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73 - 𝐷𝑟𝑎𝑔 𝑚𝑒 𝑑𝑜𝑤𝑛

{I confronti, quelli costruttivi}

^^

Lo stomaco mi si era serrato come se qualcuno lo avesse afferrato tra le dita, e lo stesse stringendo con forza, fino a farlo scoppiare. Cercai di spazzarmi con la mano il velo di sudore freddo che mi ricopriva il retro del collo, e mi passai i palmi sulla divisa della scuola, per levare ogni singola traccia di spiegazzatura dal tessuto.

La me riflessa nello specchio mi restituì un'espressione a dir poco nervosa: era verde in viso, e sembrava sul punto di rigettare persino lo scarno pasto del giorno precedente.

Occhiaie violacee? C'erano. Mani che tremavano? Sì. Freddo in ogni parte del corpo? Eccome.

L'unica cosa positiva era che lui non c'era, e, a sentire i tentativi di rincuorarmi di Albus e Noah, non ci sarebbe stato per almeno due giorni di fila. Non avevo capito bene il perché - la cosa importante era che Draco non stesse male, ma c'entrava con dei visitatori dagli Stati Uniti, che avrebbero dovuto ospitare per questioni burocratiche e politiche a Malfoy Manor al fine di svolgere delle pratiche di collaborazione estera. Comunque, poco mi interessava. Se avessi dovuto tenere fede alla promessa fatta a Lily la sera prima, che mi era valsa una notte d'insonnia e fame nervosa, allora tanto valeva farlo quando non era nei paraggi, per riacquisire almeno un po' di confidenza con i miei amici e il Castello.

"Andrà tutto bene," sentii le mani di Izzy posarsi sulle mie spalle, e la testa spuntò nel riflesso dello specchio accanto alla mia. I suoi occhi trasmettevano energia positiva, esattamente ciò che mi serviva al momento. "È un grande passo avanti, è vero. Fa paura. Però non sei sola, e fidati che sarai contenta di averlo fatto. Non ti mancano le ronde, il Quidditch, le lezioni, le feste?"

Sospirai, affranta. "Certo che mi mancano, ma sono tutte cose che facevo con lui."

Izzy posò la fronte sulla mia spalla. "Lo so, lo so, Rose. Devi pensare d'altronde che sono cose che tu facevi già per conto tuo, e ben prima di lui. Sarà dura, ma devi provare ad associare tutto questo alla tua vecchia vita, al tempo in cui non ne faceva ancora parte."

Un pensiero mi stuzzicò l'angolo più remoto della mente. Mi voltai, ritrovandomi faccia a faccia con la mia amica. "Perché ieri sera hai votato contro Lily?" chiesi, sentendo la tensione accumularsi rapidamente di fronte lo scorrere del tempo. "Perché hai pensato che farmi uscire di qui non fosse la scelta più giusta, se poi adesso mi stai dicendo che è la strada migliore?"

Isabelle non era persona da giri di parole. Riflessi nei suoi occhi scuri si potevano distinguere ogni ragionamento, ogni opinione, ogni stato d'animo. Qualsiasi cosa pensasse, a patto di non creare dolore o confusione o litigi inutili, era disposta a condividerla. Semplicemente, non era tipo da fare buon viso a cattivo gioco, e mi piaceva questa parte di lei.

"Perché io lo so che è quello che dovresti fare," rispose, seria. "So che è quello che ti farà stare meglio, ma a lungo andare. Ho paura che questo cambiamento così brusco possa farti sentire peggio di quanto tu stia ora."

"Ne ho paura anch'io," confermai, abbassando gli occhi sulle mie mani, ficcate in tasca. "Però lui adesso non c'è. È l'occasione giusta per riprendere la mano con tutto il resto."

Izzy annuì. "Certo, hai ragione. Sei pronta?"

"Non credo che lo sarò mai," replicai, sincera, "ma da qualche parte dovrò pure cominciare, no?"

Lasciammo il rifugio sicuro costituito dal nostro caro dormitorio. Giù, nella Sala Comune, era schierato un piccolo esercito di persone che chiacchierava tra di loro: non i miei amici, pronti a supportarmi nel compiere quel passo così importante, ma tutti gli altri Grifondoro - i componenti della mia squadra, Julian e i ragazzi, e via dicendo - che erano più che altro curiosi di vedere se mi fossi ripresa dalla mia presunta malattia. Mi sentivo un po' come un fenomeno da baraccone, ma quella era una sensazione con cui convivevo da tanto tempo, e vi ero ormai abituata. Il che era abbastanza triste, a pensarci bene.

Mi sentii a disagio, però, nel notare che nessuno stava dicendo nulla - semplicemente, mi fissavano. Come se davvero stessero guardando una tigre in un circo in attesa che facesse il suo numero. Cercai Albus, Hugo, i ragazzi, ma a parte Izzy al mio fianco non c'era nessuno che mi potesse rassicurare. Quel momento sembrò protrarsi in eterno, finché non intervenne Julian.

Lasciò il suo gruppo di amici, che continuavano a fissarmi come se mi fosse spuntato un tentacolo in fronte, soprattutto Troy, e con un sorriso smagliante si diresse verso di me. Credevo che si sarebbe fermato a pochi passi di distanza, mi avrebbe detto qualcosa di divertente per stemperare la tensione, e invece mi prese fra le braccia, e mi tenne premuta contro il suo petto, con foga. Il suo odore era poco familiare, ma non per questo cattivo. Sapeva di legno di cipresso, di champagne, di tè al gelsomino, con una nota di menta. Mi resi improvvisamente conto di quanto il contatto umano mi fosse mancato, e, sì, dovevo ammetterlo, anche di quanto mi fosse mancato Julian.

Non l'avrei creduto possibile, insomma, non eravamo così grandi amici, e c'era sempre un sottile imbarazzo da parte mia nel sapere che lui aveva una cotta per me; però dopo due settimane era forse la persona, esclusi i miei amici e parenti, che avevo provato più dispiacere nel non vedere. Per questo, e, ancora, non me lo sarei mai aspettata, fu quasi naturale per me cingergli a mia volta il torace, e posare il viso nella lana del suo maglione. Un maglione dei Grifondoro, un maglione non verde, ma rosso. E mi sentii bene, talmente bene che chiusi gli occhi, sperando che quell'attimo potesse prolungarsi il più possibile. Julian era passato dall'essere un semplice compagno di Casa e di Quidditch ad uno degli amici cui tenevo di più ad Hogwarts, e, stranamente, ne ero contenta.

Accostò le labbra al mio orecchio, sfregando il naso contro i miei capelli. "Mi sei mancata, Rose."

