45 - 𝑌𝑜𝑢&𝑰
{Harry e Ginny, amore come se fosse il primo giorno}
{Sfortunatamente, non una foto riferita alla storia}
^^
{James}
Feci un altro tiro di sigaretta, sentendo il fumo riempirmi i polmoni e calmare un po' i nervi tesi.
Pessima abitudine, lo sapevo. Non c'era nessuno che non continuasse a ripetermelo - la mamma e Lils anche più volte al giorno. Eppure loro in quel momento non c'erano, e io ero infreddolito, solo e irrequieto, e non c'era altra medicina che non una dolce Winston blu.
Ero stato costretto ad abbassare la sciarpa, rossa e oro in onore dei tempi gloriosi ad Hogwarts, che mi scaldava per accendere la sigaretta, e un freddo pungente mi sferzava il viso, costringendomi a tenere gli occhi socchiusi, benché protetti dalle lenti degli occhiali.
Maledii di nuovo la scelta di non prendere un cappello per non sembrare Babbo Natale. Cristo, faceva troppo freddo per vivere.
Non avevo potuto fare a meno, però, di fumare. Non con lui che stava arrivando, e con quello che avremmo dovuto fare. L'idea di vederlo mi dava il voltastomaco, una sensazione del tutto innaturale considerando il rapporto che avevamo - o meglio, che avevamo avuto fino a poche settimane fa.
Rilasciai un'altra boccata di fumo, appoggiato con la schiena al muro di un palazzo qualsiasi, di una strada qualsiasi. Reclinai la testa all'indietro, fissando il cielo nuvoloso. Per fortuna non nevicava, almeno in quel momento.
Benché sapessi perfettamente che non mi sarei mai rifiutato di aiutare Rosie e Al in qualsiasi guaio stessero combinando, pensai che avrei tanto voluto farlo. Volevo essere utile, ero contento di star prendendo parte ad una cosa così grande - papà ieri ci aveva presi da parte e ci aveva raccontato tutto quello che stava succedendo.
Allo stesso tempo, avrei voluto essere capitato in coppia persino con quel deficiente di Malfoy pur di non stare gomito a gomito con Teddy.
"Ti fa male, lo sai."
Oh, com'era? Pensi del diavolo e spuntano i rompicoglioni?
Roteai gli occhi, sentendo il corpo improvvisamente in tensione ma non volendo dimostrarlo. "Ciao anche a te," replicai tagliente, non guardandolo. Sicuramente non sarei stato io a tornare da lui. Ma siamo matti. Avrei preferito ritrovarmi chiuso una settimana in uno sgabuzzino con Gazza, piuttosto.
"Adesso mi parli?" domandò avvicinandosi. Non distolsi gli occhi dal cielo. Se l'avessi posati su di lui, un po' della mia tenacia sarebbe svanita in un turbinio di emozioni contrastanti. E invece doveva rimanere salda, ferma.
Ero io dalla parte della ragione, per la prima volta in vita mia. Non gli avrei dato l'opportunità di rovinare questo vantaggio, aveva già fatto abbastanza danni.
"Jay..." mormorò, posando una mano sulla mia spalla. Ebbi un tremito che non gli sfuggì; per distrarlo spensi la sigaretta quasi finita contro il muro e la gettai nel cestino lì accanto, infilando poi le mani in tasca, e allontanandomi il più possibile da lui.
Mi iniziai ad incamminare senza aspettarlo. Era strano, anormale, lo stare lontano da lui di proposito. Da quando eravamo piccoli non avevamo mai passato tanto tempo separati, e anche ad Hogwarts, nonostante io avessi il mio gruppo e lui il suo, e, soprattutto, nonostante fossimo stati insieme solo un anno, io al mio primo e lui al suo ultimo, comunque avevamo trovato il modo di stare insieme.
Avevo sempre creduto fosse una sorta di istinto fraterno, un affetto sincero che lo portava a controllarmi, ma appena ero uscito da scuola aveva comportarsi in modo diverso, come se non mi vedesse più come un ragazzino, ma come un suo pari.
Ci eravamo avvicinati più di quanto avessimo mai fatto, avevamo passato due anni a fare di tutto uno affianco l'altro, confidarci, ridere, lavorare, e poi era tutto finito.
"Muoviti," fu tutto ciò che dissi, "Rose conta su di noi."
Quello bastò per metterlo in moto, ma non per questo smise di tormentarmi. Lo ignorai bellamente per tutto il tragitto fino a casa di Peritus Quill, il detenuto di Azkaban che avevamo il compito di interrogare. Non sapevo bene cosa ci aspettassimo che dicesse, ma non poteva importarmene di meno. Quel bastardo avrebbe sputato il rospo, oppure ci avrei pensato io a rivoltarlo da capo a piedi. Non avevo intenzione di farmi prendere per il culo anche da lui, già bastava il coglione che avevo vicino.
"Oh, basta così James," sbottò Teddy afferrandomi per il braccio e tirandomi bruscamente all'indietro per farmi voltare. Aveva gli occhi verdi accesi di ira, i lineamenti increspati dal fastidio e l'irritazione. Palesemente specchio dei miei.
