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71 [𝑆𝑐𝑜𝑟𝑝𝑖𝑢𝑠] - 𝑁𝑖𝑔𝒉𝑡 𝑐𝒉𝑎𝑛𝑔𝑒𝑠

{Does it ever drive you crazy
Just how fast the night changes?
One Direction - Night Changes}


^^

"Quindi la tua costellazione preferita è Perseo?"

Sollevai gli occhi dal libro di Astronomia di fronte quella domanda inusuale. Rose era accoccolata in una delle due estremità del divano, con un tomo aperto appoggiato in equilibrio sul bracciolo e il capo di Albus sul suo grembo. I suoi occhi azzurri mi guardavano con aria interessata.

Ancora non capivo come lei e Isabelle potessero aver deciso di volerci fare compagnia di lunedì, sapendo che avremmo avuto lezione di Astronomia con la docente Sinistra entro una mezz'ora, alle undici. Isabelle, come il suo ragazzo, che era più corretto definire la sua copia sputata, si era addormentata per lungo su una poltrona accanto al divano, con la bocca spalancata e un filo di saliva sul mento.

Non sapevo perché provare a fare lo sforzo di supportarci se poi si finiva, da bravi narcolettici, a sbavare e russare nella Sala Comune dei Serpeverde. Comunque la potevo tollerare, soprattutto se con lei c'era anche la sua amica dai capelli rossi.

"Kalea mi ha consigliato questo volume che raccoglie i miti," si giustificò la ragazza, forse interpretando il mio silenzio come perplessità. "Mi sembra che tu una volta mi abbia detto di lei, e così..."

Io ero seduto al tavolo della Sala Comune, cercando di ripassare per quel che la mia concentrazione mi permetteva la lezione che avremmo avuto a breve con la Sinistra. Dovetti girare la sedia per non darle le spalle, e rinunciai al mio intento.

Incrociai le braccia al petto, e alzai le spalle. "Sai che nella mia famiglia c'è la tradizione di nominare i nuovi nati come le stelle e le grandi costellazioni?" chiesi a bassa voce, per non svegliare le due principesse dormienti.

Lei annuì, e chiuse il libro per potermi ascoltare. Si sosteneva il mento con il palmo della mano, gli occhi pesanti dalla stanchezza, ma lottava contro il sonno per stare con me. La sua pelle chiara assunse una sfumatura dorata alla luce delle candele che illuminavano la stanza.

Nel giro di mezz'ora la Sala Comune si sarebbe riempita dei Serpeverde del mio anno, pronti a salire sulla Torre d'Astronomia; ma era ancora presto, e ciò significava che avevamo ancora tempo per noi.

"Questa usanza," ripresi, "non viene propriamente dai Malfoy, ma dai Black, la famiglia di mia nonna. Mio padre è stato chiamato Draco in onore della Costellazione del Drago, legata alla mitologia greca di Idra e Eracle. Sirius, il cugino di mia nonna, porta il nome della stella più brillante del cielo notturno, della Costellazione del Cane Maggiore. Mio nonno Lucius ha assecondato mia nonna nel dargli questo nome, e mio padre, che pur non voleva avere più niente a che fare con le due famiglie di cui faceva parte, ha ascoltato comunque mia madre nel voler mantenere viva una tradizione storica."

Rose corrugò le sopracciglia. "Però tu ti chiami sia come un Black, che come un Greengrass. O no?"

Mi sfuggì un sorriso. Era così intelligente, così acuta, così studiosa. "Il nome Scorpius riprende la Costellazione dello Scorpione, per onorare i Black," concordai, "e il secondo nome, Hyperion, deriva da una figura della mitologia greca, come volevano i miei nonni materni. Iperione—"

"Oh, so già chi è," mi interruppe vivacemente Rose, sorridendo. "Rappresenta il pilastro dell'Est. In origine il termine rappresentava un epiteto rivolto al Sole, con il significato di 'che si muove al di sopra', poi invece prese forma come il Titano della vigilanza e dell'osservanza. Figlio di Urano, il Cielo, e Gea, la Terra, fu tra i Titani che si schierarono con Crono nella sua battaglia contro Zeus."

Alzai un angolo della bocca. "Qui qualcuno ha fatto i compiti a casa."

La mia affermazione la fece ridere, una risata sommessa per non infastidire nessuno, ma anche capace di illuminare il mondo. "Vuole interrogarmi, professor Malfoy?"

Mio malgrado sentii quasi un formicolio di eccitazione nel sentirla pronunciare quella frase, con i lunghi capelli mossi raccolti alti sulla testa, il colore delle iridi accentuato da un velo di trucco che si era ripassata prima di scendere a cena, e la mia felpa verde addosso. Era bellissima.

"Comunque, la mia domanda rimane," mi avvertì, riprendendo il discorso. "Perché proprio Perseo?"

Mi passai una mano sul volto, percependo l'anello con lo stemma della mia famiglia freddo sulla pelle. Non avevo paura di aprirmi con lei, affatto, però non sapevo come dirle che dietro la maggior parte delle cose che mi riguardavano c'era una spiegazione poco felice, e io non volevo, per nulla al mondo, ammorbarla con pensieri cupi.

Tuttavia, era stata lei a chiedermelo, e non le avrei mai negato niente - non ne sarei stato capace.

"Quella di Perseo è una costellazione boreale, ed è visibile nei nostri cieli in una zona molto ricca di oggetti da osservare, tra l'Auriga, Cassiopea, Andromeda ed il Toro, ma soprattutto attraversata dalla Via Lattea," mormorai, beandomi del suo sguardo sapiente e interessato su di me. "Bene o male, di lui tutti conoscono le Perseidi - le famose stelle cadenti che si vedono a fine agosto. Hai presente?"

Annuì. Certo che aveva presente.

Presi un breve respiro, cercando di capire come parlare nel modo più conciso possibile, in modo da non farla rattristare. Un'impresa impossibile, considerata la sua assoluta e disarmante empatia.

"Io e i miei genitori avevamo una tradizione," spiegai, "ogni notte, per tutte le sette che seguivano quella del dieci agosto, ci saremmo messi nel prato di casa, con delle sedie a sdraio, coperte e una brocca di limonata, e per ore avremmo fatto a gara per contare più stelle dello sciame delle Perseidi. La mamma era appassionata di Astronomia, e mi indicava sempre ogni costellazione, e mi aiutava a figurarmela nella mente."

Se solo socchiudevo gli occhi, nel parlare sentivo di nuovo la brezza fresca delle sere d'estate, sentivo le coperte ruvide sulle gambe, e lo sguardo pieno di quelle stesse stelle che ogni anno avevano il coraggio di tornare da noi, quasi come a riconoscerci, vecchi amici che si salutavano a vicenda. Sentivo la voce della mamma riempirmi le orecchie, la risata di papà che amava prenderla dolcemente in giro, la limonata fredda giù per la gola.

Avrei dato tutto il mio mondo per ritornare lì, anche solo un'ora, e rivivere quei momenti.

O perlomeno, questo era quello che avevo sempre pensato; tuttavia, vedendo le persone che avevo davanti, iniziai a chiedermi se davvero avrei sacrificato tutto ciò che avevo adesso, solo per un brandello di passata felicità.

"Sembra una cosa bellissima."

La voce di Rose mi riportò a focalizzarmi sul suo viso. "Lo era," dissi in un soffio, "era bellissimo. Vieni qui," mormorai poi, tendendo le braccia verso di lei.

Il contatto fisico aveva sempre avuto il potere di repellermi. Non perché volessi assurgere a chissà quale simbolo, non perché volessi che gli altri studenti riconoscessero in me una persona fredda e senza sentimenti - anche perché, sfortunatamente, non lo ero. La Maschera era stata e sarebbe sempre stata utile, ma non era altro che una finzione, e io ero un essere umano, vivente, che provava gioie e dolori, che mi piacesse o meno.

La verità era che sentire le persone troppo vicine mi metteva in soggezione. Si potevano notare molti più difetti a breve distanza, e con un numero troppo alto di difetti la gente si spaventava, e si allontanava. Non avrebbero più creduto nell'immagine distante e sfuggente che mi ero creato di me, e questo avrebbe portato altri ad avvicinarsi, credendo di poterlo fare, che non ero poi così terribile. Si trattava di un circolo vizioso, e io non volevo farne parte.

Per di più, il contatto reale, quello di mano contro mano, di viso a viso, mi metteva a disagio, ma oltre il significato più psicologico del motivo, non avrei saputo spiegarne il perché. Perché mi ero innervosito nel sentire Norah e Mina toccarmi mentre ballavamo la festa del mio compleanno? Non ne avevo idea, ma era sempre stato così, non ero espansivo.

Ad ogni regola, però, c'era la sua eccezione, e Rose rientrava tra le mie.

Accarezzò il capo di Albus, ancora addormentato, e lo sollevò con delicatezza per scivolarne al di sotto e toglierselo dal grembo, in modo da non svegliarlo ma anche da potersi alzare. Sulle punte dei piedi attraversò il breve tratto che ci separava, senza distogliere quei profondi occhi dai miei, e quando mi fu davanti lasciò che le mie braccia la trasportassero su di me.

Tirò le gambe al petto, acciambellata sulle mie gambe, e spinse la testa nell'incavo del mio collo, impedendomi di guardarle il viso, ma permettendomi di sentire i suoi capelli morbidi che mi sfioravano il mento.

Per un attimo nessuno disse niente: spinsi il naso nella sua chioma per annusare quel profumo di rose che tanto mi piaceva, e lei appoggiò il viso contro il tessuto della mia camicia, prendendo un grosso respiro.

"Perseo è la mia costellazione preferita perché la notte del quindici agosto del nostro terzo anno, rappresentò l'ultimo momento in cui lei stette abbastanza bene da non essere confinata a letto. Sarebbe morta di lì ad una settimana," sussurrai, la voce attutita dai suoi capelli, gli occhi chiusi.

Potevo ancora vedere quel cielo, così brillante. Dalla sua morte avevo pensato spesso che quello fosse stato l'ultimo, estremo saluto verso la stella più luminosa e splendida, confinata sulla Terra, e pronta a risalire in Cielo fra le sue sorelle.

"Quando passò la prima Perseide della serata, lei ci fece promettere, a me e papà, che saremmo stati felici. Che ci saremmo sforzati di non lasciarci abbattere da quello che sarebbe successo dopo. E noi sapevamo, sapevamo," enfatizzai, con voce scossa ma non rotta, come se stessi pronunciando un giuramento, "che invece sarebbe successo, e lo sapeva anche lei. Comunque noi giurammo su quella Perseide, su quella costellazione, su Perseo - e per un solo momento, uno soltanto, fu come se tutto fosse tornato all'anno prima, quando la malattia non c'era, e noi eravamo ancora insieme, e credevamo che non ci saremmo mai lasciati."