Sarebbe dovuto essere un campanello d'allarme il fatto che mi aveva chiamata per nome, invece che con il solito nomignolo? Forse. E mi sarei dovuta imbarazzare di come tutta la Sala Comune stesse assistendo a quella scena che per certi versi era molto intima? Probabile. Eppure, dopo settimane di reclusione non potevo essere più grata della sua presenza, di come non avesse esitato un singolo istante nel venirmi incontro, nonostante io fossi sparita dalla circolazione.

"Anche tu mi sei mancato," sospirai, la voce attutita dal suo maglione.

Magari come avevo perso qualcuno avevo guadagnato qualcun altro.

Julian sciolse la presa e mi afferrò la mano, rivolgendomi un sorriso così puro che, contro ogni aspettativa, fu istintivo per me alzare un angolo della bocca in risposta. Poi si voltò e mi iniziò a trascinare verso la folla, che si era improvvisamente animata e sorrideva e mi chiamava per fare due chiacchiere.

L'ultima cosa che vidi prima di essere circondata da così tanta gente che mi fu difficile persino essere salda sui piedi, fu lo sguardo di Isabelle. Non mi ero dimenticata di come facesse apertamente il tifo per lui, di come avesse spinto perché mi ci mettessi insieme, e per questo mi sarei aspettata di vedere, al massimo, della delusione sul suo volto - forse a causa dell'amara constatazione della fine della nostra relazione; invece era sospettosa, diffidente, e non poco nervosa. E soprattutto, questo mi colpì, non stava guardando me in quel modo, ma Julian.

^^

"Come ti senti?" mi disse Albus, con fare premuroso.

Mi aveva fatto la stessa domanda almeno cinque volte nel giro di tre minuti, e sessanta se consideravamo l'intero arco della giornata. Posai il cucchiaio nella zuppa calda con fare esasperato. "Al, ti prego!"

"Sono solo preoccupato per te," mi rimproverò, infilzando con rabbia una patata arrosto. "Posso esserlo, ne ho tutto il diritto, sai."

La pausa pranzo era iniziata da venti minuti, e io mi sentivo stremata. Non solo perché non ero più abituata al ritmo frenetico delle lezioni e, in generale, della vita al Castello, ma perché non c'era un singolo essere vivente in tutta Hogwarts che, non appena mi aveva vista, non mi avesse puntata come un leone con la sua preda. Avevo trascorso le ore a inventarmi i sintomi di una malattia che non esisteva, a sorbirmi i discorsi preoccupati di ogni professore, specialmente di Neville e Hagrid - tranne Teddy, lui non mi si era nemmeno avvicinato - e, ancora, a rispondere alle solite domande su come stessi, che cosa avessi fatto, se potessi aiutare qualcuno con i compiti, sugli incontri di Quidditch, e io non ce la facevo più.

Dovevo dire che la mia popolarità mi piaceva, mi faceva sentire amata e apprezzata, ma non quando persino i quadri mi fermavano per farsi i fatti miei. Pensare che erano passate a malapena cinque ore!

L'unica cosa davvero positiva era il fatto che Malfoy, come preannunciato dai miei amici il giorno precedente, non si era fatto vedere. Il suo banco vuoto continuava a darmi una stretta allo stomaco ogni volta, e così il cercare automaticamente il suo sguardo per poi accorgermi che non solamente era assente, ma anche che, pure se fosse stato presente, non era più un mio diritto farlo. Per quanto mi mancasse però, ero consapevole del fatto che non sarei mai riuscita ad affrontare quella giornata così piena e caotica se ci fosse stato lui in giro, a distrarmi e farmi sentire male.

"Dacci un taglio, Al," sbottò Noah, "mi sono stufato persino io di starti a sentire."

"Pensa un po'," replicò Livia, nervosa e sarcastica, "allora devi proprio aver esagerato, Albus."

Noah si girò verso la sua ragazza, irato. "E con questo cosa vorresti dire?"

"Che tu ci ammorbi dalla mattina alla sera con le tue stronzate, quindi se lui vuole chiedere a Rose come sta, ben venga!" fu la risposta piccata e velenosa di Livia, e tra tutti e due sembravano sull'orlo di un attacco di nervi.

Io e Izzy ci scambiammo un'occhiata perplessa. "Credevo che sarei stata io quella irritabile, oggi," dissi tranquillamente, soffiando sulla zuppa fumante.

Era strano. La storia di Noah e Livia sembrava andare di pari passo con quella mia e dell'altro. Quando eravamo tornati a scuola dalle vacanze di Natale, avevano avuto problemi seri, e neanche avevano il minimo contatto dal punto di vista fisico; poi, quando io e lui ci eravamo messi insieme, avevano avuto anche loro un mese di pausa, in cui erano parsi sereni come non mai. E adesso, questo. A volte non potevo fare a meno di pensare che se dovevano litigare così dalla mattina alla sera, tanto valeva che si lasciassero.

Quella conversazione fu stroncata dall'arrivo della Preside, per fortuna. Era seguita da Julian e Teddy, un'accoppiata delle più inusuali. Il primo aveva un'aria rilassata, e mi rivolse l'ennesimo sorriso, cui replicai subito, mentre il secondo aveva lo sguardo basso e le mani in tasca, la schiena ricurva. La McGranitt, come avevo sospettato, si fermò proprio davanti a me, seduta tra Izzy e Lily. Altissima, austera e severa come al solito, aveva una ruga a inciderle la fronte, e lo sguardo verde scuro inflessibile.

"Signorina Weasley, mi rincresce interrompere la sua pausa pranzo," esordì, "ma la devo pregare di seguirmi."

Mi alzai senza fare storie, sebbene lo stomaco mi gridasse di non abbandonare quella buonissima zuppa intatta. Fatemi un panino, mimai con la bocca alle mie due amiche, e Izzy e Lily annuirono, divertite dalla mia fame perpetua. Seguii quel trio arrangiato fuori dalla Sala Grande, e la Preside imboccò le scale, segno che stavamo andando nel suo Ufficio, al settimo piano.

Avrei voluto rallentare per chiedere a Julian che cosa stesse succedendo, oppure a Teddy perché diavolo non mi stesse rivolgendo la parola, bensì continuasse a fissare il pavimento, ma l'ex-professoressa non fu della stessa idea.

"Come sta, signorina?" domandò, gentile. Ogni volta che parlavamo quando non eravamo sotto lo sguardo di tutti, si scioglieva sempre un poco. "Finalmente sta abbastanza bene da riprendere le lezioni."

Aveva parlato con tono strano, indefinibile. Che sapesse che non ero stata davvero male?

"Mi sono mancate le lezioni," affermai, cercando di mantenermi sul vago, per non fare la figuraccia di mentirle in modo spudorato qualora avesse saputo della mia bugia.

"Ne sono contenta," replicò, tenendosi la gonna del vestito tra indice e pollice per non farla strusciare sui gradini delle scale. Che fiato aveva, per una persona della sua età. "Sa," riprese, "questo è uno dei motivi per cui ci stiamo incontrando, adesso."

Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra del quinto piano, e vidi alcuni giocatori di Corvonero allenarsi in vista del prossimo scontro con i Tassorosso. "Cioè?"

"Vedrà."

Il resto del percorso lo passammo in silenzio, io cercando di non far notare che avevo il respiro corto come se avessi fatto una maratona. Il nostro improbabile quartetto superò il gargoyle di guardia, le scale a chiocciola, e finalmente spuntammo nella Presidenza. Tutte le volte in cui ero stata in quella stanza, dall'inizio di quel rocambolesco anno scolastico, era stato in compagnia sua, dalle dosi della Pozione Vulnerante al risveglio degli insegnanti dopo l'incantesimo soporifero di Caleb, fino all'incontro tra lui e suo padre, il Ministro. Mi faceva strano, adesso, non averlo al mio fianco.

Mi faceva strano sapere che si era stufato di me.

In cima, dietro una lucida porta di quercia con il batacchio a forma di grifone, c'era il famoso Ufficio. Era una stanza circolare, grande e bella, solitamente ricca di rumorini strani. Su alcuni tavoli dalle gambe lunghe e sottili, avvolti in nuvolette di fumo, erano posati molti curiosi strumenti d'argento. Le pareti erano ricoperte di ritratti di vecchi e vecchie Presidi, garbatamente appisolati nelle loro cornici, e di scaffali con vecchi libri ed altri oggetti, come il Cappello Parlante e una teca di vetro, dietro la quale era riposta la spada di Godric Grifondoro. Al centro c'era un enorme scrivania con le zampe ad artiglio. Su una parete c'era un grosso armadio nero, mentre su un'altra un camino, collegato alla Metropolvere. C'erano anche delle finestre, dalle quali si potevano vedere le montagne che circondavano Hogwarts e il campo di Quidditch. La ritenevo una delle stanze più belle dell'intero Castello, e immaginavo avere la possibilità di passare là dentro, con la luce tiepida che illuminava l'ambiente, un bel libro e una coperta calda sulle gambe. Ci sarei stata le ore.

"Prego, accomodatevi," la McGranitt fece segno di sedersi, e io, Teddy e Julian la assecondammo senza battere ciglio.

Lei si sistemò davanti a noi, sulla grossa poltrona in velluto color vinaccia, e posò i gomiti sul ripiano della scrivania, intrecciando le dita nodose davanti a sé.

"Lei è qui per due motivi, signorina," iniziò la Preside, fissandomi dritta negli occhi. "La prima, è che, per quanto sia diligente e studiosa, ha comunque perso molteplici lezioni, che gli appunti dei suoi amici non possono compensare. Per questo," proseguì, indicando con un lieve cenno del mento Teddy accanto a me, "mi sono personalmente occupata di incaricare il professor Lupin di aiutarla a recuperare ciò che si è persa."

Lanciai un'occhiata a Teddy, i capelli verde rame e gli occhi fissi sulle dita, che stringevano le proprie gambe. Ma perché era così nervoso? Mi rifiutavo di credere che la situazione che aveva con James impattasse così tanto anche sul rapporto che aveva con tutti noi. Albus mi aveva detto che a lezione non gli aveva rivolto parola, né domandato nemmeno una volta come stessi, il che era impensabile, soprattutto considerando che eravamo parte della stessa famiglia e che perciò eravamo cresciuti insieme.

Non capivo il motivo per cui da quando lui era diventato professore ad Hogwarts, allora avesse tranciato le due relazioni con chiunque altro. Non si sentiva solo, essendosi auto-escluso dal nostro gruppo? Avendo allontanato chi gli voleva bene più di chiunque altro?

"A me va bene," risposi seccamente, senza far capirgli capire che il suo essere così chiuso e passivo non mi toccava minimamente. Avevo cercato più volte di venirgli incontro, mi ricordavo bene di come mi avesse cacciata il giorno della festa in Sala Grande, e lui non si era nemmeno degnato di sincerarsi che stessi bene mentre ero in isolamento nel mio dormitorio. Di sicuro, poi, non avevo una gran bella faccia, si dovevano vedere la stanchezza e la tristezza e la rabbia e la confusione e tutti quegli orribili sentimenti che mi animavano, quindi non volevo preoccuparmi di qualcuno che a sua volta non si preoccupava per me.

Anche se restava pur sempre Teddy...

Avrei voluto avere il coraggio di chiedere: ma lui è d'accordo?

E invece mi dovetti mordere la lingua come al solito, per il timore di sembrare impertinente, di metterlo in difficoltà, di ricevere una risposta negativa, di provare ancora più malessere. 

"Allora ecco per entrambi una scheda con su scritti gli orari dei vostri incontri extra," la Preside ci allungò dei pezzi squadrati di pergamena. Era stata attenta: nessuno di essi interferiva con i miei allenamenti di Quidditch.

Queste lezioni erano del tutto positive, per due fondamentali motivi. Il primo era che avrei avuto l'occasione, finalmente, di risolvere con lui, con il mio cugino acquisito. Più che altro, saremmo stati costretti a confrontarci, considerando che avremmo passato le successive settimane gomito a gomito. E poi... be', avrei avuto molto meno tempo libero. Tempo per vedere lui, per pensare, per deprimermi. Con la mente occupata sarei stata meglio, ne ero certa. 

"È un privilegio, questo," mi avvertì la McGranitt, quasi brusca. "Non tutti possono contare su lezioni private, signorina Weasley. E sia ben chiaro," aggiunse, "che di certo non ho organizzato tutto questo a causa delle... conoscenze, che lei ha. È solo ed esclusivamente grazie ai suoi meriti accademici, all'impegno nello sport e ai ruoli che ricopre nella scuola che non vogliamo lasciare che una malattia," e qui il suo tono non subì inflessioni, "intacchi il suo lavoro di sette anni."

Annuii. Magari aveva parlato con intenzione malevola, avvertendomi di non abusare delle mie conoscenze, come l'aveva chiamate lei, o magari mi stava solo avvertendo delle reali motivazioni dietro questa sua mobilitazione. Comunque, io ne ero solo contenta. Se lei, una grandissima donna, un'istituzione, riconosceva il mio impegno al di là del cognome, allora qualcosa di buono dovevo averlo fatto.

"Grazie, professore, può andare," Teddy venne congedato, e fu costretto ad abbandonare la sua posizione fetale per rivolgerci un breve saluto - sempre evitando accuratamente il mio sguardo - e poi uscire.

Eravamo quindi rimasti io e Julian. Stavolta fu per me possibile lanciargli un'occhiata, e lo vidi indossare un cipiglio inquieto, la bocca serrata in una linea sottile. I suoi occhi chiari erano rivolti verso la porta, nel punto in cui Teddy era sparito. Ad ogni modo, quando si accorse che lo stavo guardando, si riscosse in fretta e mi rivolse un sorriso, piccolo ma sincero.