Per un attimo fui preso alla sprovvista dal suo gesto, e dal fatto di averlo di fronte, e che mi stesse guardando. Rimasi a bocca aperta, stupefatto dalla sfumatura luminosa delle sue iridi, ma mi ripresi in fretta, infastidito dai miei stessi pensieri privi di lucidità.
Gli restituii una spinta poderosa sul petto. "Non devi toccarmi, hai capito?" ringhiai, nervoso.
"E da quando?" replicò lui, assestandomene una a sua volta.
"Da quando hai detto di non voler niente a che fare con me, Edward!" gridai, stringendo forte i pugni per non prenderlo a cazzotti. Non mi sarei trattenuto un minuto di più, non era nelle mie corde. Anche ad Hogwarts ero il primo a tuffarmi nelle risse, il primo a mettere a segno un buon colpo, il primo a venir punito per questo. Ero bravo negli incantesimi, Minerva mi aveva proposto il corso per diventare Auror, ma preferivo battermi alla vecchia maniera che fare un duello magico.
E Teddy stava seriamente mettendo a prova la mia pazienza, che già normalmente era alta quanto quella di mia madre - quindi nulla.
"Sai che non è così," borbottò, ritraendosi. "Non ti ho mai detto niente del genere."
"Ah, perdonami," sbottai allora, incurante di usare un tono di voce troppo alto rispetto a quello da usare in strada. "Vogliamo essere fiscali? Vuoi che ti ripeta quello che è successo, così puoi prendere tempo e pensare ad una risposta che provi a giustificarti? Vuoi fingere di non essere stato un bastardo? Oppure sei d'accordo con me e credi che sia meglio lasciar calare un velo pietoso e comportarci come se non fosse successo niente?"
"Ma tu non ti stai comportando come se non fosse successo niente, tu mi stai portando rancore da tre settimane," ribatté con tono lamentoso.
Gli rivolsi un'occhiata glaciale. "Ho bisogno di tempo per tornare alla normalità. Non puoi pretendere che dopo quello che hai fatto tutto riprenda esattamente da dove l'abbiamo lasciato. Lasciami stare," conclusi, estraendo dalla tasca interna della giacca un altro pacchetto di sigarette e sfilandone una.
La accesi e inspirai a fondo, tentando di concedere alla nicotina di distendere i nervi tesi. Neanche lei stavolta riuscì nella sua impresa.
Ripresi a camminare velocemente. Quando dovemmo entrare nella metro fui costretto a lasciare la sigaretta a metà, spegnendo la parte restante in uno dei contenitori appositi fuori la struttura. Io e Teddy non ci rivolgemmo parola per tutto il tragitto; io ero troppo impegnato a sbollire la rabbia, lui a lasciarmi i miei spazi.
Mi avrebbe dovuto lasciare uno spazio vasto come la Russia perché fosse anche solo un minimo meno furioso con lui.
Dio, quanto amavo essere melodrammatico. E considerando chi erano i miei genitori, ce l'avevo nel sangue.
Alla fine, seppur in un silenzio tombale, riuscimmo a raggiungere quello che Draco Malfoy ci aveva consegnato come l'indirizzo di Peritus Quill. Ci aveva dato qualche informazione per essere pronti sulle domande da porre e, nel caso, per proteggerci, e non ero affatto sorpreso che fosse stato rinchiuso nella sezione di prigionieri più pericolosa di Azkaban, quanto più che l'avessero fatto uscire. Quel tipo era matto da legare.
Aveva poco più di sessant'anni, e vissuto sia la Prima Guerra dei Maghi che la Seconda. In quanto Mezzosangue, le file di Voldemort non gli avevano permesso di arruolarsi nell'esercito dei Mangiamorte, almeno la prima volta; per questo lui si era dedicato a stragi di Babbani e di Magonò e di Nati Babbani, senza che gli Auror riuscissero a beccarlo, e aveva sparso la voce della sua fedeltà al Signore Oscuro per implorarlo di prenderlo con sé. Finita la prima guerra con la morte dei miei nonni, era stato costretto a rifugiarsi in un altro Stato per sfuggire al Ministero, ed era finalmente riuscito a realizzare il suo malsano sogno di seguire Voldemort con il suo ritorno nel '95. Sconfitto di nuovo e definitivamente il suo padrone, non aveva esitato a formare un gruppo di psicopatici estremisti dediti alla caccia di qualsiasi Babbano avesse avuto l'ardire di mettersi con un mago o una strega, pena atroci sofferenze, torture barbare e la morte.
Non ero sicuro di essere in grado di trovarmi di fronte un uomo - si poteva forse chiamare così? - senza sentire e seguire l'istinto, che conoscendomi mi avrebbe detto di riempirlo di botte. Non avevo ben capito perché non l'avessero sbattuto nuovamente in galera una volta che avevano capito dove si nascondesse, e che il Lord Protettore gli aveva fatto la grazia di concedergli di evadere solo per levarselo dai piedi.