Rose tirò su la testa, come se avesse sentito qualcosa di particolare; quindi si voltò, in modo da non essere più seduta trasversalmente rispetto a me ma da avere il viso rivolto verso il mio, le gambe ai lati dei miei fianchi. Mi portò le braccia al collo, scrutandomi con attenzione.

Di certo non era la reazione che mi sarei immaginato, perché aveva l'espressione di una particolarmente impegnata in un pensiero profondo, assorta, quasi accigliata.

"Tu sai," sussurrò in un tono talmente morbido e tenero che mi diede l'impressione di essere rivestito di una sorta di luce dorata, delicata, "cosa dice il mito riguardo l'eroe Perseo?"

Il suo profumo, e la vicinanza a me, rendeva più difficile concentrarmi. Le mie mani si fermarono sulle sue cosce, grate del fatto che stesse indossando la solita gonna dell'uniforme e non il pigiama, mentre le sue dita arricciavano i capelli sulla mia nuca, in un movimento che mi rilassava più di molte altre cose.

"So che ha ucciso Medusa, una delle tre Gorgoni che aveva il potere di trasformare chiunque la guardasse in pietra."

"È giusto," annuì, "ma c'è una storia alla base, come per ogni altra cosa. Io credo..." prese un respiro, "credo che ci sia un motivo ben preciso per cui lui abbia significato tanto per tua mamma, Scorpius."

Mi venne istintivo aggrottare la fronte. "E cioè?"

Rose mi guardò con aria sapiente, la stessa che le avevo intravisto negli occhi quando si era messa a raccontare, quelli che sembravano anni prima, la storia della Chiesa di San Pietro ad Vincula. Ogni volta che metteva la sua conoscenza a disposizione degli altri, una luce particolare riluceva in lei, come se fosse stata una cosa che riusciva a renderla davvero felice. Con quella espressione, l'avrei sentita parlare per ore senza stancarmi mai.

"La storia di Perseo inizia con suo nonno, Acrisio, il re di Argo. Aveva avuto un'unica figlia femmina, Danae, e per questo era preoccupato per le sorti del suo regno, non sapendo a chi sarebbe andato in seguito alla sua morte; quindi si mise in viaggio verso l'oracolo di Delfi, che gli predisse la nascita di un nipote che l'avrebbe ucciso. Impaurito e sconfortato, Acrisio rinchiuse Danae all'interno di una torre senza farla uscire mai, protetta da cani di immane ferocia. Credeva in questo modo che avrebbe impedito alla figlia di mettere al mondo un bambino, ma le sorti della ragazza erano già state scritte - e per questo Zeus, sotto forma di una pioggia dorata, attraversò una fessura nel tetto della torre, e riuscì ad ottenere l'amore della principessa," narrò Rose, in un sussurro che aveva della cantilena, la voce carezzevole che mi entrò dentro, e mi avvolse con gentilezza.

"Danae concepì un figlio, e con l'aiuto della sua nutrice, rinchiusa all'interno della torre poté allevarlo in segreto. Questo poté accadere finché Perseo - questo era il suo nome, - giocando emise un grido, e Acrisio venne a sapere della sua nascita. Terrorizzato dalla nascita, il re di Argo rinchiuse figlia e nipote in una cassa di legno, che mise su una nave lasciata alla deriva," per un solo attimo mi distrassi nel sentire la sua mano fredda infilarsi nel colletto della mia camicia per racimolare calore, ma per il resto pendevo dalle sue labbra, e lei lo sapeva. "La cassa fu gettata alla deriva, e naufragò fino all'isola di Serifo. Qui il pescatore Ditti, credendo che contenesse un carico prezioso, la aprì, e vi trovò Danae e Perseo, ancora miracolosamente vivi. Li portò alla corte di suo fratello, il tiranno dell'isola, Polidette, che mosso a pietà li rese suoi ospiti a corte. Passarono gli anni, e Perseo, circondato dall'amore della madre, cresceva forte e valoroso divenendo ben presto un giovane bellissimo e fortissimo, imparando a pescare, navigare, nuotare, combattere e cacciare, sotto la guida del padre adottivo Ditti. Danae, che la maturità aveva reso ancora più bella, era oggetto dei desideri del re Polidette, che cercava in tutti i modi di convincerla a sposarlo; ma ella, il cui unico pensiero era il figlio Perseo, non ricambiava il suo amore."

Iniziavo già a intuire cosa potesse intendere con la sua precedente frase, sul valore che quel mito poteva avere per mia madre, ma preferivo sentirlo fino in fondo per farmene un'idea più precisa.

"Allora Polidette pensò di eliminare Perseo con un piano astuto: disse di aspirare alle nozze con Ippodamia per il bene del regno e, dopo aver radunato gli amici confinanti e lo stesso Perseo, annunciò i suoi propositi di nozze e chiese a tutti un regalo: da ognuno dei presenti avrebbe gradito un cavallo. Perseo, mortificato perché non possedeva nulla di simile da donargli, affermò che se il re non avesse più insidiato sua madre Danae, gli avrebbe procurato qualunque cosa avesse chiesto. Polidette fu molto lieto in cuor suo pensando che questo fosse il mezzo per liberarsi di lui. Espresse pertanto l'estroso desiderio di avere come dono di nozze la testa di Medusa, una delle tre Gorgoni."

"Che stronzo," mormorai, non riuscendo a trattenermi, e una risatina scosse la mia ragazza, ancora seduta sulle mie gambe.

"Sai già come andò il resto della storia," riprese, "Perseo riuscì, con l'aiuto di Atena e Ermes, a recuperare la testa della Gorgone, di cui si servì per scacciare i pretendenti al trono della donna che amava, Andromeda. Tornato a Serifo, Perseo trovò la madre e il pescatore Ditti a nascondersi dal tiranno Polidette, che aveva approfittato della sua partenza per continuare ad insediare Danae, nonostante la sua precedente promessa. Per vendicarsi dei torti subiti, il semidio tirò fuori la testa di Medusa, pietrificando il re e la sua corte. Qui poi le versioni si divisero - alcuni dicono che tornò ad Argo e assunse il potere, altri che fondò un'altra città, Micene, altri ancora che vagabondò per la Grecia, ma quello che era certo era che alla sua morte la dea Atena, per onorare la sua gloria, lo trasformò in una costellazione, e al suo fianco pose l'amata Andromeda."

Mi schiarii la gola, sentendola d'improvviso bruciare. "E tu pensi che mia madre...?"

Rose sorrise, capace di prendere il mio animo infranto e di ricostruirlo pezzo per pezzo senza il minimo sforzo, soltanto con quel gesto puro e sincero. "Tua madre ti ha amato più di ogni altra cosa, come ha fatto Danae con Perseo, che ha sopportato di tutto per lui - l'imprigionamento da parte di suo padre, l'essere gettata in mare, il corteggiamento del tiranno. Sapeva che saresti stato un grande uomo, Scorpius," disse con innata semplicità, scrollando le spalle. "E Perseo dal canto suo affrontò la più pericolosa delle imprese per poter liberare lei dal giogo di Polidette. Lo tramutò in pietra, solo perché l'aveva fatta soffrire. Tu l'hai difesa milioni di volte quando la accusavano di averti concepito con Voldemort, quando dicevano che era debole. Astoria non aveva dubbi: non appena vedeva lui in cielo, gli comparivi davanti agli occhi tu, sulla Terra. Credo che sia meraviglioso, vedere ancora oggi quanto ti amasse, e come ogni piccola parte di lei adesso sia contenuta anche dentro di te."

Mi accorsi di avere il volto contratto come se fossi appena stato accecato da una spruzzata di succo di limone; le sue dita leggere si occuparono di distendere la ruga sulla mia fronte. Cercò il mio sguardo con il suo, nonostante io l'avessi puntato al soffitto, sentendo gli occhi bruciare fastidiosamente. "Tu sei il suo Perseo," concluse, deglutendo.

Non avrei pianto, perché avevo sempre saputo quanto mia madre tenesse a me, fino all'ultimo secondo in cui era stata in vita. Collegare, però, una delle sue passioni più grandi, insieme al giardinaggio, proprio all'amore per me, era un qualcosa che era riuscito a smuovere dentro di me una parte rimasta assopita per tanto tempo, e che si era svegliata quando avevo capito di essere perdutamente innamorato della ragazza che avevo davanti.

Potevo sembrare banale, scontato, patetico, ma quelle due donne rappresentavano tutto per me, e l'avrei amate e onorate finché avessi vissuto, che fossero semplicemente un ricordo, come mia madre, o una persona in carne ed ossa, come Rose.

Mi limitai ad appoggiare la fronte alla sua con gli occhi chiusi, consapevole del mio respiro pesante, del cuore che mi rimbombava nelle orecchie, del suo calore che mi riscaldava anche l'animo. "Io sono il suo Perseo," mi venne spontaneo ripetere, e quella convinzione fu ciò che più mi sostenne in quello che avrei dovuto affrontare.

^^

Lezione di Aritmanzia era a mani basse quella più difficile ad Hogwarts, e io e Dave e Albus avevamo la fortuna di affrontarla con i Corvonero, la Casa che più era disposta a condividere il suo sapere con gli altri. Benché gli alleati storici dei Serpeverde nelle dispute della scuola fossero i Tassorosso, dall'ultima partita di Quidditch in cui li avevamo stracciati i rapporti si erano leggermente andati raffreddando.

Noah dal terzo anno aveva scelto di seguire Divinazione con le ragazze invece che quella materia complicata, e non se ne era mai pentito; adesso invece io, di fronte l'argomento intitolato Rottura del Sigillo Aritmantico, mi chiedevo perché non fossi stato lungimirante come il mio amico.

"Febbraio si chiude in bellezza," sentii borbottare con aria funerea da Albus accanto a me, che scribacchiava qualche parola dettata dall'insegnante senza particolare entusiasmo. Alludeva alla giornata presente, ovvero il ventotto, l'ultimo del mese - dall'indomani sarebbe stato marzo, e saremmo entrati nel vivo del pentamestre, con annesse tutte le responsabilità degli esami in vista.

"Tra un mese è il compleanno di Rose," mormorai sottovoce, cercando di assumere un tono un minimo casuale. "Tu e Izzy avete già qualcosa in mente?"

Lui mi lanciò un'occhiata smeraldina al di sotto delle ciglia nere. "Non riusciamo a trovare nulla che eguagli la tua festa," replicò, evidentemente scontento. "Dopo quella, la Stanza delle Necessità mi va un po' stretta..."

"Io ho un'idea," dissi, "ma per farla funzionare dobbiamo impegnarci davvero."

Corrugò le sopracciglia. "Ci sto, ovviamente. Di che si tratta?"

Per quando uscimmo da quell'aula opprimente il piano era già stato delineato, grossomodo, ma era ancora presto per rifinire i dettagli, e perciò la conversazione si era spostata sul Quidditch. La classe di Aritmanzia si trovava al sesto piano, ed era l'unica; ci avviammo per le scale senza alcuna fretta, chiacchierando.