"Dunque," la McGranitt ci stava osservando con le sopracciglia alzate, "questo mi riporta al motivo per cui siete qui. Precisamente, riguarda il ruolo di Caposcuola."

Ruolo che condividevo con lui. Avevo ben presente.

E poi la Preside, con una tranquillità inaudita, mi diede una stilettata al cuore. "Come immagino che lei sappia, il signor Malfoy mi ha chiesto di essere sollevato dall'incarico," disse, imperturbata. "Per questo—"

Ma io non la stavo più ascoltando. Non solo sentire il suo nome mi aveva dato una scossa di dolore, ma era l'informazione contenuta nelle parole della donna a farmi più soffrire.

Si era ritirato? Aveva deciso di non essere più Caposcuola, solo per non vedermi? Suonava impossibile. Se era così sereno riguardo la nostra rottura - o comunque, convinto, dato che era stato lui a lasciare me - allora perché si era sottratto alle uniche occasioni in cui saremmo stati da soli? Mi voleva così male da non volermi vedere se non sotto costrizione? Mi iniziarono a bruciare gli occhi, e affondai le unghie nei palmi delle mani, deglutendo. Non voleva avere più niente a che fare con me, niente di niente.

Mi resi conto, in un barlume di lucidità in mezzo a quel mare di dolore, che avevo in segreto covato la speranza di una... riconciliazione. Magari non ci saremmo rimessi insieme, ma non avevo mai considerata inaudita la possibilità di recuperare un minimo di rapporto. Anzi, chi volevo prendere in giro? La scorsa volta era stata proprio la ronda a riunirci, e ci eravamo messi insieme, di nuovo, ufficialmente.

E lui mi stava negando anche questo, adesso. Non voleva entrare in tentazione, non voleva avermi sotto gli occhi. Addirittura lo ripugnavo fino a quel punto? Perché? Come era arrivato fino ad odiarmi così? Meno di un mese fa mi aveva detto che mi amava...

"Rose?" mi ritrovai la mano di Julian sul braccio, stabile, e ritornai al presente. Mi accorsi del suo corpo chino sul mio, e dello sguardo perplesso della McGranitt.

"Sì, ci sono, scusate," dissi, confusa, e troppo stordita per imbarazzarmi o arrossire per la mia infelice reazione.

Mi odiava. E io lo amavo. E lui mi odiava.

La strega mi rivolse un'occhiata indagatrice, ma c'era ben poco da indagare oltre l'afflizione dipinta sul mio viso. "Comunque," riprese, "un impegno è un impegno, e io non intendo accogliere la sua richiesta. Se il problema sono i tempi delle ronde o delle varie riunioni, sono certa che il signor Malfoy troverà il suo modo per conciliare tutti gli impegni. Il Caposcuola non è un ruolo da prendere sottogamba, assolutamente. Però, come saprete il vostro compagno al momento non si trova al Castello, e questo rende necessario l'individuazione di un sostituto, che io ho trovato nel signor Walker."

Mi permisi di lasciare andare il respiro che non mi ero accorta di avere trattenuto. La Preside, inconsapevolmente, mi stava dando una seconda possibilità di rimediare. Lui era stato chiarissimo nel sottolineare che non voleva più avere nulla a che fare con me dal punto di vista romantico, ma ciò non significava che non potevamo riallacciare rapporti civili. Non solo per il bene del gruppo, ma anche perché, e soprattutto perché, io mi potevo accontentare. Una sua briciola era pur sempre meglio che rimanere a pancia vuota.

Era un ragionamento che mi avrebbe aiutata? Ovviamente no. L'unica cosa che mi avrebbe spronata ad andare avanti, a voltare pagina, sarebbe stato proprio quel taglio netto che lui aveva cercato di impartire alla nostra storia. Tuttavia, mi sentivo come una drogata. Avevo fatto troppo affidamento sulla sua presenza nella mia vita, ero dolcemente intossicata da lui, e adesso mi ritrovavo in astinenza. Pessima cosa, vero, ma avrei fatto di tutto per riacquistarne una dose. Anche obbligarlo a trascorrere del tempo con me - e qui le ronde obbligatorie mi venivano in soccorso.

E poi, nel frattempo avevo Julian. Un amico sincero, gentile, pronto a sostenermi in tutto. Avevo scoperto che in lui potevo trovare un appoggio costante, una fonte di una parvenza di serenità. Questo era il grande merito che dovevo attribuirgli: stare con lui mi permetteva di staccare la spina, di scollegare il cervello, di smetterla di pensare per poche ore al marasma di emozioni che mi sfiniva, e alla terribile situazione in cui versavo. Ad esempio, quando mi aveva portata nella Versailles di Luigi XIV... una giornata magnifica, che avrei ripetuto volentieri.

"Va—va bene," mormorai, sentendo le mani gelide dall'ansia. "Va bene."

Sarei stata con Julian durante quei due giorni, e poi avrei dovuto affrontare lui. Potevo farcela. Dovevo farcela. Non mi sarei potuta permettere di deludere tutti rintanandomi un'altra volta nel dormitorio, e uscendone tra altre due settimane. Altrimenti, come avrei fatto a diplomarmi con massimi voti?

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"Stai tranquilla, ti prego! Andrà tutto bene, risolveremo questo pasticcio, però devi calmarti," continuava a dire a ripetizione Izzy rivolta a Kalea, che stava vagando come un'anima in pena per il dormitorio, gesticolando e gridando.

"Come faremo a risolverlo? Ho fatto una cazzata, un'enorme cazzata!" si stava disperando, con le mani nei capelli - be', in quel che ne rimaneva.

Livia era abbandonata sul pavimento della nostra camera, con entrambe le mani a reggersi lo stomaco e il volto di una rara sfumatura di rosso a causa dell'insufficienza respiratoria. Le sue risate continuavano a riverberarsi per tutta la camera, profonde e sentite, e tremendamente fastidiose.

"Posso sapere che cazzo ti ridi, Livia?" gridò all'improvviso Kalea, girandosi come una furia verso l'amica che si contorceva per terra. "Ho combinato un cazzo di disastro, e tu non stai aiutando!"

Io cercai di coprirmi la bocca con la mano per evitare che la ragazza si accorgesse che anch'io stavo ridendo.

Livia puntellò i gomiti sul pavimento e sollevò il busto, le sopracciglia alzate. "Cara mia, il casino l'hai combinato tu. Quale persona dotata di buonsenso si farebbe mai la frangetta da sola? Soprattutto con dei capelli ricci come i tuoi? Era un suicidio," rimarcò, "e io te l'avevo detto, perché ho sempre ragione."

Kalea afferrò la spazzola dal ripiano della scrivania e gliela tirò contro, prendendole in pieno la coscia. "Sei un mostro, Livia Campbell."

"Felice di esserti utile," replicò quella con un ghigno.