Ero sicuro che Rose non se la sarebbe presa troppo se l'avessi conciato per le feste. Bastava pensare a tutto il male di cui era stato causa per sentir salire il sangue al cervello. Improvvisamente sentii un ghigno incorniciarmi il volto, e mi resi conto sia che c'era tutta la probabilità che, riconosciutomi come il figlio di chi aveva ucciso la sua celebrity crush, avrebbe tentato di uccidermi; sia che io non vedevo l'ora che lo facesse. Magari sarei riuscito ad avere una bella rissa e a scaricare tutto il nervosismo che provavo.
Certo, se non ci fosse riuscito lui sarebbe stata la mamma a farmi fuori una volta per tutte, ma ne valeva la pena di incorrere nella temibile furia di Ginevra Weasley-Potter, pur di assestare un paio di cazzotti come si deve.
La casa del matto era un semplice appartamento verso la periferia di Londra, niente di troppo grande o di fatiscente, che non attirava in alcun modo l'attenzione. Mi appesi al campanello per prolungare il suono finché non fosse venuto ad aprirmi qualcuno, come quei bambini che si divertivano a pigiare tutti i tasti del citofono. Teddy alzò gli occhi al cielo di fronte quel mio gesto infantile, ma prima che potesse dirmi di darci un taglio lo spioncino iniziò a muoversi.
"Chi è che rompe le palle a quest'ora?" strepitò una voce gracchiante.
"Sono le sei del pomeriggio, Gollum!" replicai, battendo con forza le nocche sulla porta. "E' ora di svegliarsi."
"Vattene via," fu la risposta, brontolata.
Per risposta appoggiai di nuovo il dito sul campanello, e iniziai a suonare senza sosta, in attesa che l'uomo, spazientito, si decidesse ad aprirmi.
"Una tattica vincente, e per niente infantile," mormorò Teddy colmo di sarcasmo.
"Non vedo come una escluda l'altra. Vedrai," replicai piatto.
Ci volle solo un minuto, contato con previsione grazie al mio orologio da polso, prima che quella canaglia di Quill si decidesse ad aprirci. Scoppiai a ridergli in faccia quando vidi i suoi lineamenti - orribili, tra l'altro, - inaspriti dal fastidio, quasi il fumo che gli usciva dalle orecchie.
Lui, furioso per la mia reazione, provò a sbattermi la porta in faccia, ma infilai velocemente il piede tra lo stipite e il legno prima che riuscisse a farlo, e con una spallata la spalancai, facendolo indietreggiare ed entrando dentro.
La casa era completamente priva di qualsiasi forma di arredamento, come se fosse stata appena comprata; io agguantai in fretta l'uomo per la collottola e lo spinsi contro la parete, sentendo la mia bocca piegarsi in una smorfia a causa del suo nauseante odore di alcol e sudore. Il suo sguardo era impietrito, spaventato, i cisposi occhi chiari socchiusi, e la barba incolta brizzolata arrivava addirittura all'altezza della spalla.
Io se fossi mai riuscito ad evadere da Azkaban mi sarei fiondato da un parrucchiere, o comunque a farmi una doccia, ma dovetti immaginare che per lui non fosse stata esattamente una priorità, quella.
"Allora, caro Peritus," sibilai, rafforzando la presa sui suoi vestiti. "Perché non ci parli un po' di quello che è successo con Caleb Thomas, ad Azkaban?"
"Non so di cosa tu stia parlando," fece lui in risposta, ostinato.
"Io invece credo proprio di sì," ribattei, premendo ora con il gomito sulla sua giugulare - non in modo che gli facesse male, ma che capisse che se avessi voluto lui sarebbe soffocato in quindici secondi. "Quindi io direi di accomodarci, e di fare in modo che tu ci dica tutto quello che sai, oppure te lo faremo sputare noi con le brutte maniere. Che ne dici, stella?"
I suoi occhietti cattivi mi fissarono con autentico disprezzo. "Pare che io non abbia scelta."
"Hai capito tutto."
"Allora direi di accomodarvi," commentò lui profondamente sarcastico.
Lasciai andare la presa su di lui, contando anche che Teddy gli teneva la bacchetta puntata contro per evitare che se la desse a gambe; allora mi girai attorno in quella stanza completamente spoglia.
Sogghignai. "Non ci offri niente?"
"James," mi ammonì Teddy, roteando gli occhi. "Non è una visita di cortesia."
"Oh, lo so bene," ribattei, imperturbato.
Quill si sedette sull'unica sedia presente nell'ambiente, in barba ad ogni forma di cortesia. "Che cosa volete?"
"Che cosa è successo la sera del venti dicembre, quando il Lord Protettore ha fatto la sua prima apparizione ad Azkaban?" domandò prudente Teddy, girandogli nelle vicinanze come un lupo attorno alla sua preda.
Il volto di Quill si contrasse. "Lo sapete, che cosa è successo."
"Vogliamo farcelo sentire da te."
Quello sbuffò come una ciminiera. "Non c'è niente da dire. Lui si è presentato, e mi ha ordinato di andare via. Io ho levato le tende."
"Quindi il fatto che ci fosse qualcosa che non quadrava e che quel maniaco volesse rimanere solo con un ragazzino diciassettenne non ha smosso assolutamente nulla nella tua coscienza?" chiesi, arrabbiato e deluso. "Avrebbe potuto fargli di tutto, com'è poi successo."