"Quest'estate la Coppa del Mondo sarà fenomenale," stava dicendo Dave, mentre camminava dall'altro lato di Albus rispetto a dove stavo io.

"La Grecia è uno dei posti più belli," concordò Al, "non potrebbero farla in luogo migliore."

"Se solo riuscissimo a prendere i biglietti," mi lamentai.

Albus mi lanciò un'occhiata dispiaciuta. "Sai che volevamo regalarteli per il tuo compleanno," disse, con tono apologetico. "Sono finiti prima che potessimo anche solo pensarci."

Scrollai le spalle, rivolgendo un cenno del mento ad una ragazza del quinto piano che mi aveva salutato scendendo. "Non è un problema. Anche se non riusciamo a comprarli quest'anno, la Coppa c'è ogni quattro anni."

Dave sospirò con aria nostalgica. "Chissà dove saremo, tra quattro anni."

"Tu nel pieno del tuo stage al San Mungo," replicò Albus, dandogli una pacca sulla spalla. "Pronto a salvare vite. Almeno voi avete le idee chiare su cosa fare una volta usciti di qui," aggiunse, amareggiato. "Io non so dove sbattere la testa."

"Hai ancora tempo," gli feci notare. "E sei anche abbastanza sveglio da poter fare tutto quello che ti pare."

Se il mio amico mi diede una qualche risposta non lo sentii: la mia attenzione, arrivati al terzo piano, si spostò, come attirata da una calamita, su quella che potevo chiamare la mia ragazza.

La mia ragazza.

Era così strano, a pensarci bene. Da quando avevo quindici anni non avevo avuto altro che flirt vari, spesso con le ragazze dell'ultimo anno, oppure con Norah, Amanda e Wilhelmina. Non avevo neanche mai concepito la possibilità di poter stare insieme a qualcuno in modo fisso, perché aprirmi, mostrarmi per quello che ero, apriva di fronte a me la strada della delusione. Non volevo che chi mi conoscesse poi scontento di ciò che aveva visto.

Non permettevo a nessuno di avvicinarsi a me, perché non volevo che nessuno poi mi lasciasse.

Con le ragazze della scuola era stato facile, più del previsto. Era una stupidaggine trovare qualcuna disposta ad una semplice notte insieme, senza impegni e senza che si sapesse in giro. La mattina dopo bastava alzarsi dal letto prima che gli altri si svegliassero, uscire dalla camera e poi far finta che non fosse accaduto nulla, comportarsi come prima.

Non potevo non ammettere che quello fosse il mio tipo di relazione ideale. Essere senza legami, prendere ciò che conveniva ad entrambi e poi ritrovare il proprio percorso, quello era ciò a cui avevo aspirato. L'unica volta in cui, da ottobre, quando io e lei ci eravamo avvicinati, avevo cercato di usufruire di quel vecchio metodo per togliermela dalla testa, era stata nello spogliatoio dei Serpeverde. Io ero stato convinto che le cose tra di noi fossero naufragate ancora prima di iniziare, affogate in una situazione stressante e pericolosa come quella della Pozione Vulnerante, private del respiro dalla tensione in cui vivevamo.

Poi lei prima di partire e tornare a casa era venuta da me, e avevo avuto il terrore di dirle che c'era un'altra persona nel bagno accanto a noi, temendo che potesse scappare da me, come poi aveva effettivamente fatto.

Con Mina e Norah, si discuteva di un secondo tipo di relazione. Non si poteva parlare di amanti fisse, perché tutti noi avevamo avuto, nel frattempo, altre notti con altre persone; però quello che avevamo era una specie di porto sicuro, sapevamo che c'eravamo gli uni per gli altri e ne eravamo contenti. Poteva sembrare strano, dovevo concederlo. Come si poteva mantenere un rapporto del genere, ed essere amici così stretti tutti i giorni?

Era proprio questo il punto, invece. Quello che avevamo si basava sull'affetto reciproco che provavamo. Nessuno era innamorato dell'altro, e lo sapevo bene, per quanto poi nel Castello si fossero diffusi pettegolezzi e voci varie. Tutti e tre avevamo avuto bisogno di conforto, un tipo diverso di appoggio, e l'avevamo trovato in quello strano legame. Con loro non si parlava di una notte e via, non si parlava di tagliare i ponti e far finta di niente, perché la nostra amicizia non l'avrebbe permesso, e quindi non mancavano le occasioni per aprirsi un varco nei propri sentimenti, nel dire almeno come ci sentivamo, nel raccontarci problemi che, per quanto poco seri - non mi sarei mai azzardato a parlare della mia situazione familiare, ad esempio, - costituivano la nostra quotidianità, la vita di tutti i giorni. Non ero costretto ad aprirmi, ma lo facevo sicuramente di più di quanto non facessi con le altre ragazze.

Era questo il mio problema, raccontare di me stesso alla gente. Non mi interessava il mantenere l'aspettativa, di pormi come il tenebroso della situazione, come l'intoccabile e sfuggente ragazzo che nessuno avrebbe mai conosciuto, affatto. Semplicemente, l'aver perso così tanto in vita mia aveva formato una corazza che mi preservasse, che mi ricordasse che tutto ciò che avevo al momento poteva finire miseramente, e che io mi sarei sentito di nuovo vuoto e privo di senso come quella fredda notte di fine agosto.

Ecco il sentimento che combattevo: non volevo più sentirmi così. Non volevo più vedere il mio volto nello specchio e chiedermi chi fosse colui che avevo davanti. Non volevo più che le persone mi facessero notare le mie occhiaie. Non volevo più sentirmi come se avessi lasciato il cuore nella sua tomba, insieme al suo.

Avevo appena raggiunto una situazione di stabilità, quindi. Alternavo al sesso occasionale le avventure con le ragazze cui tenevo di più - Amanda di certo non rientrava nella situazione, ma era facile ottenere quel che volevo da lei e poi scrollarmela di dosso, - e nel frattempo stavo con i miei amici, studiavo, quello che facevano gli adolescenti.

Poi era arrivata lei, ovviamente.

Non aveva potuto che rivoluzionare ogni minima convinzione che avessi.

Uno scricciolo di a malapena un metro e sessanta, con la lingua biforcuta e le idee chiare, una ragazza che aveva affrontato un vero inferno nel giro di pochi mesi e che ne era uscita pura, inviolata. Quante persone si sarebbero chiuse in sé nell'essere torturate, quasi uccise, nel vedere il proprio padre confinato in un letto d'ospedale, nel prendere parte ad un inseguimento, nell'essere ricoverate, nel dover salvare la vita di chi si ama? Quante?

Io avevo affrontato una sola morte, e quella mi aveva segnato per sempre, impedendomi di mostrarmi per chi ero, e lei invece era più radiosa, bella e solare che mai.

Era strana, la mente umana. Ad uno stesso avvenimento ognuno avrebbe reagito in modo diverso, essendo tutti diversi. Albus aveva acquisito ancora più serietà, aveva sviluppato un senso di maturità incredibile, ed era più responsabile, protettivo verso le quattro donne più importanti del suo mondo - sua madre, sua sorella, Rose e Isabelle. Quest'ultima aveva tirato fuori i denti, mostrando di che pasta era fatta, cercando di fermare un pericoloso assassino disarmata, accettando di farsi trascinare in indagini da cui poteva benissimo essere esentata. Tutto l'amore che provava per i suoi amici era venuto fuori, e l'aveva resa più forte, fino al punto da permetterle di affrontare uno degli scheletri più spaventosi nel suo armadio. Hugo, il ragazzino dalla personalità più - letteralmente - esplosiva dell'intero cosmo, aveva iniziato a mettere da parte gli scherzi, anche se non tutti, per non far impensierire la sua famiglia, e dedicava sempre almeno dieci minuti della sua giornata al vedere come stesse la sorella, occupandosi di mettere a tacere quelle voci che se fossero arrivate a lei l'avrebbero fatta soffrire.

Eravamo tutti cambiati, tuti ci eravamo fatti più seri, più consapevoli, forse meno estroversi e leggeri di prima. Rose, tuttavia, non era come noi. Lei non si era lasciata piegare da quelle tragedie, avendo capito che noi ne eravamo tutti rimasti scossi, e che lei era la nostra speranza. Se si fosse abbattuta, non sapevo cosa avremmo fatto. Era una ragazza così speciale, così fuori dal comune. Dove noi avevamo messo su una struttura protettiva, una naturale difesa che talvolta ci impediva di essere spensierati come prima, di sorridere facilmente, di giocare, di scherzare, Rose era sbocciata come una farfalla, diventando tutto ciò che ci impediva dallo sprofondare nel burrone della miseria.

Dove Rose faceva battute, cantava, danzava tremendamente male in mezzo al corridoio, dove lei scherzava con i professori e tutti la adoravano, io iniziato a controllare che non ci fosse nessuno di sospetto nei paraggi,  sviluppato un senso di diffidenza verso chiunque, e avevo preso persino a controllare lei e Isabelle con lo sguardo quando noi non potevamo essere al loro fianco.

Era per questo che non riuscivo neanche a vedere quel coglione di Walker. Non solo perché ronzasse loro intorno tutto il giorno con quella banda di idioti che teneva al guinzaglio, non perché fosse palese l'interesse nei confronti della mia ragazza, e non perché ogni volta che lei non era in giro si rivelava la persona spregevole che era - non per tutto questo, ma perché avevo trovato in lui una sorta di cattiveria, qualcosa che d'istinto mi portava a stargli alla larga e a cercare di far prendere le distanze anche alle ragazze.

Poi era arrivata la lezione con Lumacorno, che riguardava le Aure. Lei si era dimostrata, ancora una volta, la ragazza più forte, onesta, passionale e caparbia del mondo, mentre lui il calcolatore, furbo e spietato, che mi aspettavo. Persino l'insegnante ci aveva presi da parte per dirci di stare in guardia, di evitarlo il più possibile, ma Rose non si era fatta scoraggiare, temendo che lui potesse rimanerci male, e aveva ignorato i suoi avvertimenti.

Per questo rimasi di sasso quando li vidi uscire dall'aula di Incantesimi, lei con il libro di testo stretto al petto e lui con un'espressione veramente adorante nel guardarla.

"Sangue freddo, Scorpius," intervenne Isabelle, che non mi ero accorta essersi unita a noi. Da quando ci aveva raccontato di quell'essere disgustoso di Sanguini che l'aveva molestata, il suo rapporto con Albus era diventato molto più profondo. L'amore che provavano traspariva chiaramente: persino uno sconosciuto se ne sarebbe accorto, a chilometri di distanza. Io, dal canto mio, non credevo che sarei riuscito a guardare Rose così, e non perché non la amassi quanto si amavano loro, ma perché non era nella mia natura. O forse sì? Come la guardavo, io?

"Facile per te," replicai con una smorfia, non distogliendo gli occhi da quei due. Essendo stata quella l'ultima lezione della giornata non c'era bisogno di correre verso un'altra aula, e per questo si appoggiarono alla parete, continuando a chiacchierare. Mi prudevano le mani dalla voglia di prendere Walker e sbatterlo al muro, ma probabilmente Rose non l'avrebbe apprezzato.