Quando riguardai la nostra amica anglo-francese mi chiesi se non avesse combinato un disastro irreparabile. La suddetta frangetta, che aveva tagliato in un momento in cui evidentemente non c'era stata con la testa, le tagliava perfettamente a metà la fronte, facendola assomigliare al Jim Carrey di Scemo più Scemo. Un vero disastro. Pareva un paggio medievale! Senza contare che la sua chioma, come aveva evidenziato Livia, era riccissima, e per questo quel taglio risultava ancora più disorganizzato e brutto da vedere.

"Ti prego," fece, rivolta verso di me, con le mani unite a mo' di preghiera, "dimmi che esiste un incantesimo per rimettere tutto a posto. Non posso farmi vedere in giro conciata così!"

Io alzai le spalle, mettendocela tutta per non scoppiare a ridere. "Kelz, è mezzanotte passata. Anche se esistesse, e io non lo so, non possiamo andare in biblioteca. Persino con il Mantello dell'Invisibilità..." scossi la testa. "Non so cosa riusciremmo a trovare."

Kalea si nascose il viso tra le mani. "Sono fottuta."

Non volevo dirlo, ma almeno quella costituiva per me una gradita distrazione.

Isabelle batté le mani, e poi se le mise sui fianchi e alzò il mento. "In questo dormitorio non c'è spazio per la negatività," ci rimproverò, "non voglio sentire lamentele inutili. Kalea, risolveremo il tuo problema, e Rose, tenteremo di fare lo stesso con il tuo. Per quanto riguarda la natura da rompiscatole di Livia, credo che non ci sia antidoto."

"E come?" chiese Kalea, disperata, ignorando la statunitense che sul pavimento aveva ricominciato a ridere.

Izzy, la nostra salvatrice, la luce dei nostri occhi, il Sole che illuminava il mondo, si tamburellò il mento con le dita. I suoi occhi scuri fissavano intensamente la frangetta, come se con lo sguardo potesse farla ricrescere - o come se, più verosimilmente, le potesse balenare un'idea in mente che risolvesse quel guaio.

Io intanto mi chiedevo, forse con un pizzico di malignità, se l'impeto di Kalea, che l'aveva portata a recidersi quelle ciocche frontali, fosse in qualche modo legato al taglio di Lily, che portava anch'essa la frangetta.

Avrei voluto davvero concentrarmi sul problema della mia amica, aiutarla a trovare una soluzione, ma sembrava che non fossi capace di portare avanti il benché minimo ragionamento. Ogni mio pensiero era intriso di ansia, un'ansia che non mi faceva nemmeno respirare.

"Ce l'ho," fece Izzy, distraendomi di nuovo. Si avvicinò a Kalea, prese i capelli tranciati tra due dita e li tirò delicatamente verso il basso, distendendone la forma riccia. "Okay," sussurrò tra sé.

Prese la bacchetta tra le mani e sorrise allegra. "L'unico modo per rendere la frangia più lunga è farla liscia," avvertì, divertita. "Sei pronta a dire addio ai tuoi bellissimi ricci in favore di un liscio perfetto?"

Magari i miei problemi potessero essere risolti con l'effetto piastra o un colpo di bacchetta. Mentre Kalea rendeva i suoi boccoli perfetti delle tavole da stiro, e Livia ciucciava rumorosamente il suo pendente a forma di Wampus, ancora sdraiata per terra nonostante il freddo della pietra, io fissavo il vuoto con molto impegno, ascoltando i battiti del cuore che mi rimbombavano nelle orecchie.

Mancavano poche ore, quelle ore che volavano, rapite nella notte, prima che iniziasse la lezione dell'indomani. E con l'alba, il suo ritorno al Castello. E nella mia vita.

Erano passati cinque giorni, cinque giorni meravigliosi, di serenità, di pace interiore. Il suo soggiorno fuori era stato prolungato per tutta la settimana scolastica, e adesso era la notte tra il diciannove e il venti marzo, e io tremavo solo all'idea di dover mettere piede fuori dalla mia stanza.

Avevo sul serio il fegato di rivederlo? Potevo accettare di non essere più oggetto delle sue lunghe occhiate di fuoco, delle parole taglienti, del tocco sapiente? E non solo di non ricevere più tutto questo - ma di essere vittima dell'opposto. Della sua indifferenza. Del suo odio. Del suo mancato interesse nei miei confronti, mancato ed esaurito. L'unica cosa che avrei voluto fare, di nuovo, era farmi seppellire dalle pile di coperte pesanti fino a scomparire. Magari fino a giugno.

Fino a quel giorno era andato tutto benissimo: avevo fatto già due allenamenti di Quidditch, e Lily e Julian erano sicuramente sollevati dal non doversi più occupare degli incarichi da Capitano, e poi avevo ripreso le lezioni, consegnato già due scritti, fatto le ronde insieme al mio amico e compagno di squadra; insomma, avevo velocemente ripreso confidenza con la vita scolastica. Ero stata benissimo, contenta dei compagni e soddisfatta del modo in cui stavo affrontando il tutto, tanto che ero persino arrivata a chiedermi se non avessi esagerato nel mio auto-esilio.

Invece l'indomani si prospettava una giornata orribile, con lui che si ripresentava a scuola e l'inizio delle "lezioni" con Teddy, e il ritornare a nascondermi era tornato a sembrarmi un'opzione più che valida.

Era così strano per me provare paura al pensiero di rivedere il ragazzo che avevo tanto amato, e che amavo ancora alla follia. Ero stata nervosa, eccitata, felice, trepidante, arrabbiata, ma mai impaurita. E di cosa avrei dovuto esserlo? Lui per me c'era stato, nel bene e nel male, era arrivato a costituire il mio appoggio più grande, la spalla su cui piangere, cui aggrapparmi quando stavo per cadere, fino a far parte di me. Dov'era finita quella parte? Come potevo privarmi di un pezzo così importante della mia anima?

Io ero legata a lui, e non lo dicevo per i soliti cliché. Le nostre anime erano fatte della stessa sostanza, erano uguali e identiche e incastrate.

Chiedermi di separarmi da lui, era come chiedermi di separarmi da me stessa. Impossibile. 

I mormorii estasiati e in fibrillazione di Kalea ci accompagnarono per tutto il tempo che servì a prepararci per andare a dormire. Mentre ci lavavamo i denti, infilavamo il pigiama, preparavamo i libri per il giorno dopo, continuavamo a sentire la nostra amica ringraziare sommessamente Izzy, che con quel colpo di genio aveva fatto in modo che quella terribile frangetta, ora liscia, le arrivasse ad una lunghezza accettabile. Certo, si sarebbe dovuta allisciare i capelli fino a che non fossero cresciuti di nuovo, ma credevo che fosse un peso che era disposta a correre. E poi ci stava benissimo, la chioma castana ancora più lunga, dotata di riflessi ambrati che richiamavano sia il colore della sua pelle, che quello vivido delle iridi. Ero certa che quelle tre ragazze con cui vivevo fossero tra le più belle del mondo, e non stavo scherzando.