Quill alzò le spalle. "Sapete quante persone ho ucciso? Decine. Non mi sarebbe mai più ricapitata la possibilità di uscire da Azkaban prima della mia morte, e perciò ho colto l'occasione."
"A costo di un'altra vita."
"Non potevo sapere che cosa avrebbe fatto a quel ragazzo. Come avrei potuto? E poi, in tutta onestà, non mi importava," ammise infine, e con mio orrore, un ghigno soddisfatto gli si dipinse addosso, mettendo in mostra i denti marci.
Ci volle tutto il mio autocontrollo per non spaccargli addosso qualcosa - o in alternativa, dato che la casa era spoglia, rompergli il naso. Era un essere spregevole, uno dei peggiori che avessi mai incontrato.
Forse veniva superato solo da Caleb Thomas: un ragazzino stupido e cattivo, che aveva attentato alla vita di una delle persone più importanti della mia vita. Rose mi ripeteva sempre che aveva sofferto, che tutti meritavano una seconda possibilità, ma io non ci credevo. Caleb poteva aver avuto un'infanzia terribile, poteva aver visto la madre morire tra atroci sofferenze e il padre spodestato, ma quella non era una scusa per tutto il male che aveva causato. Anche mio padre aveva sopportato il peggio, i genitori morti, gli zii che lo odiavano, aveva dovuto rinunciare a molto e sopportare ogni avversità per salvare il mondo intero, eppure non aveva mai mollato. Caleb l'aveva fatto in partenza, e aveva ritenuto che uccidere una ragazza innocente fosse il modo migliore per ottenere la sua vendetta.
Non mi interessava quel che diceva mia cugina, che era veramente troppo buona per questo mondo. Per la prima volta non tenevo la sua opinione in considerazione, perché lei non era lucida. Si stava lasciando guidare dalla sua umanità, dal suo ottimismo, dall'inguaribile sete di giustizia che la animava da sempre, però a me non andava bene. Non era stata lei che aveva visto una persona che amava prendersi una Maledizione Senza Perdono per la propria salvezza.
Tutto quello che stavo facendo lo facevo per lei. All'inizio non volevo contribuire alla redenzione di Caleb, dovevo essere sincero, e sapevo che neanche quel deficiente di Malfoy, che le aveva preso a ronzare sempre attorno, avrebbe voluto; poi però si era allacciata la storia del Lord Protettore, che aveva toccato mio zio Ron, suo padre, e non ci avevo visto più. Non mi importava niente di Thomas, volevo solo che mio zio guarisse e che quel bastardo finisse dentro una maledetta cella di Azkaban - e se avessi dovuto ripristinare il nome del ragazzo che avevo odiato di più per farlo, allora non avrei esitato.
"Noi dobbiamo sapere chi è," risposi allora, una volta aver preso cinque respiri profondi perché il mio istinto omicida si calmasse.
"Chi?"
"Chi, secondo te?" sbottai bruscamente, affilando lo sguardo. "Il Lord Protettore."
Quill cambiò completamente faccia. Sbiancò come se avesse visto un fantasma, e sussultò fino a cadere dalla sedia. Sotto gli sguardi stupefatti miei e di Teddy, indietreggiò sul pavimento fino ad avere la schiena premuta contro la parete, e ci puntò la bacchetta contro.
"Andatevene."
"Cosa?" gli fece eco Teddy, nervoso. "Noi abbiamo bisogno di sapere—"
"Andatevene! Andatevene, adesso!" ripeté lui, con la bacchetta che tremava nella sua mano. Con un gesto veloce la fece roteare, e un fulmine colpì la parete accanto al mio orecchio, lasciando una traccia nera fumante. "Adesso!"
Provai ad alzare le mani, per ragionare un minimo con lui. "Ragiona, per favore. Tutta la paura che stai provando al momento - tutta quanta, finirà! Finirà se ci dirai chi è questo maledetto—"
Quill, gli occhi febbricitanti e il respiro spezzato, singhiozzò. "No, no, no! Andate via! Se vi ha mandati lui qui da me, ditegli che non aprirò mai bocca! Morirò a costo di mantenere il silenzio, lo giuro, lo giuro, lo giuro..."
Mi passai le mani sul viso, sfregando forte. "Peritus, devi ascoltarmi!" gridai, per farmi sentire oltre il suo balbettio e le lacrime che avevano preso a rigare il suo volto. "Dicci chi è!"
"Andatevene, ho detto!" urlò per l'ennesima volta, sparandomi contro un altro colpo. Mi dovetti coprire la testa con le braccia quando l'intonaco sopra di me si staccò dal soffitto e piovve in basso.
"James," intervenne Teddy, posandomi una mano sulla spalla, tirandomi verso di sé. "James, andiamo—"
"No!" replicai io, "Rose conta su di noi!"
Il pianto di Quill si era tramutato in un persistente urlo, petulante, acuto, che insieme allo sfrigolare delle bruciature sulle pareti faceva un baccano terribile. "Andate, andate, andate!"
"Dicci chi è!" insistetti, ignorando il mio amico, "ne abbiamo bisogno!"