Isabelle sbuffò. "Fidati, non è facile per me," sbottò guardando anche lei il suo ragazzo, circondato da studentesse di Tassorosso che gli stavano facendo i complimenti per un compito che avevamo consegnato - come se fosse stato davvero quello, il motivo per cui gli stavano così dietro.

"Albus non ha occhi che per te," le ricordai.

Alzò entrambe le sopracciglia. "Perché, Rose non ce li ha per te?"

Scrollai le spalle. "È diverso. Walker le sta sempre dietro. E lei non vuole che lo tratti male," aggiunsi, suonando incredulo alle mie stesse orecchie, chiaramente non concependo come fosse possibile che lei desiderasse qualcosa del genere.

Isabelle scoppiò a ridere. "Qui qualcuno è geloso marcio," scherzò, sfiorandomi il braccio. "Cerca di stare tranquillo, va bene? Se Rose avesse avuto anche solo il minimo interesse per Julian, non solo l'avrei saputo, ma avrebbe colto l'occasione prima, nel periodo in cui non vi siete parlati. Fidati."

Vedendo i suoi occhi scuri accesi di ottimismo ed entusiasmo, sorse spontaneo chiedermi come avessimo costruito il legame che avevamo al momento. Non capivo come avessimo fatto ad avvicinarci così tanto, più che altro. C'entrava forse il fatto che entrambi tenessimo alle stesse due persone? Che spesso le stesse ci considerassero di famiglia?

Non era solo quello, ne ero convinto. Isabelle mi aveva letteralmente conquistato, perché era la persona più buona che avessi mai conosciuto. Lei era stata abbandonata, e aveva trovato la forza di andare avanti, e l'aveva fatto mille volte meglio di me. Io avevo già degli amici, e un padre che mi voleva bene, ma lei si era dovuta costruire da capo, accettando, magari con il rimpianto, che non avrebbe mai saputo nulla delle sue origini.

Per la prima volta sentii l'impulso di aprirmi con qualcuno che non conoscevo alla perfezione, e le passai il braccio attorno alle spalle. Era strano, perché aveva giusto una quindicina di centimetri in meno di me, e per questo dovetti ammettere che compiere quel gesto mi risultò più facile di quanto sarebbe stato con Rose, così piccola. "Se dovessi preoccuparmi di ogni idiota che ronza attorno a voi due, morirei di stenti."

Isabelle spalancò la bocca, offesa. "Ma finiscila! Tu adori preoccuparti per noi."

Le diedi un colpetto sul naso con l'indice. "Cara Isabelle, non hai idea di quello che dici."

Lei mi rivolse un sorriso luminoso. "Continui a chiamarmi Isabelle."

"Perché, come ti chiami?" replicai ironico, mantenendo il braccio sulle sue spalle ma gettando un'occhiata a Rose per controllare dove fosse.

"Mi chiamano tutti Izzy, o Iz," disse, e notai un certo affetto nella sua voce. "Tu però rimani con Isabelle, nonostante la nostra amicizia."

Mi resi conto che quella mia abitudine poteva sembrare scortese, o comunque fredda, agli occhi altrui. La guardai di nuovo, e corrugai la fronte. "L'hai detto tu stessa, ti chiamano tutti così. E poi," dissi con tono casuale, "Isabelle è un nome bello. Izzy è terribile. Senza offesa."

Lei scoppiò a ridere, e così facendo attirò l'attenzione di Rose, che la sentì dall'altra parte del corridoio. La sua amica notò lei, e dopo me, e con il sorriso più bello si scusò con Julian per venirci incontro.

Con scioltezza fece scivolare il braccio attorno alla mia vita, la sua testa che arrivava ben sotto la mia spalla senza un minimo di tacco ad aiutarla. "Finalmente," fece, "credevo che non sareste mai arrivati."

"Veramente siamo qua da almeno dieci minuti," ribattei, sciogliendo la presa attorno ad Isabelle per dedicarmi a lei. "Solo che tu eri troppo impegnata con Walker per notarlo."

"Scorpius," mi rimproverò con voce soffice.

"Non voglio interrompere il vostro idillio amoroso," intervenne Isabelle, divertita, "ma c'è una questione da risolvere."

Rose inarcò entrambe le sopracciglia. "A me pare una stupidaggine quello che volete fare."

"Lo è," concordò Albus, spuntato fuori alle spalle della sua ragazza. Non fece una piega nel vedere sua cugina aggrappata alla mia vita. Stava imparando non solo ad accettare con quel cambiamento, ma anche a familiarizzarci.

Kalea, accanto a lui, si infilò le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni. "Vogliamo farlo o no?"

"E se ci beccano?" chiese Livia. "Sapete che non mi importa più di tanto, però qui c'è già chi si è fatto una punizione..."

Dave, cogliendo la frecciatina, sbuffò. "Totalmente ingiustificata," dichiarò, riferendosi alle ore che aveva dovuto passare a tagliare l'erba del Campo da Quidditch dopo la sua esperienza da commentatore tempo prima. "E poi, anche Rose ha avuto la sua."

"Proprio per questo secondo me è meglio evitare," insistette la mia ragazza, preoccupata. Non si era più scordata il lucidare la Sala dei Trofei quando la McGranitt l'aveva punita per la nostra avventura nella Foresta Proibita, la notte in cui avevamo trovato la cucciola di Demiguise. Stava crescendo sana e forte, e Hagrid non poteva essere più felice di quella inusuale compagnia. A volte, quando avevamo le ore di buco e non c'era granché da studiare, mi piaceva fare un salto da lui e passarci un po' di tempo insieme. La Demiguise era sempre contenta di vedermi, e le piaceva aggrapparsi con le zampe al mio collo per riposare sul mio petto.

"Stiamo solo parlando di vedere un film," sospirò Isabelle. "Un paio d'ore e via."

"E dobbiamo andare per forza nelle cantine di Mielandia alle undici di notte per farlo?" chiese Albus, come sempre dalla parte di sua cugina.

Il piano era destinato a fallire, sia perché la McGranitt non era di certo stupida e se mancavano dieci persone lo veniva a sapere, e sia perché un po' tutti avevamo l'ansia di essere sorpresi fuori dai letti e di subire una punizione a pochi mesi di distanza dagli esami. Ad ogni modo, rimanemmo d'accordo per andare nelle cantine di Mielandia per le undici e un quarto, superando di una decina di minuti il momento in cui Gazza, finito di vagare per i corridoi, teoricamente si sarebbe dovuto ritirare. La ronda quella sera toccava ai Prefetti di Corvonero, perché noi l'avevamo fatta quella prima - anche se sarebbe stata una bugia dire che avevamo davvero svolto il nostro compito; comunque anche se avessero beccato me e Rose, avremmo sempre potuto dire che stavamo facendo una ronda straordinaria, o qualcosa del genere.

Il programma era quello di guardare un qualche film dell'orrore uscito tempo prima al cinema, e che noi, stando in un luogo dove non funzionava neanche uno spazzolino elettrico, ci eravamo persi. L'idea brillante di ritirarci ad Hogsmeade era stata di Isabelle e Noah, e non riuscivo a immaginare neanche una persona felice di quell'impresa al di fuori di loro due.

Il primo problema sorse quando una ragazzina disperata per il compito dell'indomani chiese a Rose ed Albus di aiutarla. Una volta finito quello, alle undici, la McGranitt mi fece recapitare da Gazza un biglietto che diceva di raggiungerla nel suo Ufficio per prendere una lettera del Ministero, o qualcosa del genere. Non sapevo se mio padre si fosse già attivato per ottenere informazioni sull'Accademia Auror che avrei frequentato finita la scuola, ma quell'incontro mi avrebbe tolto non poco tempo, e perciò convinsi gli altri ad incamminarsi, nel frattempo.

I due cugini inseparabili furono quelli più ostili alla mia proposta, ma alla fine riuscii a spuntarla, e li accompagnai al passaggio segreto prima di dirigermi da solo verso la Presidenza.

"Vorrei non essere costretta a vedere un horror da sola con tutte coppie," brontolò Rose, camminando al mio fianco con lentezza tale che eravamo gli ultimi, forse cercando di rallentare il momento in cui l'avrei lasciata procedere per conto suo fino alle cantine di Mielandia.

"Si tratterà di una mezz'ora al massimo," le assicurai, sentendo una parte di me scaldarsi con il suo affermare quanto desiderasse la mia presenza. "E poi, è solo uno stupido film."

"Vorrei vedere te, a stare in una cantina buia piena di persone che si sbaciucchiano e con un freddo cane," sbottò, lamentosa, stringendosi nel mantello. "Non potevamo rimanere nel dormitorio?"

La guardai, incredulo. "Ma se non ho fatto altro che ripetertelo tutto il giorno?" feci, con tono tagliente. "Ti avevo proposto di stare noi due da soli, e tu hai detto—"

"Che potevo fare? Isabelle mi ha pregata di venire," ribatté, trascinando i piedi per terra. "Fidati che avrei voluto restare al caldo..."

Mi fermai, e lei con me. Le misi le mani sulle spalle, guardandola attentamente. "Lo sai che mi basta solo una tua parola per mandare tutti via e rimanere soli, vero?"

Un sorriso delicato le incurvò le labbra. "Lo so, e ti amo per questo."

Se lei mi amava, le cose non potevano andare male, pensai, approfittando del nostro essere rimasti indietro per rubarle un bacio.

Non sapevo, però, quanto mi stessi sbagliando.

^^

L'incontro con la McGranitt non sarebbe potuto capitare in un momento più sbagliato, ma mi sentivo troppo euforico per lasciarmi abbattere da un imprevisto di questo tipo. Lasciai il suo Ufficio senza pensare un minuto di più al motivo per cui mi aveva convocato, perché semplicemente non mi importava.

Ecco, nei mesi successivi riflettei ampiamente su ciò che scatenò la catena di eventi che sarebbe andata a stravolgere le nostre vite, sulla 'goccia che fece traboccare il vaso', e a distanza di tempo potei giungere ad una conclusione.

Quella goccia si era trovata al quarto piano, e aveva avuto il nome di Julian Walker.

Non mi chiesi perché stesse in giro per il Castello a quell'ora, o perché fosse proprio in quel piano, che non ospitava nulla eccetto la Biblioteca e l'Aula di Alchimia; la mia attenzione fu subito attirata dal ghigno che indossava, e che gli avrei cancellato dalla faccia volentieri a suon di cazzotti.

Non mi consideravo affatto una persona violenta, io. Per farmi alzare le mani su qualcuno, doveva succedere qualcosa di davvero grave - ad esempio, quando a dicembre avevo creduto che Noah avesse avvelenato Rose, e per questo gli avevo spaccato il naso con un colpo secco. Comunque, quel tizio mi ispirava davvero pensieri malevoli, tanto che l'avrei strozzato volentieri a mani nude se non avessi saputo che Rose ci sarebbe rimasta male. Tutte le volte in cui si avvicinava a lei bastavano per farmi vedere rosso, ad essere sinceri.