Se fossi stata a casa mia, con papà che ronfava in fondo al corridoio e Hugo che russava abbracciato al gatto e la mamma che leggeva alla luce della lampada fino a tarda notte, sarei sgattaiolata in cucina a farmi una camomilla, o a prendermi della melatonina per facilitare il sonno. Non perché non ne avessi, ma per i miei poveri nervi, tesi come corde di violino. Un aiuto a lasciarsi andare sarebbe stato gradito, e invece ero abbandonata a me stessa. O quasi...

"Rosie?" fece Izzy sottovoce, dopo un po' che avevamo spento le luci e che era calato il silenzio. Il vecchio orologio a pendolo segnava le due di notte passate.

"Sì?"

"Vuoi che dorma con te?"

Uscii dal bozzolo di coperte pesanti sotto cui mi ero rintanata per non sentire il freddo e misi fuori la testa. Il suo letto era opposto alla finestra che dava sui giardini, quindi la luce della Luna, per quanto fioca, le rischiarava il viso. I suoi occhi scuri, grandi e sinceri e affettuosi, attendevano una risposta. A me in genere non piaceva dormire con le persone, genitori, familiari o amici che fossero, ma qualche volta sentivo, forse come tutti, il bisogno fisico di avere qualcuno accanto.

Izzy c'era.

Annuii, alzando un lembo del piumone per invitarla a raggiungermi, ignorando la corrente gelida che nel frattempo mi aveva colpita in pieno. Izzy in punta dei piedi attraversò la camera e si gettò con la grazia e il rumore di un tricheco sul letto, avvolgendosi come un roll di sushi nelle coperte che le stavo offrendo.

"Hai i piedi gelati," sbuffai, rabbrividendo.

"Scusa."

"Che succede?" chiese allora Livia. Non ero certa che si fosse addormentata nel breve tempo che avevamo trascorso zitte, ma anche se fosse stato così il baccano che aveva appena fatto Izzy l'avrebbe risvegliata di sicuro.

Io e la ragazza accanto a me ci scambiammo uno sguardo. Era un letto ad una piazza e mezzo, quindi più grande delle dimensioni standard, però non ci saremmo mai entrate in tre, o in quattro; comunque non avrei mai escluso le altre, e quindi con un sospiro rinunciai. "Vieni anche tu."

Livia, gongolando, dimostrò che non vedeva l'ora. Balzò giù dal suo letto e con un risolino soddisfatto si catapultò accanto a noi, con, se possibile, ancora meno eleganza di Izzy. Questa venne schiacciata a forza contro di me, ridendo, e io capii che stanotte avrei dormito ancora meno del previsto.

Erano passati a malapena cinque secondi di pace, quando Kalea si mise a sedere, strofinandosi gli occhi. Ci guardò e alzò le sopracciglia. "Mi state escludendo?" chiese, con la voce impastata dal sonno e uno sbadiglio sulla punta della lingua.

Le due nel mio letto mi guardarono, come a chiedere il permesso. Non avevo proprio idea di quale forza della fisica avrebbe permesso anche a Kalea di mettersi con noi, ma alla fine scrollai le spalle, e lei lo prese come un via libera, perché con un sorrisetto venne verso di noi. "Mettiti dal lato di Rose," la avvertì subito Livia, "se sto in mezzo scalcio."

"Potevi dirmelo prima che mi piazzassi vicino a te, no?" la rimproverò Izzy, "così non dormirò mai."

"Meno lagne, Parker," fu la replica, "e metti al centro il cuscino."

I successivi cinque minuti furono tutto un: io non ho le coperte!, io sono praticamente fuori dal letto!, di chi è questa gamba?, devi dormire dritta!

Alla fine non si sapeva più a chi appartenessero le braccia, le gambe e, soprattutto, i gomiti che ci perforavano le costole, ma riuscimmo a trovare un nostro equilibrio, in quattro su un materasso minuscolo. Izzy si girò verso di me e ridacchiò. "Quanti anni abbiamo, cinque?"

"Magari, almeno ci sarebbe più spazio," ribattei.

Anche Livia soffocò una risata. "Dormiremo malissimo."

"Vero," concordò Kalea.

"Ah," esclamò melodrammatica Isabelle, "vi voglio così bene."

"Anch'io."

"Anch'io," si unì la bionda, "tantissimo."

E quindi toccò a me. Mi misi a ridere per l'assurdità della scena, ma strinsi affettuosamente la spalla di Kalea, che non avevo idea del perché fosse a portata di mano, e sorrisi alle altre due cui ero rivolta. "Anche io vi voglio bene."

^^

Se chiusi occhio quella notte, fu solamente grazie al calore e al contatto delle mie amiche. Avevamo trascorso le ore tutte abbracciate e rannicchiate l'una addosso all'altra, tanto che, non sapevo proprio come, il piede di Livia - lei aveva l'abitudine di dormire in calzini - era finito a premere contro la mia coscia, e il ginocchio di Izzy mi toglieva il respiro con una botta ad ogni suo minimo movimento. Comunque, l'aver dormito in quel modo rese incredibilmente traumatico l'alzarsi, sia per il gelo esterno che per i dolori atroci che ci affliggevano.

"Penso che mi si sia rotta una costola," borbottò Izzy facendo una smorfia. Livia, da dentro il bagno dove si stava lavando i denti, sbuffò teatralmente.

Kalea passò almeno dieci minuti a sistemarsi i capelli e guardarsi allo specchio, e poi sprecammo tutte un altro quarto d'ora nel provare una nuova maschera idratante per il viso di Isabelle, che a rigor di logica avremmo dovuto indossare la sera prima. Dovevo ammettere che i vari preparativi mi distraevano abbastanza, alleviando, di tanto in tanto, le orrende fitte che mi divoravano lo stomaco. Entro pochissimo l'avrei rivisto di nuovo, dopo tre settimane - tre!, - che non l'avevo avuto davanti.

Come avrebbe reagito? Mi avrebbe guardata con disprezzo, mi avrebbe sorriso, mi avrebbe rivolto la parola? Io come sarei stata? Triste, arrabbiata, depressa, pronta a buttarmi da un ponte?

Le ragazze fecero del loro meglio per includermi nella conversazione, ma non me la sentivo proprio di partecipare. Mi vestii e lavai in silenzio, rimuginando all'infinito sulla situazione e facendomi mille film mentali su cosa sarebbe potuto succedere. Praticamente non mi accorsi nemmeno, impegnata in quelle costruzioni astratte, di aver preso i libri, essermi messa il mantello ed esser scesa in Sala Comune.