"Sparisci!" fu la risposta, e stavolta Quill gettò un incantesimo direttamente verso di me, tanto che se non ci fosse stato, pronto, Teddy a scansarmi in tempo, mi avrebbero dovuto ricoverare d'urgenza al San Mungo. Un frammento del muro quasi gli cadde in testa.
Iniziò a prendermi il panico. Non volevo andarmene a mani vuote, ma con quel pazzo sembrava impossibile ragionare. "Per favore, tu non capisci - ci sono vite in pericolo!"
Non ebbi possibilità di replica, di insistere. Teddy mi trascinò via, mentre il pianto agonizzante di quell'uomo ci faceva da sottofondo, la porta si chiuse di fronte ai miei occhi increduli.
Era accaduto tutto così velocemente che non ero neanche riuscito a comprenderlo: un attimo prima ero io ad avere avuto il coltello dalla parte del manico, che stavo conducendo un interrogatorio degno di Scotland Yard, con atteggiamento sprezzante e aria da sbruffone come più mi si confaceva; l'attimo dopo ero diventato un semplice ragazzo, incapace di gestire una situazione che si era degradata, un uomo sull'orlo della pazzia, una paura viscerale che non ero stato in grado di arginare.
Mi appoggiai con le spalle al muretto accanto a quella anonima casa, facendo del mio meglio per ignorare i lamenti che, benché attutiti, continuavano a giungere alle mie orecchie. Serrai gli occhi, e prima che potessi accorgermene avevo già scostato il mio giubbotto per poter prendere le sigarette.
Rovistai con la mano nella tasca interna, sentendo un moto di fastidio crescere in modo direttamente proporzionale al non riuscire a trovarle. "Merda," ringhiai, stringendo i denti. "Dove siete finite."
"James..."
Mi ero quasi dimenticato della presenza di Teddy di fronte a me. Non potevo vederlo, ma riuscivo ad immaginarlo perfettamente, lui e i suoi maledetti occhi di un verde brillante, e il suo stupido sorriso, e i capelli viola dalla preoccupazione...
Dovetti concentrarmi fino all'ultimo grammo di pazienza che mi era rimasto per non sbottare e rispondergli male, ma intanto la delusione, insieme alla realizzazione del nostro completo fallimento, si era fatta largo dentro di me. "Non ci siamo riusciti. Non ci siamo riusciti affatto."
Sentii i suoi passi avvicinarsi. "Non è la fine del mondo."
"Rose e Al facevano affidamento su di noi."
Teddy sospirò. "Anche loro hanno avuto una buona dose di insuccessi. Non ti giudicheranno mai per non essere riuscito a cavargli di bocca il nome di questo tizio, e lo sai. Non angosciarti, hai tutto il tempo del mondo per riprovare."
Le sue parole avrebbero dovuto, in qualche modo, rassicurarmi, ma non ebbero altra conseguenza che quella di farmi infuriare ancora di più.
Aprii di scatto gli occhi, e ottenni miracolosamente di non focalizzarmi sulla sua assurda perfezione, ma di rivolgergli la migliore delle mie occhiatacce. "È questa la filosofia con cui vivi la tua vita, Edward? C'è sempre una seconda occasione? Se mandi tutto a puttane alla prima non importa, perché troverai sempre qualche idiota capace di perdonarti?" ero consapevole che le mie parole grondavano di veleno, ma non riuscivo a contenermi. Tutta la frustrazione derivata dalla disfatta appena subita si riversavano nel mio atteggiamento, e rendevano più viva la fiamma del mio odio per lui.
Edward si incupì. "Non è questo che intendo."
"Cosa intendi, allora, eh?" esclamai io, incredulo. "Ti giuro che non ti capisco!"
"Cosa non capisci?" mi gridò contro lui in risposta, finalmente abbandonando l'aria da maturo e da pacato per assumere una facciata che lo rappresentasse.
Io scattai in avanti prima che potessi registrare le mie stesse azioni, e gli afferrai il cappotto a pugni sul petto, tenendo il suo viso a poca distanza dal mio. "Perché ti vergogni così tanto di me!" strepitai, e la voce mi uscì roca per la forza con cui avevo pronunciato quelle frase.
I suoi occhi verdi si spalancarono, permettendomi di vedere ogni sfumatura al loro interno - e poi lui fece una mossa subdola, perché si passò la sua maledettissima lingua tra le labbra, attirando il mio sguardo sulla loro pienezza, sulla forma perfetta, sul colore invitante, e allora lasciai subito la presa per fare tre passi indietro, e spingermi da solo contro il muro della casa di Quill.
"Fottiti, Teddy," brontolai, sentendo i nervi a fior di pelle. "Fottiti."
"È vero, tu non capisci," disse lentamente lui, ritornato calmo e controllato. "Io non mi sono mai vergognato di te."
Roteai gli occhi, con tanto di risata aspra. "E infatti sono settimane che cerchi di negare quello che è successo tra noi."
Teddy avanzò verso di me, lentamente, come se avesse a che fare con un animale selvatico. "James, la notte del tuo compleanno è stata la migliore della mia vita. Non ho il minimo dubbio su ciò che provo per te, ma—"
"No," lo interruppi subito, sentendo il cuore battere all'impazzata soltanto alla sua menzione di quella notte di fine novembre. "Non dire cose in cui non credi."