Ad esempio, quando avevamo combattuto contro l'Hevardan, e lui un secondo prima mi aveva insultato senza scrupoli e quello dopo, non appena era apparsa lei, era passato a fare il pacifista e la vittima della situazione; oppure quando io e lei avevamo litigato, e subito aveva colto l'occasione per portarsela in giro per Hogsmeade, sapendo che non avrei potuto fare niente; o ancora, sull'Hogwarts Express a gennaio, quando avendomi visto alla fine del corridoio aveva messo le mani sulle spalle della mia ragazza ostentando chissà quale preoccupazione nei suoi confronti.

Quello che più però contribuiva al cocente odio che provavo nei suoi confronti - e io raramente sentivo più del comune fastidio per chiunque, - era quello che aveva fatto a inizio pentamestre, facendo ubriacare Rose nella Stanza delle Necessità.

"Malfoy," mi apostrofò con quella solita faccia da schiaffi, sogghignando divertito. Era alto almeno dieci centimetri meno di me, esile e magro, eppure credeva di poter fare lo sbruffone. Quel ragazzino l'avrei ucciso prima o poi, ne ero certo, a costo di passare la mia intera esistenza ad Azkaban.

Generalmente avrei lasciato che le sue provocazioni mi scorressero addosso senza reagire; adesso, tuttavia, non c'era Rose a fermarmi, e se quel decerebrato avesse osato anche solo dire una parola sbagliata, mi sarei vendicato di tutte le volte in cui mi ero cucito la bocca per non recarle un dispiacere.

"Walker," risposi, pronto a superarlo per raggiungere i miei amici. Avrei dovuto immaginare che avendo la succulenta possibilità di provare a indispormi senza passare per il cattivo della situazione l'avrebbe colta, e per questo mi rimproverai della mia sorpresa nel vederlo fermarsi in mezzo al corridoio buio.

"Corri da qualche parte?" domandò, con quel suo tono fastidioso.

"Non sono affari tuoi," risposi spicciolo, allungando un passo per superarlo, ma lui si piazzò tra me e la rampa delle scale, senza togliersi quel sorriso da schiaffi dal volto.

"Volevo solo sapere dove avresti passato la tua serata," mormorò, alzando le mani in un gesto serafico. "Non c'è bisogno di scaldarsi."

Roteai gli occhi. "Che cosa vuoi?" non mi curai di nascondere la mia aria aggressiva. La sopportazione che avevo nei suoi confronti era già molto scarsa, se poi ci si sommava quel comportamento raggiungeva un livello raso terra.

"Te l'ho detto," mi fece presente, con la pazienza di un insegnante che parlava con un alunno dell'asilo, "solo sapere con chi sei stasera."

Capii che non avrebbe lasciato perdere se non l'avessi accontentato, e io avevo stampata in mente l'immagine dei miei amici che mi stavano aspettando, quindi sbottai. "Con la Weasley e gli altri," risposi, quasi ringhiando. "Contento, adesso?"

La smorfia più compiaciuta che avessi mai visto si allargò sui suoi lineamenti spigolosi. "Capisco, capisco," mormorò, e improvvisamente si fece da parte, liberando il corridoio e permettendomi di andare via.

Gli lanciai un'ultima occhiata prima di superarlo, chiedendomi che scopo potesse aver avuto per lui quella conversazione senza né capo né coda, ma sollevato che fosse finita in modo da poter andare con gli altri a Mielandia.

Il sussurro che mi accompagnò, però, non solo ebbe il potere di farmi fermare di nuovo, ma riuscì anche ad avere un impatto su di me che sarebbe equivalso ad uno schiaffo dietro la nuca. "Del resto, anch'io andrei così di fretta, sapendo di potermela scopare tutta la notte."

Non ebbe bisogno di specificare di chi stesse parlando. La tensione mi fece irrigidire le spalle. Una scarica di furia allo stato puro invase ogni centimetro del mio corpo, e per un secondo non sentii nulla che non fosse il cocente, bruciante desiderio di afferrarlo per la collottola e sbatterlo al muro. La mia mente fu come invasa da una patina opaca, non riuscii a vedere, né pensare, nulla con lucidità.

Quella non era questione di gelosia, ma di rispetto. E poco c'entrava che lei fosse la mia ragazza, che lui non si dovesse azzardare neanche a sfiorarla con lo sguardo, perché solo il pensiero di ciò che aveva detto aveva avuto l'effetto di sconquassarmi lo stomaco.

Mi avvicinai a lui con i pugni stretti lungo i fianchi, senza la garanzia di essere capace di trattenermi dallo scagliarglieli addosso. Parlai solo quando fui a pochi centimetri dal suo viso, quasi non riconoscendo la mia voce per quanto era cupa e minacciosa. "Che c'è," sussurrai, con tono mellifluo, "credi che io non sappia di quello che hai fatto?"

La sua espressione facciale si distorse, non in tracotanza e superiorità come mi sarei immaginato, ma, solo per un millesimo di secondo, in vibrante paura. Vedere quell'emozione mi stupì, in parte, ma non abbastanza da dire o fare nulla.

"Non so di cosa tu stia parlando," disse, ora inespressivo.

"Io penso di sì," replicai. "Non è stata la più brillante delle mosse quella di mandare Amanda a farmi dire che Rose ti aveva quasi baciato, sai. Non ha molta forza di volontà, e c'è voluto poco a farle ammettere che l'avevi costretta."

Walker alzò un labbro in una smorfia arrogante. "Anche se fosse?"

Il suo continuo indispormi mi stava per far perdere la testa. Un lato di me pregò che la finisse, in modo da non rischiare di ferirlo gravemente - era più piccolo e esile di me, difficilmente avrebbe avuto la meglio in uno scontro, - ma non era abbastanza forte da convincermi ad andarmene io per primo. Con quello che aveva detto su Rose, poi... non sarei mai stato in grado di farlo.

"Qual era il tuo obiettivo, uh?" domandai, retoricamente, facendo un passo avanti e colmando la distanza che ci separava. Lui dovette alzare il mento per fissarmi. "Speravi di farci lasciare? Di rompere definitivamente il nostro rapporto, solo con una stronzata del genere? Mi dispiace infierire, sai," conclusi, "perché stiamo insieme stabilmente da allora."

E qui Walker gonfiò il petto e sbuffò una risata, talmente rigonfia di sarcasmo che di riflesso feci un passo indietro. "Ma sentiti," sbottò, grondando veleno da tutti i pori. "Sei davvero convinto di averla conquistata, eh? Di avere la totale esclusiva su di lei."

Quel ragazzino non ci stava con la testa. Era questo, quindi? Era così innamorato di lei che credeva che mettendo in giro false voci sarebbe riuscito a farci lasciare, e così a prendere lui il mio posto? Era patetico. Non era all'altezza, e non lo sarebbe mai stato, di ricreare il rapporto che avevamo io e lei, anche solo lontanamente. Mi ero stufato di vederlo, figurarsi di sentirlo parlare.

Alzai la mano per interromperlo, sospirando. "Senti, io non ho il tempo né la voglia, adesso, di starti a sentire. Non mi interessa della tua ossessione per Rose, del fatto che credi che riuscirai a conquistarla, in un modo o nell'altro. Sta' lontano da lei, o giuro—"

E qui lui effettivamente si allontanò, ma non di certo per eseguire il mio consiglio; con un'aria vittoriosa negli occhi, scoppiò a ridere. "Ma non mi dire," disse a bassa voce, forse tra sé e sé, ma facendosi comunque udire perfettamente. "Tu non lo sai."

Quell'atteggiamento così superbo mi indispettì, unito alla voce incredula e al divertimento - anzi, al puro piacere, - che il suo volto mostrava. Mi accigliai. "Cosa dovrei sapere?"

E qui Julian Walker capì che aveva un serio, enorme potere su di me, e che ero in posizione di svantaggio rispetto a lui. Per questo, e per tutta la serie di volte in cui ero stato io a considerarlo inferiore, un largo sorriso gli incurvò la bocca. "Diciamo soltanto che adesso so anch'io cosa si prova, ad avere a che fare con quella ragazza."

Benché quella frase, isolata dal contesto, non avrebbe avuto alcun significato, tutta la rabbia che mi aveva invaso con la sua precedente affermazione mi fece andare il sangue alla testa: con un ringhio che aveva dell'animalesco, lo afferrai per la camicia e lo sbattei al muro con tutta la mia forza, stringendo il tessuto a pugni e con i denti talmente stretti da stridere.

"Prova a spiegarti meglio."

Lui boccheggiò come un pesce abbandonato sulla battigia, e senza battere ciglio notai che aveva i piedi che gli sfioravano il pavimento per quanto in alto lo stavo tenendo. Di fronte al suo silenzio applicai ancora più pressione al suo petto, con un conseguente rantolo da parte sua. "Allora?" proruppi, guardando la sua stupida faccia a distanza minima dalla mia.

Capii che cosa erano quei brividi che mi ricoprivano la pelle solo quando notai che nonostante tutto, nonostante il dolore che provava e nonostante il modo in cui era appeso alla parete, stava ancora sorridendo, vittorioso.

Era paura, e lui ne era consapevole.

"Lo sai benissimo," ghignò, compiaciuto. "D'altronde, te la scopi anche tu."

Quella parola, quella singola parola, quell'anche maledetto, fu il principio della fine.

Lo lasciai andare di colpo, affannato, e mi portai automaticamente una mano al collo, come se fossi stato io quello che aveva appena rischiato di morire soffocato. Il cuore adesso rimbombava come una parata marziale nelle mie orecchie, le unghie affondarono nella mia stessa pelle con violenza, fino a lasciarmi dei segni.

"Stai mentendo!" gridai, sentendo ogni millimetro del mio corpo tremare. "Esattamente come hai mentito riguardo il bacio."

Il sorriso che aveva mantenuto intatto dall'inizio di quella assurda conversazione si allargò persino di più. "Oh, su questo non ho bisogno di mentire, perché ho un testimone. Lo sapevi," aggiunse con tono casuale, come se mi stesse raccontando di una ricetta per fare un dolce, "che il professor Lupin ha l'abitudine di tornare a prendersi un tè nel suo studio quando la sera non riesce a dormire? Noi no," e qui si mise a ridere. "È stato molto imbarazzante, ma ne è valsa la pena."

Ma ne è valsa la pena.

Ancora adesso non saprei dire se il mio cuore si sbriciolò per quel periodo, per quella frase così carica di orgoglio, o se per quello che accadde dopo.

Julian vide come le mie emozioni mi si riflettessero negli occhi, come avessi dimenticato la Maschera chissà dove, come lei mi avesse abbandonato proprio nel momento in cui più ne avevo bisogno; e allora inflisse il colpo di grazia, avvicinandosi lui a me, e mettendomi la mano sulla spalla.

