antirodi, ed ero stata così felice di rivederlo che gli avevo gettato le braccia al collo senza pensarci due volte.
Eravamo tornati subito a casa; avremmo potuto farci un giro di Alessandria, vedere la Biblioteca, il Museo, il faro, ma ad entrambi era passata la voglia di starcene a spasso. Quando eravamo risbucati nei sotterranei di M.A.E.S.T.À., avevamo scoperto che erano quasi le sei e mezza di sera, e questo ci rendeva in ritardo per la partita di Quidditch. Benché non giocassimo né noi, né i Serpeverde, il vincitore si sarebbe sfidato con i Grifondoro per il titolo di Campione, e a seconda del suo punteggio avrei capito con quanto avremmo dovuto vincere noi per battere i Serpeverde e vincere la Coppa.
"Non credo che saremmo di alcun aiuto se cadiamo e ci rompiamo una gamba," notò divertito Julian, mentre io lo tiravo con tutto il mio peso per far sì che camminasse più velocemente. La sua presenza, che in quegli ultimi giorni aveva fatto da toccasana per il mio spirito malconcio, adesso mi faceva ridere e irritare al contempo.
"Sbrigati!" ribattei io, aggrappandomi alla manica del suo maglione. "I posti finiranno, e non troveremo mai Izzy e gli altri così..."
"Sarebbe una cosa brutta?" chiese lui, mentre finalmente sbucammo sul sentiero che portava al campo. Ormai i cori erano talmente forti che a malapena sentivamo la nostra stessa voce.
Mi voltai a guardarlo, con le sopracciglia alzate. "Non vuoi stare con loro?"
"Non mi riferivo ai tuoi amici, benché non sia entusiasta di stare gomito a gomito con Malfoy," rispose, con una smorfia. "Stavo dicendo insomma, sono tutti alla partita. Avremmo la Sala Comune per noi."
Arrossii vistosamente. Non l'aveva detto, ma credevo che ci fosse dietro una proposta più intima di quanto sembrasse. "Possiamo comunque stare da soli," proferii, non volendo rinunciare alla partita. "Dopo, magari."
"Certo," disse lui, sorridente. "Andiamo."
Non fu così difficile individuare i miei amici tra la folla, sia perché erano seduti ai soliti posti, vicino al commentatore - Kyle Jordan, per fortuna, aveva ripreso la sua occupazione, e la McGranitt era stata più che contenta di non richiamare Dave - sia perché i ragazzi di Serpeverde, che indossavano il colore verde, risaltavano come lucciole in un mare rosso e oro. Erano infatti accomodati nella sezione storicamente occupata dai Grifondoro, e notai, con piacere, che anche Troy, i gemelli e Simon si erano sistemati vicino a Izzy, Albus e gli altri.
Poi vidi, raccapricciata, che gli unici due posti liberi erano accanto a lui e Noah, e imprecai sottovoce. "Rose!" si stava sbracciando Livia, l'unica che mi aveva vista in piedi alla fine della panca. "Vieni, vi abbiamo fatto spazio."
"Che gioia," borbottò tra i denti Julian, anche lui poco felice. Gli diedi una leggera gomitata e con un sorriso stampato in volto risalii la panca fino a giungere al mio posto. Il biondo era seduto dritto come un fuso, con le spalle rigide e il mento alto, gli occhi fissi sulla partita. Ero consapevole del fatto che con lui vicino non avrei mai prestato la giusta attenzione al gioco, ma pur di averlo nel raggio di mezzo metro avrei fatto qualsiasi cosa.
Vidi Izzy sorridermi, e alzò i pollici nella mia direzione; sicuramente era stata quella psicopatica a disporci in quella maniera. Ancora non si rassegnava, beata lei.
Quando mi sedetti sul legno, freddo e impregnato di umidità, mi accorsi che eravamo così compressi che le nostre gambe erano a contatto, e così le spalle. Deglutii nervosamente. Non stavamo così vicini da un mese, ma mi sembrava una vera infinità. Mi mancava come l'aria.
Azzardai un'occhiata nella sua direzione, e sobbalzai nel vedere che i suoi occhi erano già su di me; toccandoci in quel modo, lui se ne accorse perfettamente, e lo spettro di un minuscolo sorriso prese forma sul suo volto nello spostare lo sguardo di nuovo sulla partita.