Teddy si passò le dita tra i capelli, che presero una sfumatura nera, segno che si stava parecchio irritando. "Cosa puoi saperne, tu, di quello in cui credo? Hai paura che io non voglia ammettere quello che è successo tra noi perché provo vergogna? Come - come potrei mai vergognarmi di - di quello che sento nei tuoi confronti—"
Io roteai gli occhi. "Ma guardati, non riesci neanche a dirlo."
Teddy, improvvisamente disorientato, abbandonò il tono di voce irato, e lo abbassò all'improvviso. "Non riesco a dire cosa?"
"Che siamo andati a letto insieme," risposi, duro. "Che abbiamo scopato. Che il giorno del mio compleanno, il ventuno novembre, tu mi hai portato nella tua camera da letto, mi hai spogliato e mi hai detto che mi amavi, e che volevi farlo da tempo."
E poi calò il silenzio.
Teddy assunse una sfumatura bianca cadaverica, e nascose le mani tremanti dietro la schiena, chinando il capo perché non fossi più in grado di guardarlo in faccia.
Quella sua reazione mi diede tutto il coraggio necessario, ma allo stesso tempo mi privò di ogni speranza. Credevo che sentendoselo dire, sentendosi dire quello che era successo, quello che avevamo fatto, allora si sarebbe, in qualche modo, sbloccato.
Ci volle qualche secondo, passato in un mutismo tombale, prima che raccogliesse le idee e parlasse. Sollevò il capo, e piantò quegli stupidissimi e meravigliosi occhi verdi nei miei, riuscendo a destabilizzarmi soltanto con quel gesto. "Ti ho detto già, almeno mille volte, perché non sono disposto ad andare avanti. Non so che cosa tu voglia, James, ma io non sono pronto."
"Sei tu che mi hai avvicinato, o sbaglio?" replicai, irrequieto. "Io fino a pochi mesi fa credevo di essere etero, Teddy. Ho avuto un numero infinito di fidanzate. E tu ora mi stai dicendo che non sei pronto?"
Sapevo che non era giusto incalzarlo così, perché non era facile, anche se vivevamo in un mondo relativamente libero, ammettere di essere di un orientamento sessuale differente da quello comunemente accettato. Io però avevo raccolto la mia maledetta risolutezza e avevo deciso di accettarlo - anche perché se non fossi stato io per primo ad amare me stesso, chi mai avrebbe potuto farlo?
Teddy inasprì i lineamenti. "Rispetta la mia decisione."
"Tu devi rispettare me, allora," risposi, prosciugato da quella conversazione. "Se davvero non vuoi avere niente a che fare con me, devi essere in grado di lasciarmi andare via. Devi smetterla di rincorrermi, di insistere."
Non sarei riuscito, neanche con tutta la fermezza del mondo, a continuare a dirgli di mettermi da parte. Mi chiusi la zip del giubbotto fino al mento e lo superai, scendendo due a due i gradini delle scale davanti casa di Peritus Quill.
Dovetti attendere a malapena cinque secondi, prima che sentissi la sua mano afferrarmi il braccio e tirarmi all'indietro. Non esitò neanche un attimo a prendermi il viso tra le mani, e ad alzarsi sulle punte dei piedi per premere la bocca sulla mia.
Non succedeva da metà dicembre, da quando lui mi aveva baciato, senza dirmi nulla, quando avevo preso le pasticche di zio George per farmi ricoverare al San Mungo e permettere a Rose e Malfoy di scappare ad Hogwarts.
Un gemito mi sfuggì dalla gola, nel sentire i miei stessi polpastrelli infilarsi tra i suoi capelli - diventati adesso, forse a causa dell'eccitazione, di un rosso brillante. Le sue dita mi accarezzarono gli zigomi, e poi il mento e le guance, sopra lo strato leggero di barba che avevo lasciato crescere.
Lasciai che i miei nervi, che avevo cercato di distendere con l'ausilio di tre sigarette, si calmassero definitivamente grazie al suo tocco su di me. Non c'era da girarci intorno, era lui, lui quello che mi serviva, ma era al contempo ciò che mi faceva più male, e io non volevo soffrire.
Dovevo iniziare a prendermi cura di me stesso, non sperare che qualcun altro lo facesse al posto mio - e finché Teddy fosse stato così indeciso, non potevo permettere che giocasse con me.
Mi allontanai da lui delicatamente, e gli passai, non riuscendo a resistere, il pollice sul labbro inferiore. "Scusa, Teddy. Io riesco ad ammettere a me stesso di essere omosessuale, e tu no. Questa è la causa dell'infelicità che porti a te stesso, e agli altri."
E poi me ne andai, camminando velocemente, sapendo che stavolta non mi avrebbe fermato.
^^
{Ginny}
"Harry!"
Nessuna risposta.
"Harry Potter, vieni qui, immediatamente!"
Ora lo uccido.
Non c'era il minimo dubbio su dove fosse, e ciò mi fece infuriare ancora di più.