"Va' a chiederglielo, se non ci credi."

Tante sofferenze si sarebbero potute evitare, se io fossi stato sordo a quel consiglio. Infinite, direi. Ancora oggi, ad anni di distanza, se ripenso a quell'ultima notte di febbraio percepisco una parte di quell'immenso dolore che per tanto tempo non mi avrebbe più abbandonato.

Fui confuso dalla sicurezza che ostentava - come poteva affermare di aver fatto sesso con Rose in modo così convinto, sapendo che se fosse stata una bugia e lei l'avesse saputo, ci avrebbe rimesso tutto? - e dal suo invitarmi a chiedere conferma ad un insegnante - non un insegnante comune, ma addirittura suo cugino, che l'avrebbe dovuta proteggere - e dal trionfo nel suo sguardo.

Così sbagliai: scelsi la via più infelice, quella che sembrava la più giusta, e atterrito dalla risata di quel ragazzo che si riverberò per tutto il corridoio, non imboccai il passaggio segreto per confrontarmi con lei, ma la strada del baratro.

Andai a parlare con Edward Lupin.

^^

Bussai alla porta consapevole di avere il cuore in gola. Da quello che mi avrebbe detto quel ragazzo sarebbe cambiato il mondo, il mio mondo. Non sapevo se fossi pronto ad accettare qualsiasi conseguenza avesse avuto il discorso con Walker, ma che si rivelasse tutto un'enorme stronzata oppure la verità, non avevo scelta. Le cose sarebbero cambiate, di lì a pochi minuti, e ne ero terrorizzato.

Davvero Rose mi aveva tradito? Aveva deciso di voltarmi le spalle nonostante tutto, solo per fare sesso con quel coglione patentato? Sembrava innaturale e sciocco solo a pensarlo, eppure ero appena entrato nello studio dell'unica persona che mi avrebbe potuto confermare quel dubbio così pesante.

Su Teddy si poteva contare.

La situazione era la seguente: se lui mi avesse risposto di sì, che li aveva effettivamente sorpresi nel mezzo di - no, neanche riuscivo a pensare un'oscenità simile - qualcosa, nonostante il legame affettivo che lo legava a Rose, allora probabilmente sarebbe stato vero. Lui non era un idiota come i due Potter, sapeva che c'era qualcosa tra me e lei, glielo avevo letto negli occhi la sera di Natale - e io speravo anche che mi avrebbe detto la verità in quanto imparentato con mio padre, e amico della nostra famiglia oltre quella di Al.

Se invece mi avesse risposto negativamente, avrei potuto togliermi quel tarlo dalla testa, e ne avrei parlato con Rose, la quale mi avrebbe rimproverato per averci anche solo pensato, e io avrei potuto prendere a pugni Walker fino a cambiargli i connotati facciali.

Si vedeva che la stanza in cui mi trovavo una volta era appartenuta alla McGranitt: l'austerità dell'ex insegnante di Trasfigurazione si rifletteva non solo nell'aula ma anche nel suo studio. Si trattava di una piccola stanza ricoperta da librerie sui tre lati che non comprendevano la porta d'ingresso, e i libri presenti erano una selezione dalla biblioteca della tenuta Makepeace. Come scrivania, un semplice tavolo di legno con sopra un mappamondo, per ricordare sempre che l'uomo era una goccia d'acqua in un oceano, e una lampada con una candela, che rendeva l'atmosfera più intima. Una comoda sedia completava l'arredamento. Nessuna foto di famiglia, nessun ricordo della vita prima del suo incarico, almeno per la Preside; Teddy invece aveva subito appeso tre grosse foto incorniciate - una con i Potter, una dei suoi genitori, Remus e Tonks, e l'altra con i miei.

"Scorpius," aggrottò la fronte nel vedermi piombare nel suo ufficio. "È successo qualcosa? Sembri aver visto un fantasma."

Sì, il fantasma della mia relazione con Rose, pensai sarcasticamente. Certo che non gli sfuggiva proprio nulla.

Cercai di mantenere il sangue freddo. Non avevo mai avuto un carattere particolarmente incline all'ottimismo, dovevo ammetterlo; allo stesso tempo, mi forzai a mantenere una parvenza di razionalità. Ero sicuro che Walker avesse solamente inventato un'enorme bugia, una costruzione volta al vedermi soffrire come un cane, sapendo che era proprio lei il mio punto debole. Non mi ero mai lasciato toccare dalle sue insinuazioni, finché Amanda non era venuta a dirmi del loro mancato bacio, e lui doveva aver capito che Rose era l'unico modo per vedermi stare male.

Tralasciando poi quanto fosse per me imbarazzante dover parlare di una cosa del genere con lui, con Teddy. Non solo era il cugino di Rose, più o meno, ma anche la persona cui i miei genitori tenevano di più all'infuori di me, che era cresciuto con loro, che li aveva amati quasi come li amavo io. Era strano sapere che prima di me c'era stato lui nei loro cuori, e che ci sarebbe stato sempre.

Soprattutto considerando che mia madre era morta quando io avevo avuto tredici anni, Teddy - Edward - l'aveva conosciuta molto meglio di me. Non sapevo se sarei mai riuscito a superare questo dolore, la consapevolezza che non ero stato con la mia stessa madre abbastanza da frequentarla come avevano fatto tutti gli altri.

Scacciai immediatamente tutta la sequela di pensieri che la vista di quel ragazzo provocava ogni volta in me, e mi schiarii la gola. "Ehm—sì, veramente sì, è successo qualcosa."

I suoi occhi verdi, l'unica parte del corpo che non aveva mai trasformato con le sue doti da Metamorfomagus, mi guardarono con dolcezza e ansia al contempo, per spronarmi a dire qualcosa, ma come con la certezza che non avrei detto niente di positivo.

Presi un respiro profondo. Sapevo che quella domanda, in base alla risposta che avrei ricevuto, avrebbe cambiato tutti i miei piani, la mia relazione, il mio amore per quella testarda, e ne avevo una paura tale da sentire il gelo nelle ossa.

"Senti, non so come dirlo in modo che non suoni strano," lo avvertii subito, mettendo le mani avanti. "Però devo sapere una cosa, e mi hanno riferito che tu ne sei stato l'unico testimone."

Una grande pena, profonda compassione, invase il suo sguardo, rendendolo così afflitto da stroncarmi, e togliermi il fiato dai polmoni.

Razionale, sii razionale. È tutto un madornale errore. Rose non ti tradirebbe mai, non lei.

Le parole parvero artigliarmi la gola nel rifiutarsi di uscire. "Quindi... è vero?" chiesi, senza fiato dallo sforzo di pronunciare quella frase. "Li hai visti?"

Non fu tanto la sua risposta affermativa a rompermi - "Io... sì, Scorpius, mi dispiace tanto," - a spezzarmi in due come un fuscello, a prendermi il cuore tra le dita facendolo scoppiare, a sbriciolare i miei polmoni con una forza inaudita; non fu il modo in cui allungò la mano per sfiorarmi la spalla a causare l'ondata di gelo che mi ghiacciò il sangue nelle vene, o a scavare la fossa infernale in cui si schiantò lo stomaco; non fu la maniera in cui cercò di confortarmi, scegliendo parole accurate ma immensamente vuote, a farmi credere di star per morire.

No. Fu il modo, il modo in cui mi guardò. Sul momento non avrei saputo neanche esprimere compiutamente che cosa vidi in quello sguardo: adesso lo so, invece.

Io vidi me stesso.

Non notai il rammarico, la sofferenza nel comunicare una notizia così sconvolgente e terribile, la pietà, la pena, la voglia di starmi accanto nonostante fosse stata la sua dichiarazione a farmi a pezzi - io notai solo il mio riflesso.

Nelle sue iridi, vidi le mie. Vidi ciò che lui stava vedendo - un ragazzo spezzato, un uomo che si era appena vista sottratta la sua unica motivazione di vita, la sua fonte di felicità, l'oggetto del suo amore. Vidi la mia espressione smarrita, il petto che mi si alzava velocemente, il respiro soffocato dal nodo della cravatta, l'aria di una creatura selvatica rinchiusa in una gabbia troppo insulsa per lei. Vidi me stesso, quel me stesso che avevo guardato tanto a lungo nello specchio anni prima, e che avevo pregato di non vedere mai più.

Come osava guardarmi così? Cosa ne poteva mai sapere, lui, del mio dolore?

L'unica cosa che riuscii a fare fu sottrarmi alla sua presa, forse con disgusto, forse solo con un immenso dolore nei lineamenti del volto, e con il cuore che pompava nelle orecchie mi allontanai senza dire un'altra parola. Le mie mani - tremavano forte - afferrarono la maniglia della porta dello studio, e me la chiusi alle spalle.

Quindi, Walker non aveva mentito. Edward non mi avrebbe mai detto una cosa del genere, non sapendo che avrebbe rovinato la bugia orchestrata dalla cugina.

Era stata Rose a mentirmi.

Barcollai come un ubriaco nel mezzo del corridoio, deserto a quell'ora, con la mente affollata di pensieri che non riusciva a sferrare, che scivolavano via come l'acqua nonostante la sua presa disperata. Era come se non riuscissi a concentrarmi su niente, e più cercavo di farlo, di costruire un qualche ragionamento razionale, più non ci riuscivo.

Iniziai a percepire una sensazione di soffocamento che mi fece impaurire ancora di più di quanto non fossi già. Mi appoggiai alla parete rocciosa, sostenendomi con le spalle mentre le mie dita, scosse da tremori incontrollabili, correvano a sciogliere la cravatta. Per un attimo non riuscii, e la mancanza di respiro si trasformò in un gemito strozzato; poi la slacciai, e la gettai dall'altra parte del corridoio. Iniziai anche a sbottonarmi la camicia nel tentativo di alleviare quel dolore opprimente, ma non avevo sufficiente controllo sulle mani per riuscirci, e per questo afferrai i lembi e la stracciai, facendo saltare tutti i bottoni che esplosero in un tintinnio angelico non appena colpirono il pavimento.

Dovetti chiudere gli occhi per far fronte all'incipiente vertigine: per un solo momento, tutto attorno a me oscillò come se fossi stato su una giostra, e con un lamento mi aggrappai forte alla parete, sentendo i polpastrelli delle dita scorticarsi a causa delle presa troppo brutale sulla roccia. Percepivo la camicia attaccata alla schiena dal sudore gelido che mi aveva ricoperto il corpo, che gocciolava lungo le mie tempie, che mi bagnava i capelli. Le vertigini portarono ad un mal di stomaco atroce, e il mal di stomaco alla nausea; dovetti scivolare sul pavimento per non cadere, e mi portai la testa tra le ginocchia.