Fui riportata con i piedi per terra solo dal trovare Julian e Troy e i loro amici ad aspettarci. La sensazione che avevo provato quando avevo rivisto Julian dopo giorni di inattività era ancora presente, e continuava a sorprendermi: era come se quella lontananza mi avesse fatto comprendere, anche a livello più profondo, del legame che si era instaurato tra di noi. Difatti mi sorprese, ma non mi diede fastidio, quando si avvicinò e mi stampò un bacio sulla guancia. "Buon giorno, Cap."

"'Giorno," risposi con un sorriso nervoso, il nodo di tensione nello stomaco che mi bloccava dal dire più di una parola di fila.

"Andiamo, vi stavamo aspettando per fare colazione," Julian mi mise il braccio attorno alle spalle fino al buco del ritratto, ma lo fece cadere subito dopo, forse credendo che non fosse un gesto apprezzato. Lo era, invece, ma forse poco adatto al mio stato d'animo attuale.

Mentre io camminavo dietro tutti con Julian, ascoltando in silenzio un suo racconto, mi resi conto che i nostri due gruppi funzionavano. Non l'avevo mai considerato, perché a parte quella disastrosa notte nella Stanza delle Necessità, terminata con l'inseguimento da parte di Gazza, non avevamo mai avuto vere occasioni per stare da soli. Invece adesso Kalea stava ridendo con i gemelli, che facevano espressioni buffe e bisticciavano tra di loro, Isabelle camminava con la testa vicina a quella di Troy, parlando in modo fitto, come se si stessero scambiando del segreti, e Livia pendeva dalle labbra di Simon, che le stava riassumendo la lezione del giorno di Aritmanzia, che ovviamente non aveva studiato.

Essendo così intime con il gruppo di Al, non mi aveva mai attraversata il pensiero di un'ipotetica amicizia importante con quello di Julian, diverso in tutto e per tutto - eppure eccola lì, la prova dell'accordo tra di noi. E inaspettatamente, mi faceva piacere vederla.

Quel pensiero mi tenne compagnia, e contribuì a non farmi soffermare sul nodo del mio stomaco, almeno fino alla Sala Grande. Un passo dietro l'altro, lo sguardo che scivolava sulle linee del pavimento che definivano le mattonelle di pietra, un sospiro qua e là... E poi le cose si complicarono enormemente, di colpo, quando Albus e i ragazzi spuntarono dall'altro lato del corridoio davanti a noi, rendendo inevitabile l'incrociarsi, proprio davanti all'ingresso della sala principale.

Il cuore mi schizzò in gola. Fu un riflesso involontario, istintivo, ma i miei occhi furono attratti da lui come se fossimo stati magnete e calamita. L'attimo prima temevo e al contempo bramavo di vederlo, e quello dopo quella visione, tanto irrealistica quanto desiderata, si era concretizzata davanti a me, a meno di tre metri di distanza. Il suo sguardo si spostò su di me nello stesso istante in cui lo fece il mio, come se avesse in qualche modo percepito la mia presenza.

Lui non era cambiato di una virgola, ma rivederlo fu come tornare alla luce del Sole dopo tempo - tre settimane, precisamente, passate nella più pura e macabra oscurità. La prima cosa fu l'altezza, e il suo fisico statuario, in quanto gli elementi che più lo facevano risaltare nella folla che lo circondava dalla mattina alla sera, ma non mi ci soffermai.

E come avrei potuto, con quel viso? Un viso che io conoscevo meglio di quello che vedevo allo specchio tutti i giorni, perché non dipendeva dalla mia vista, non sbiadiva insieme alle lontane memorie, ma era marchiato a fuoco, impresso furiosamente nella mia mente, nella mia anima. E così la forma del suo naso, così delicata, gli zigomi alti, la mascella dal taglio affilato, la curva dolce delle labbra, non avevo bisogno di vederlo, tutto questo. Era dentro di me.

Ma la vera, profonda emozione che quel mattino mi sottrasse il fiato dal corpo, e che mi ricordo ancora alla perfezione, non poteva che essere derivata dai suoi occhi. Potevo essere fissata, vero. Ogni volta che ne parlavo, tessevo le lodi per quella parte di lui. Erano degli occhi molto belli, di un colore particolare, ma che cosa c'era di così tanto speciale? Che cosa causava quella spinta che mi costringeva, guanto dalla presa ferrea, ad amare così follemente le sue iridi argentate?

Gli occhi sono le finestre dell'anima.

Anche Michael Phaer doveva aver provato quello che stavo provando io, perché con le sette misere parole della sua frase aveva descritto il mio amore per quel ragazzo.

Mi resi conto che ci eravamo entrambi fermati in mezzo al corridoio, io, stupidamente, con una mano sul cuore, nel tentativo o di squarciarlo, o di tenerne insieme i pezzi. E lui era vicino, così vicino, vicino come non era stato da ore e giorni e settimane di agonia. Quello sguardo da rapace, da predatore, sfuggente ma penetrante, che permetteva di scorgere la sua vera essenza, al di là del muro che si era eretto attorno - quello sguardo era lì, su di me, percorreva ogni millimetro del mio volto, lo assaporava, lo faceva proprio. E infatti era suo, ogni parte di me era sua.

La lingua fece capolino tra le sue labbra, che avevo baciato e che avevano baciato me, che avevano sfiorato e venerato e ammirato la mia pelle, i miei capelli, che si erano spesso dischiuse in sorrisi o corrucciate in smorfie di disappunto, secondo ragionamenti logici che avevo imparato a comprendere ancora prima che si dispiegassero compiutamente. Una bocca rosea, i denti bianchi al di sotto, le fossette che rendevano angeliche le guance candide. L'argento striato di verde delle sue iridi era la causa dell'irregolarità dei battiti del mio cuore. Per un istante, un singolo istante, la linea che gli aveva solcato la fronte si dissolse, e le labbra, appunto, si separarono, e mi accorsi, con un singulto, che stava per parlare, per dirmi qualcosa—

Mi ero dimenticata, coinvolta nell'attimo, rapita dalla sua presenza, che non solo ci fissavano tutti i nostri amici, ma anche che probabilmente stavamo bloccando il passaggio agli studenti che avrebbero voluto fare colazione. Con lui così davanti a me, non mi sarebbe potuto importare di nient'altro. Che stava per dire? Parla, ti prego. Dimmi qualcosa.

Allora, nell'esatto momento in cui lui avrebbe potuto fare, esprimersi in modo da cambiare quella situazione così dolorosa e innaturale, mi ritrovai una mano sulla spalla, che mi strinse attraverso la stoffa. "Cap, andiamo?" domandò Julian, vivace. Un fiume di rabbia mi invase - non capiva quello che stava succedendo davanti ai suoi occhi? Che la mia felicità era a rischio? - ma non fu niente paragonato alla profonda, devastante disperazione che mi sommerse nel vedere la reazione sua.