Spalancai la porta del bagno e fissai mio marito, il-Ragazzo-Che-È-Sopravvissuto, a mollo nella vasca da bagno, gli occhiali poggiati sul tavolino lì accanto e gli occhi chiusi, nonché un sorrisetto ebete in volto.
Mi piazzai le mani sui fianchi.
"Ti ho chiamato almeno tre volte."
Harry aprì pigramente un occhio. "Che succede?"
Mi sfuggì un lamento esasperato. "Harry, ti prego!"
Lui si mise a sedere, e la schiuma che prima gli arrivava al collo aderì al suo petto definito. "Ho dimenticato qualcosa?" domandò, con lo stesso tono placido di sempre.
Mi avvicinai alla vasca. "Soltanto il colloquio con Wenham. Per aiutare i nostri figli e mio fratello, il tuo migliore amico."
Lui reclinò di nuovo la testa all'indietro, e mi sorrise. "Oh, non preoccuparti. L'ha spostato di mezz'ora."
Spalancai la bocca, incredula. "Cosa? E quando pensavi di—"
Harry si alzò, e si avvolse con l'asciugamano, premurandosi di non gocciolare sul pavimento ma di mettere i piedi sul tappetino. Mi prese tra le braccia, e sfregò la punta del naso contro il mio collo. "Abbiamo tempo."
Le sue dita cercarono la chiusura lampo del vestito che indossavo, e fece appena in tempo a scoprirmi le spalle lentigginose prima che, sbuffando, lo spingessi all'indietro. "No, mio caro. Dobbiamo andare, subito."
Nei suoi occhi verde smeraldo era chiara la voglia di continuare ciò che stava facendo, ma come vide la decisione stampata sul mio volto rinunciò, e iniziò a tamponarsi la chioma scura con un asciugamano.
Lo vidi fare una smorfia quando, allo specchio, individuò un capello bianco - non il primo che trovava. Ormai le tempie gli andavano sempre più imbiancando, nonostante fosse relativamente giovane, solo quarantaquattro anni. "Li odio," lo sentii brontolare, prendendo il lavandino tra le mani e fissandosi con sguardo astioso.
Non si arrabbiava mai per nulla, sapeva essere paziente e sopportava di tutto, qualità che gli era risultata molto utile con James e Lily, ma non perdeva mai l'occasione di lamentarsi della vecchiaia che avanzava.
Vidi il mio riflesso nello specchio, ma cercai di non farci troppo caso. Anch'io non avevo più diciassette anni, ma sapevo che mi stavo mantenendo perfettamente per l'età che portavo. I miei capelli erano ancora tutti rossi, e facevo ginnastica il più possibile, e mangiavo sano - e poi fanculo la vecchiaia, non mi avrebbe certo scalfita una ruga in più o una in meno.
Un sorriso mi spuntò sulla bocca, nonostante tutto quello che stava succedendo. Mi misi alle sue spalle e gli passai le braccia attorno alla vita, posando l'orecchio e la guancia sulla sua schiena nuda. "Sei bellissimo."
"Sono vecchio."
"Sei un bellissimo vecchio."
Lui sbuffò una risata. "Non aiuti, Ginny."
Le sue mani si posarono sulle mie, adagiate sul suo petto. "Ti amo," risposi. "Anche se hai due capelli bianchi addosso."
"Ti amo anch'io."
Chiusi gli occhi, beandomi del profumo della sua pelle, che sapeva del bagnoschiuma all'olio di argan che gli aveva regalato Angelina per Natale. "Pensi che ce la faremo, Harry?"
Lui mi strinse più forte. "Non mi fermerò finché Ron sarà al salvo."
Le indagini che lui e Draco stavano portando avanti sembravano non finire mai. Avevano setacciato il Diario del Principe Mezzosangue parola per parola, milioni di volte, solo per trovare un indizio che ci portasse non solo all'antidoto, ma anche, semplicemente, al veleno in sé, in modo da capire come fare a neutralizzarlo.
Insieme a Draco e a Hermione non si dava pace, non sembrava esserne capace: stava le ore alzato la notte a scribacchiare possibili collegamenti, e il giorno faceva per ore avanti e indietro per fare interrogatori e sopralluoghi. Aveva molto sonno arretrato e non sembrava in grado di capire che, prima o poi, avrebbe dovuto accettare come stavano le cose, e che quel ritmo frenetico non lo avrebbe fatto arrivare da nessuna parte.
Ogni giorno che Ron passava in questo modo, Harry si demoralizzava di più, ed era meno disposto a concedersi del riposo. Diventava più nervoso, irritabile, e si chiudeva nel suo studio per ricominciare da capo.
Ovviamente anch'io condividevo il suo stato d'animo - come avrei potuto non farlo? Lui era mio fratello, e io già ne avevo perso uno, - però Harry aveva un dolore diverso, molto più forte. Io conservavo un barlume di speranza, e di fiducia riposta nei nostri figli, così brillanti, mentre lui non riusciva a vedere una luce in fondo al tunnel. Aveva completamente perso la bussola, perché Ron era non solo il suo migliore amico, ma la sua anima gemella.
Per tanto tempo, era stato la sua unica famiglia. E anche adesso che Harry si era fatto la propria, senza Ron gli sembrava di non avere appigli nel mondo.