Quello che più mi distrusse fu sentire gli occhi bruciare, e le lacrime offuscarmi la vista. Non ero mai stato un bambino particolarmente incline al lamento, all'esternare le mie sofferenze tramite il pianto, e man mano questa caratteristica si era rinforzata. L'unica volta da quando ero piccolo in cui avevo pianto in modo tanto disperato, era stato quando mia madre era morta.

Sentire quel tormento riaffiorare dentro di me fu la cosa peggiore che avessi mai sperimentato dall'agosto di quell'estate.

Rose mi aveva tradito. Rose era andata con lui. Rose aveva voltato le spalle al mio amore e aveva scelto un'altra persona sulla quale contare.

E io non mi sentivo più me stesso.

I singhiozzi che iniziarono a scuotermi il petto furono per certi versi liberatori, e per altri peggiorarono la situazione. Respirare divenne più difficoltoso, ma era come sentire quel male sgorgare al di fuori di me, lasciarmi, per un attimo, in pace. L'unico problema era che un singhiozzo tirava l'altro, e non riuscii ad alzarmi da quel pavimento freddo e inospitale per una quantità innumerevole di tempo.

Come avrei mai potuto risollevarmi da questo? Quando sarei stato capace di lasciare quell'angolo, di tornare tra i miei amici e fingere di stare bene, di annunciare che la nostra relazione era finita, un misero mese di finta gioia, di falsità, di bugie, di inganni; come avrei dovuto rivederla in faccia, dirle che sapevo tutto, e che mi aveva spezzato?

Ero innamorato di lei, gliel'avevo detto, gliel'avevo confessato, adesso lo sapevano tutti! E che faceva? Mi voltava le spalle, mi uccideva dall'interno, usava il mio amore per lei come un'arma affilata per lacerare ogni rimasuglio di bontà che c'era in me.

Rose Weasley, che era stata la mia salvezza, adesso rappresentava la mia rovina.

Come avrei dovuto affrontare tutto questo? Tutta la felicità, le preoccupazioni, le gioie, i dolori, le risate, i baci, i sussurri, gli sguardi - davvero mi aspettavo che sarei stato capace di rimuovere ogni cosa dalla mia mente? Eppure i momenti con lei erano marchiati a fuoco nella mia anima, indelebili, immutabili, io ero fatto di loro, mi aiutavano a vivere.

Prima o poi io l'avrei affrontata, e avrei rotto qualsiasi legame ci fosse stato tra noi, avrei dovuto camminare via da lei e da noi e da tutto, e se già mi sentivo morire in quell'angolo del Castello, da solo, figurarsi come mi sarei sentito quando avrei avuto davanti i suoi occhi colmi di lacrime.

Ma avrebbe pianto? Si sarebbe pentita, un minimo, delle sue azioni? Perché aveva voluto prolungare quel teatrino patetico, fingere l'intero rapporto tra di noi per settimane, se poi alla fine era quell'altro ciò che voleva? Perché aveva dovuto continuare a tenermi legato a sé, sapendo che non c'era giorno che passava in cui non mi innamoravo un filo in più di lei?

Mi aveva usato, forse, forse quella era un'opzione un minimo plausibile, ma perché? Cosa le potevo aver dato, io, per che cosa mai avrebbe potuto dire che ne valeva la pena di rischiare che la scoprissi, che ci rimanessi così male?

Era assurdo - quell'atrocità straziante era iniziata da quanto, mezz'ora, massimo?, e già avevo la sensazione di non poter vivere nel sopportarla ancora, e di non ricordare più come fosse la vera felicità. Eppure io ero stato felice, con lei. Fino a davvero poco tempo prima, ne ero sicuro.

E adesso non avevo più la memoria di come ci si sentisse, nel vivere privi di quella sofferenza. Strane, le pene d'amore. Cercare di ricordare come fosse la gioia delle settimane scorse non fece che acuire la fitta che già mi animava, perché quella gioia me l'aveva data lei, in ogni piccolo gesto, sorriso, discorso, sguardo, bacio.

E io ne avrei dovuto, d'ora in poi, farne a meno. Come, non avrei saputo dirlo. Non avrei più avuto la sua immagine stampata in testa nell'alzarmi e nell'andare a dormire, non avrei cercato i suoi occhi dall'altra parte della stanza a lezione, non sarei andata a vederla agli allenamenti di Quidditch, non mi sarei più seduto al suo fianco a lezione di Alchimia, non avremmo studiato insieme nella Sala Grande, non saremmo più stati il collante del nostro gruppo.

Fu il profondo sospiro che derivò da quel pensiero così puramente disperato che mi tradì.

Quando avevo detto che prima o poi l'avrei dovuta affrontare, guardare e soprattutto lasciar andare, non avevo messo in conto che sarebbe potuto benissimo accadere quella sera stessa. Del resto, io sarei dovuto andare da Mielandia a vedere un film con lei e gli altri - la tecnologia non prendeva nel Castello - e non mi era venuto in mente che mi sarebbe potuta venire a cercare.

Sentii come prima cosa i suoi passi. Era piccola, bassa, minuta, ma aveva una camminata decisa. Poi il suo respiro affannato mi invase le orecchie, sovrastando quello mio e il battito del mio cuore. Non ebbi il coraggio di alzare la testa, ancora sepolta tra le ginocchia per calmare l'ondata di panico che mi aveva travolto.

"Scorpius!" la sentii ansimare con voce strozzata, piena di preoccupazione e allo stesso tempo di sollievo. Come facesse a recitare così bene, per me rimaneva un mistero.

Si mise a correre e mi raggiunse in una manciata di istanti, gettandosi a terra davanti a me, ignorando il probabile dolore che avrebbe dovuto provocarle lo sbattere le ginocchia sulla pietra del pavimento. Mi salì un singhiozzo in gola non appena posò le mani sulla mie spalle, accarezzandomi la testa, la schiena, le gambe, affannata e, almeno così suonava, spaventata.

"Amore, amore mio," esalò velocemente, e trasalii dalla sorpresa sia nel sentire il suo tocco, così amorevole, su di me, sia nel sentirmi chiamare amore.

Non l'aveva mai fatto prima.

"Che cosa è successo?" sussurrò, suonando sgomenta nel vedermi in quello stato. "Ti ho cercato ovunque, ti prego, che succede..."

La leggera pressione che attuò sul mio viso fu tutto ciò che bastò per farmelo sollevare, e una minuscola parte di me si rimproverò nel vedere come il mio corpo rispondesse completamente al suo. Mi distrassi, però, nel vedere come mi stava guardando.

I pollici veloci spazzarono via le lacrime dalle mie guance, o ciò che ne restava, il volto contratto in una maschera di afflizione. "Scorpius..."

Gli occhi, ecco la mia distruzione.

Chi mai amò che non abbia amato al primo sguardo?, aveva scritto Shakespeare.

Quando ti guardo, sembra che il mondo stia tremando, furono le parole di Antonin Artaud.

La bellezza è negli occhi di chi guarda, disse Oscar Wilde.

E io mi stavo struggendo d'amore di fronte quegli occhi.

Considerai, in un impeto di irrazionalità, di fingere. Fingere che non avessi scoperto del suo tradimento, e godermi un'ultima serata con lei, illudermi del suo amore, crogiolarmi nelle sue doti consolatorie, e cibarmi di quello sguardo infinito.

Questo era ciò che in quel momento desideravo con tutto il cuore, un desiderio ardente, malato, che avrebbe distrutto quel poco che rimaneva di me se gliel'avessi lasciato fare. Che male ci sarebbe stato, a restare in quella bellissima illusione solo poche ore in più?

Lo sapevo, cosa sarebbe successo. Non ne sarei più uscito. Mi sarei continuato a dire all'infinito che un poco in più non poteva nuocere, e nel frattempo avrei perso definitivamente il coraggio di sottrarmi a quella morsa così piacevole e mistificatoria.

"Scorp..." disse ancora, posando una mano sulla mia guancia. Quel contatto, che avevo agognato con tutto me stesso, rappresentò per me un vero e proprio fulmine a ciel sereno, un intenso e immediato piacere, miscelato ad una acuta fitta che mi trapassò da parte a parte.

Dovevo scegliere me stesso, o almeno così lo Scorpius razionale mi stava gridando.

Allontanala, non ascoltarla, non guardarla, non cedere.

Era così difficile, così assurdamente sbagliato averla tra le braccia e doverla respingere, vedere l'amore che provava per me e sapere che non era affatto vero, sentire il suo calore e dover richiamare a me il gelo. Cosa mi rimaneva da fare, se non optare per la soluzione più ardua, con la speranza che a lungo andare si sarebbe rivelata la migliore?

La gentilmente per i polsi e allontanai quelle mani dal mio volto, vedendole così piccole e sottili rispetto alle mie. Anche con il cuore ridotto in briciole com'era adesso, non avrei mai neanche sfiorato l'idea di trattarla bruscamente. Poteva aver scelto di tradirmi come aveva fatto, ma mai avrei alzato un dito su di lei - l'amavo troppo per farlo.

Nella penombra del corridoio, illuminato in maniera fioca dalle poche torce appese alle pareti, le sue iridi parvero nere come la pece. Mi guardò con enorme confusione: in effetti, non l'avevo mai allontanata da me in quel modo.

Evitai di toccarla anche nell'alzarmi in piedi. Sarà stato puro orgoglio, ma non mi andava di essere visto in quell'attimo di debolezza. Tra l'altro, ritenni la cosa migliore scegliere di allontanarmi senza dire niente, reputandomi incapace di affrontare un litigio in tali condizioni.

Sapevo però che per Rose la codardia non faceva parte del suo lessico, e che per questo non avrebbe esitato a cercare un confronto. Mi afferrò per il braccio, tirandomi all'indietro senza troppa delicatezza. "Parlami," disse, cercando quel contatto visivo che le stavo negando, "cosa c'è che non va?"

Non avevo le forze per affrontare a mente lucida questa discussione con lei, e ne ero perfettamente a conoscenza. "Ti prego, Rose."

"Ti prego?" ripeté, confusa e, in parte, sconvolta. "Da quando non mi dici le cose?"

Da quando ho scoperto che ti sei scopata Walker, forse.

"Possiamo parlarne domani?" domandai stancamente, massaggiandomi le tempie con due dita.

"No, ne parliamo ora," insistette, sempre più presa in contropiede dal mio atteggiamento. "Come puoi pretendere che me ne vada a letto senza prima sapere perché stai male? Stavi piangendo fino a due secondi fa, Malfoy. Non ti ho neanche mai visto triste. Qualsiasi problema tu abbia, possiamo risolverlo, insieme."

Fu quell'ultima parola che causò un vero e proprio collasso nel mio sistema nervoso. Io ero spezzato dal suo tradimento, avevo appena avuto un accenno di attacco di panico, e per quello che mi riguardava mi sarei potuto benissimo gettare al di sotto della torre più alta del Castello; e lei davvero aveva il coraggio di continuare a mentirmi in quel modo disgustoso? Avevo il cuore a pezzi, dannazione. Perché non si toglieva quella maledetta maschera di falsità, per una volta? Perché non pensava al mio bene?