Da quando lui ci era sfilato davanti, sulla porta della Sala Grande, le cose si erano raffreddate ancora di più. Ormai vederlo non mi faceva più solo male, ma mi provocava anche una nostalgia infinita, e mi ritrovavo, in ogni situazione, a pensare a piccoli momenti che avevamo condiviso. Quando si era iniziata a sciogliere la neve nel parco, a quando ci eravamo rincorsi e baciati per tutto il pomeriggio; quando mi aveva presa da parte prima della sua partita di Quidditch; al meraviglioso Giardino Botanico e al campo di girasoli; alla serata trascorsa a Londra per il nostro primo mese.
E pensare che adesso era tutto così diverso tra noi, così orrendo. Lui si era stancato, aveva capito che non era fatto per una relazione stabile, che non era fatto per me, e il gelo era sceso sul nostro legame. Tutto quel che avevamo vissuto era come ricoperto da una patina di sofferenza e disagio e malinconia. Averlo così vicino non faceva che aumentare il senso di rimpianto e tristezza che già provavo, nel saperlo fisicamente prossimo, ma emotivamente molto più lontano.
"Guarda Zack Smith," mi disse all'orecchio Julian, distraendomi dal pensare al biondo seduto dall'altro mio lato. "E dimmi se noti qualcosa di diverso."
Confusa e incuriosita, rivolsi la mia attenzione al giocatore di Tassorosso, e mi lasciai sfuggire una risata stupefatta nel vedere una coda d'asino spuntare dal suo fondoschiena. "Ma che diavolo..." mormorai, chinandomi in avanti per vedere meglio. Sì, era proprio una coda d'asino, lunga e ricoperta di pelo grigio e nero. Mi ricordò i racconti di zio Harry e sul primo incontro tra Hagrid e lo zio di Albus, Dudley.
"La fidanzata di Zack deve aver saputo della sua scappatella con la sua compagna di squadra," ghignò Julian, facendomi ridere ancora più forte.
Mi voltai verso di lui. "Ci pensi che—"
La situazione degenerò in un battito di ciglia. Nemmeno il tempo di girare il capo, e la mano di Julian si infilò abilmente tra i miei capelli. Io ebbi solo modo di sgranare gli occhi prima che le sue labbra si posassero delicate sulle mie.
I secondi si dilatarono, e mi parvero anni; la bocca del ragazzo era calda e sicura sulla mia, l'altra mano sulla mia schiena, e il rumore svanì dalla mia testa, nella quale non c'era spazio che non fosse dedicato alla sorpresa, all'affetto per lui, alla stupefacente realizzazione che non mi dispiaceva.
Avrei rifiutato senza pensarci due volte chiunque altro si fosse avvicinato a me, ma Julian era diverso. Avevo imparato ad accettarlo, a comprenderlo, a volergli bene. Era una bella persona, e sentire quelle emozioni mi sconcertò. Non avevo idea se per lo sbigottimento di quel bacio inaspettato oppure per il piacere che mi stava dando, non trovai la forza necessaria a ritirarmi.
Fui lui a farlo, con un sorriso luminoso come il Sole. "Scusa," disse, gli occhi accesi e le guance rosse, "eri troppo bella per non farlo."
Anche qui, non ci fu tempo per replicare, perché sentii uno spostamento dall'altro mio lato, e Scorpius Malfoy, alzatosi, mi rivolse la più sprezzante delle occhiate. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi notò il mio collo, lasciato nudo dalla sciarpa che Julian aveva inavvertitamente spostato, e vide la peggiore delle cose - che mancava il ciondolo di Astoria.
Senza parlare, tese la mano.
"Scorpius..." provai a dire, già con le lacrime agli occhi. Non poteva riprenderselo. Era l'unica cosa che mi restava di lui, l'unica cosa che non mi faceva dimenticare che aveva provato amore nei miei confronti.
"No, Rose," replicò, disgustato. "Dammelo, se non l'hai buttato."
"Certo che non l'ho buttato, come puoi pensare—"
"Ridammelo, allora. Così ti lascerò alle tue smancerie," aggiunse, ferito, arrabbiato, sdegnoso.
Un singhiozzo mi fece tremare il petto, e l'ultimo pezzo del mio cuore che non si era ancora sbriciolato si frantumò nel prendere il ciondolo dalla tasca del mantello e nel restituirglielo. Le lacrime mi fecero bruciare gli occhi quando le sue dita si strinsero attorno alla catenina, e con il volto contratto in una maschera di repulsione si allontanò, mettendo fine una volta per tutte a ciò che c'era stato tra noi.
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