Fu come se la pioggia di fuoco di Pompei l'avesse trasformato in una statua; ogni parte di lui si irrigidì, richiuse subito la bocca. Se man mano che ci fissavamo come due ebeti i lineamenti gli si erano ammorbiditi, facendosi comunque meno taglienti, adesso si indurirono, diventando marmo, freddo e duro marmo. L'angolo della bocca gli si contorse in una smorfia di puro e terrificante disgusto, non solo nel guardare Julian, ma soprattutto nel guardare me, e senza dire altro o badarci ancora ci superò, entrando nella Sala Grande come se il nostro scambio non si fosse mai verificato.

A questo punto fu una forza molto più grande di me quella che mi impose di muovermi. Peccato che non lo feci in direzione dei miei amici, di Julian e della colazione, ma del lato opposto. Mentre le lacrime, inutile combatterle, affioravano ai miei occhi, considerai in uno sprazzo di lucidità che se fossi tornata al dormitorio non avrei più avuto le capacità di uscirne, in seguito, e avrei vanificato completamente tutti gli sforzi fatti fino a quel giorno. Per questo, senza nemmeno rifletterci, mi diressi verso la persona che più mi avrebbe sostenuta al momento, anche se avevamo le nostre divergenze non ancora appianate.

"Rose, che ci fai—stai piangendo?" si interruppe brusco Teddy quando mi vide bene in faccia. Avevo bussato tre volte alla sua porta, e solo dopo diversi secondi lui mi aveva aperto, con addosso un pantalone della tuta e una maglietta bianca, forse il suo pigiama.

Quel giorno aveva i capelli argentati, notai, esasperata e disperata al contempo. Ottimo.

"Mi dispiace, Ted," dissi, usando di getto il soprannome di quando era piccolo mentre mi asciugavo gli occhi con la manica del maglione per evitare di bagnarmi il volto. Il groppo in gola era troppo grosso per essere ignorato, ma stare con lui mi avrebbe aiutata. "È che—non lo so neanch'io. Scusa, se vuoi vado via..."

"Non pensarci nemmeno," rispose lui, circondandomi le spalle con un braccio e tirandomi dentro il suo studio. Uno studio piccolo, caldo, ordinato, la cui parte più bella erano sicuramente le foto di famiglia e amici, appese ovunque.

Mi fece sedere sulla sua poltrona, mi diede una coperta calda e fra le mani una tazza di tè fumante, che probabilmente aveva avuto intenzione di bere lui. La bevanda mi riscaldò lo stomaco, attenuando di poco la stretta che lo teneva avvinghiato su se stesso.

Si posizionò come al solito sul bordo della scrivania, facendo dondolare una gamba e tenendo l'altra piegata. Per un po' aspettò che mi calmassi da sola, temendo che non fossi in vena di parlare, ma alla fine si decise ad aprire bocca. "Fossi chiunque altro ti chiederei se non hai preso un brutto voto," scherzò quasi timidamente, "ma ho la sensazione che sia qualcosa di più serio."

"Acuto spirito di osservazione," mormorai sottovoce, frase seguita subito da un sospiro. "Scusa, sono nervosa."

"Vuoi dirmi cosa c'è che non va?" chiese lui, con una qualche sfumatura nel tono che non riuscii a individuare con certezza, ma che sicuro non era positiva. Magari era solo preoccupato per me.

Nell'analizzare il suo recente atteggiamento il modo in cui lui si era comportato nei miei confronti era passato in secondo piano nella mia mente, ma venne immediatamente riportato a galla dalla sua domanda, con inaspettata violenza - e le lacrime, quelle che ero riuscita a tenere imbrigliate per non fare una brutta figura né destare apprensione, quelle ripresero con la medesima forza a bruciarmi gli occhi. Mi passai la mano libera dalla tazza di ceramica sul volto, sfregandolo. Perché doveva tutto essere sempre così difficile tra noi?

"Lui non mi ha detto il motivo," sussurrai, fissando le spirali di vapore che si alzavano dal tè bollente.

"Cosa?" chiese lui, avvicinandosi di più. Quando mise la mano sul mio ginocchio, velato solo dalle calze, mi accorsi che era gelida.

Presi un breve respiro tremante, inumidendomi le labbra. "Mi ha lasciata," mormorai, cercando di tenere stabile la voce. "Mi ha lasciata, e non mi ha detto il motivo, Teddy."

"Non te l'ha detto?" ripeté, a sincerarsi di aver udito bene. Cercò i miei occhi, e vi lesse dentro la verità. Tentò di nasconderlo, ma rimasi spiazzata dal sollievo che affluì nel suo sguardo, e che gli distese i lineamenti contratti del viso.

Era contento? Contento che la nostra storia fosse naufragata in quel modo orribile?

Poi però quella reazione sparì veloce e improvvisa come era arrivata, e fu rimpiazzata da profondo cordoglio. Si alzò e si sedette sul bracciolo della poltrona su cui ero rannicchiata io, mi tolse la tazza dalle mani e mi attrasse contro il suo petto. "Lo so, Rose. Ti capisco più di quanto credi."

"No," ribattei morbidamente, annusando il suo profumo di cioccolata e olio di lavanda, "non puoi capirmi, perché James ti ama ancora tanto quanto lo ami tu."

Quell'affermazione bastò a far irrigidire, e stando stretta a lui lo percepii in modo distinto, ogni muscolo del suo corpo; si tirò indietro, il volto una maschera di orrore. "Tu sai?" chiese, terrorizzato.

"E' difficile non accorgersene," risposi, con la speranza di suonare il più rassicurante possibile. "E non perché ultimamente siete più lontani, ma per il modo in cui vi guardate, parlate, cercate. Perché lontani voi non lo siete mai stati. Quello che cercavo di dirti, settimane fa," proseguii, "è che voi siete la nostra famiglia, relazione o non relazione. L'unica cosa che ci importa, a me, Al, ai miei genitori, ai nonni, a zia Ginny, a zio Harry, è la vostra felicità. E se per voi il modo per essere felici è stare insieme, allora dovete farlo."

Teddy parve sinceramente commosso dalle mie parole, gli occhi verdi lucidi, e deglutì. Poi mi avvolse nuovamente in un abbraccio molto più caldo e tenero del precedente, con cui sembrava volermi ringraziare per ciò che gli avevo detto.

"Mi dispiace, Rosie," lo sentii sussurrare, la voce attutita dai miei capelli.

Pensai si stesse riferendo alla mia rottura, alla situazione scomoda e triste in cui mi trovavo, e per questo accolsi le sue scuse con un sorriso toccato; non potevo sapere del velo di oscurità caduto sul suo sguardo, né della reale motivazione dietro ciò che aveva detto.

^^

🌻Dopo la gaffe della scorsa settimana, annuncio che oggi è la data giusta (sì, sono così fusa da non sapere neanche quando è il mio compleanno. Che è oggi. Davvero. Ne sono certa) baci xx🌻

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