Perché non mi amava, ecco perché. Se mi avesse amato non avrebbe voltato le spalle, non sarebbe andata con qualcun altro, non mi avrebbe mentito, non mi avrebbe ferito.

Eppure eravamo lì, in quel dannato corridoio, uno di fronte all'altra, lei disposta a parlarmi con il cuore in mano, ad ascoltare quel che non andava, e io che avrei voluto solo non averla mai incontrata.

Dovetti aspettare un paio di istanti in più prima che fossi in grado di parlare senza avere la voce tremante - una delle cose che odiavo di più. Il mio carattere mi imponeva di essere in controllo della situazione, intransigente, avere una costante eleganza, forza d'animo; non certo di temere di esprimermi. E invece ero lì, le mani tremanti in tasca per nasconderle al suo sguardo, e ogni singolo nervo sull'orlo di un cortocircuito. Riuscii a prendere aria, e sorprendentemente la mia voce uscì bassa ma decisa, impenetrabile.

"Credo che dovremmo finirla qui."

Non seppi dire se quella frase fece più male a me o a lei - ancora, per chiarire, le sue doti da attrice erano veramente fenomenali. Appena mi sentì parlare sgranò gli occhi, e indietreggiò barcollando, come se avesse appena ricevuto un poderoso schiaffo in pieno volto. Si portò le mani alla bocca, fissandomi senza dire niente.

Vederla soffrire in quel modo, anche se sapevo che era bugia, non ebbe altra conseguenza che allargare lo sconcertante vuoto che avevo nel petto; la mia reazione più immediata sarebbe stata quella di prenderla tra le braccia, spazzare via il dolore a suon di baci, assicurarle che non era vero, che per me non ci saremmo mai dovuti separare. Dovetti affondare le unghie nei palmi fino a sentire la pelle bruciare e una sostanza vischiosa colare fino alle dita. Ma lei non poteva vederlo.

Si portò le mani sul viso, sfregandolo con forza, come a rimuovere il ricordo delle mie parole. "Okay. Okay. Calma," la sentii sussurrare, un imperativo sicuramente rivolto a se stessa, che però si udì alla perfezione nel silenzio tombale del quarto piano.

Lei era fatta così, d'altronde. Spesso si lasciava trasportare dalla passione, dall'istinto, non rifletteva affatto sulle conseguenze delle proprie azioni. Chi però la conosceva bene, chi aveva ricevuto la chiave di lettura della sua anima, fortunato che fosse, sapeva che di fronte a quello che reputava un problema troppo più grande di lei, ricorreva all'uso della razionalità. E mi fece sentire male, sapere che la mia affermazione rientrava negli eventi da gestire nel secondo modo.

Dopo quelli che parvero secondi interminabili, alzò gli occhi su di me, scuri nella luce fievole delle torce alle pareti. "Posso—" iniziò, ma la voce le si spezzò; dovette attendere ancora per riuscire a formulare una frase. "Posso sapere perché pensi questo?"

Tutta quell'attenzione nel parlare, quei silenzi cupi e tormentati e quelle parole ancora più angosciate, furono veramente l'aspetto peggiore di tutto il tempo che passammo lì. Era stato mille volte meglio il litigio sulla Torre d'Astronomia: tramite le grida ero riuscito ad esternare ciò che mi premeva dire, ma che non sarei riuscito a esprimere con calma. Adesso invece la soluzione era solo una, gridare non sarebbe servito a cancellare quel supplizio eterno.

Eravamo da soli, con i nostri fantasmi e i nostri strazi e i nostri pensieri, soli con noi stessi, e da quella consapevolezza derivava lo sforzo inutile nell'esprimersi. Paradossalmente, era quel silenzio a comunicare al posto mio e suo, un silenzio talmente innaturale che mostrava in ogni sua fibra l'incapacità e l'angustia di mettere fine alla nostra relazione.

A questo punto avrei potuto imboccare due strade: la prima, la più facile, accusarla di avermi tradito, di essere falsa, di non desiderare il mio bene, di essere una persona orribile. Però sapevo che non ci sarei riuscito, e questo perché, realizzai con un moto di sorpresa, io non lo pensavo.

La amavo così tanto, quella ragazza dalla forza di un'esplosione concentrata in un barattolo di altezza, che mai avrei potuto credere a quelle accuse. O meglio, credevo ciecamente che avesse scelto di tradirmi, ma per me lei restava una persona meravigliosa, buona, altruista, semplice, dolce, divertente, bellissima.

Che avesse scelto di comportarsi come aveva fatto, era solo ascrivibile alla mia incapacità di dimostrare quanto valesse per me. Non avevo saputo farle vedere l'infinita importanza che aveva nella mia vita, e Rose non aveva voluto vederlo. Avevamo entrambi la nostra buona dose di responsabilità, di colpa, io un manichino privo di sentimenti e lei una superficiale che non aveva voluto mettersi in gioco, ma le nostre delusioni a livello amoroso non avrebbero cambiato l'essenza delle nostre anime. Tradimento o no, restava la persona di cui mi ero innamorato, e ciò non sarebbe mai cambiato. Anzi, avevo la sensazione, e dunque il terrore, che una parte di me l'avrebbe amata per sempre.

Era stata, seppur in modo breve, confuso, ma incredibilmente intenso, una parentesi fondamentale nella mia vita. Del resto, il primo amore non si scordava mai, no?

Ecco, in quel frangente avrei tanto voluto dimenticarlo.

"Perché è meglio così," risposi, ostentando una tranquillità infinita nel tono ma con la peggiore delle tragedie nel cuore.

Ero un codardo. Avrei potuto spiegarle il tutto, quello che mi aveva detto Teddy, la confessione di Julian, senza curarmi di incrinare il loro rapporto con lei - però non ci riuscivo. Innanzitutto non avrei potuto dirlo senza far crollare la Maschera, che stavo tenendo addosso con così tanto impegno; e poi l'idea che potesse giustificarsi, negare l'evidenza, era qualcosa che non potevo sopportare.

"Ho fatto qualcosa?" iniziò a tremare, incapace di mantenere i nervi saldi, "ho—sono io, il problema? Perché qualsiasi cosa abbia fatto, ti giuro, ti giuro, Scorpius, è—per favore, per favore non farlo, ti prego..."

Fece due passi in avanti, gli occhi che le luccicavano dalle lacrime e le guance adesso rigate. Quanto avrei voluto asciugarle con dei baci? Mi portai una mano alla bocca, sia sentendomi sul punto di rigettare sia per coprire un gemito di frustrazione che non ero riuscito a reprimere con successo.

Strinsi i denti fino a sentirli stridere. Perché era tutto così orribile?

"Rose," il suo nome scivolò come miele sulla mia lingua, un miele amaro, "non renderlo più difficile di quanto non sia già, va bene?"

Un lampo di furia passò nel suo sguardo. "Mi stai lasciando senza un buon motivo!" replicò, abbaiando. "Posso almeno ribattere, o devo sopportare in silenzio?"

La sua reazione fece tendere ogni muscolo del mio corpo. "Ma non vedi quanto mi fa male doverti dire queste cose?" ringhiai, aggrappandomi agli ultimi rimasugli di pazienza rimasti. "Non credere che per me sia facile."

"Mi avevi detto di amarmi un'ora fa. Cosa può essere cambiato in così poco tempo? Ho il diritto di saperlo, Scorpius, devi concedermelo," insistette, con decisione. Anche con il suo atteggiamento stoico, le lacrime non smettevano di scorrere sulle guance arrossate.

Mi sfuggì un lamento esasperato. Davvero aveva il coraggio di insistere, pur sapendo perfettamente quello che aveva fatto? Me l'aveva confermato addirittura suo cugino, una delle persone a lei più care. Se non era andata prima ad assicurarsi del silenzio di Teddy, allora significava che nemmeno le importava della possibilità di essere scoperta. E ciò era assurdo, e ripugnante.

E così, pur di mettere fine a quella conversazione che mi stava lacerando dall'interno, mi giocai la mia carta migliore. Non avrei fatto la figura del fallito, del debole: tanto valeva farle credere che il lasciarsi fosse stata un'idea mia, anche se non mi aveva neanche mai sfiorato. "Che devo dirti?" sbottai, allargando le braccia. "Non sono fatto per una relazione. È passato un mese, e già mi sento soffocare. Il tutto è stato un bel gioco finché dovevamo tenerlo segreto al mondo, finché non avevamo impegni come le uscite fuori e le dichiarazioni, ma adesso mi è passata la voglia. Non sono fatto per questo," ripetei. "Forse dovresti trovarti qualcun altro che lo è."

A quel punto avrebbe dovuto cogliere la frecciatina - lei già si era trovata quel qualcuno, che non si faceva problemi a stravedere per lei in pubblico e ad adorarla costantemente - ma tutto ciò che riuscii a vedere furono i suoi occhi gonfi di lacrime, e mi sentii, se possibile, ancora peggio di prima.

Mi ritrovai quindi sul punto di rimangiarmi tutto. Quando mi guardava così, quando ero consapevole che il motivo del suo supplizio erano le mie azioni o le mie parole o i miei comportamenti, non c'era muro che tenesse. Avevo cambiato idea mille volte in un'ora: avevo provato malessere, vuoto, atroce dolore, panico, rabbia, nervosismo, paura, disgusto, e adesso desiderio, desiderio di annullare tutto quello che era successo da quando ci eravamo separati, lei a Mielandia e io dalla Preside. Se fossimo andati insieme a vedere quel maledetto film non si sarebbe verificato nulla di tutto ciò.

Sarei stato ancora all'oscuro del suo tradimento, e, a dirla tutta, era una sensazione sicuramente migliore di quella che stavo sperimentando al momento.

Avevo già aperto la bocca, sentendo le gambe cedere, pronto a prostrarmi davanti a lei, a spiegarle i miei dubbi, a sperare che li risolvesse, quando Rose, lentamente, annuì. "Avrei dovuto immaginarlo," disse nel più lieve dei sussurri. "Avrei dovuto immaginare che ti saresti stancato di me."

E poi l'amore della mia vita mi rivolse il più triste dei sorrisi, mi posò la mano sul petto, e si sporse a darmi un bacio leggerissimo, quasi inesistente, sulla guancia. "Buona fortuna, Scorpius. Spero troverai la felicità con qualcun altro, prima o poi."

Se ne andò, sparì lungo il corridoio. Rimasi lì finché i suoi passi non furono inaudibili, finché non mi ebbe avvolto il più tetro dei silenzi; allora tornai anch'io nel mio dormitorio, consapevole che l'unica cosa rimasta sarebbero stati i miei incubi.

^^

🌻So che al momento c'è chi vorrebbe uccidermi, ma vi lascio un appunto molto velocemente: nell'Angolo delle Recensioni di @GiulsYes c'è quella di Give Me Love, insieme ad un'intervista della scorsa settimana... chissà che non ci sia qualche anticipazione? buona giornata xx🌻

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