Credevo che anche Hermione avrebbe voluto abbandonarsi alla disperazione come faceva lui, ma lei era consapevole di non poterlo fare. Rose e Hugo contavano su di lei, era loro madre. Doveva essere forte, per loro - Ron, a parti inverse, l'avrebbe fatto.
Ma Harry? Harry temeva di star perdendo un altro membro della sua famiglia, il primo, il più importante. I suoi genitori, Sirius, Remus, e adesso lui? No, era inconcepibile.
"Cambiati, ti aspetto fuori," gli sussurrai, posandogli un bacio sulla spalla nuda.
Quando fu pronto, decidemmo di Smaterializzarci. Albus era con Isabelle, quel tesoro di ragazza, al San Mungo, insieme a Rose e Scorpius; Lily e Hugo dai miei genitori, e James e Teddy da Peritus Quill. Avevamo avuto l'intera casa per noi per tutta la mattinata - e l'avevamo sfruttata a pieno, anche, ma era arrivato il momento di andare via.
Lukas Wenham viveva in Fitzrovia, un distretto di Londra situato nelle vicinanze del West End e facente parte sia della City of Westminster, la zona ovest, sia del Borough di Camden, la zona est. Era famosa per le sue case storiche e per essere stata un tempo la residenza di scrittori come Virginia Woolf e George Bernard Show; rientrava, secondo un giornale britannico, il Sunday Times, tra i migliori dieci quartieri londinesi in cui vivere.
Io e Harry avevamo preso un appartamento a Kensington, a sud di Hyde Park, un posto che ci eravamo potuti permettere solo grazie all'unione del mio stipendio prima come giocatrice professionista di Quidditch e poi come commentatrice sportiva per la Gazzetta del Profeta, e del suo come Auror, insieme all'eredità dei suoi genitori. Avevamo preso in considerazione quel distretto così lussuoso, ma ci eravamo troppo innamorati della nostra casa per scartarla.
Era un luogo accogliente, che ospitava un numero di camere perfetto, in modo che ognuno dei nostri figli - Teddy compreso - avesse la propria stanza e il proprio spazio privato; la lasciammo, per Materializzarci a Fitzrovia.
"Quindi, chi è questo Wenham?" domandai, stringendomi nel cappotto. "A malapena l'ho mai sentito nominare."
Harry infossò il volto nella sciarpa, la spalla che sfiorava la mia mentre camminavamo verso la casa. "È stato direttore di Azkaban per una decina d'anni, quando è morto Kurt Travis, il precedente, che aveva messo al potere Shacklebolt dalla caduta di Voldemort. È sempre stato un uomo precisissimo, rigoroso, intransigente. Azkaban ha davvero visto i suoi giorni migliori sotto di lui, ne sono sicuro. Professionale, altruista, buono il giusto ma inflessibile..."
Corrugai le sopracciglia. "E come è possibile che le sue dimissioni non abbiano destato alcuno stupore? Se era così abile."
Harry alzò le spalle. "Io non avevo neanche capito che avesse intenzione di lasciare il posto. Quello che più mi sorprende è che Shacklebolt abbia accettato questa sua decisione senza fare una piega. Comunque, ha senso, una volta saputa la sua storia."
"La sua storia? Credevo che fosse una sorta di recluso sfigato che viveva dentro Azkaban."
"E invece ha avuto una famiglia al di fuori della sua vita professionale," ribatté lui con aria sarcastica. "Sai, c'è chi ci riesce."
"Be'? Non lasciarmi così a secco."
Harry sorrise amaramente. "Non è una storia felice. Lukas ha perso genitori, moglie e figlio durante la Grande Guerra, uccisi dalle schiere di Mangiamorte di Voldemort perché aiutavano i Nati Babbani a nascondersi. Quando la notizia è passata su Radio Potter..." scosse la testa, con fare affranto. "Non posso neanche immaginarlo. Se dovesse succedere a noi—"
Lo fermai, posandogli una mano sul braccio. Non mi importò di essere brusca, lo presi per il bavero della giacca, costringendolo a guardarmi. "No. No, Harry, non pensarci neanche. Noi staremo bene, più che bene. Non puoi permetterti questi pensieri adesso."
Da quando era finita la guerra, io avevo dovuto imparare a conoscerlo - conoscerlo non solo come il grande eroe che aveva salvato il Mondo Magico, ma come il ragazzino ferito e terrorizzato che era. Avevo dovuto capire come aiutarlo quando i suoi incubi lo svegliavano nel cuore della notte, quando, dal nulla, si metteva a singhiozzare per le persone che aveva perso, per le vite che non era riuscito a salvare.
Lui non era come Ron: non aveva bisogno di essere rassicurato, di frasi tenere e dolci. Non aveva bisogno di un abbraccio, non aveva bisogno di smancerie. Harry era quel tipo di persona che si doveva trattare con una certa durezza. Per essere rinfrancato, necessitava di vedersi sbattuta la verità in faccia.
Non si doveva dire, forse andrà meglio. No, si doveva dire, devi crederci. Si risolverà tutto, io lo so, e tu devi esserne convinto quanto me, perché è vero.
Arrivammo di fronte la casa di Lukas Wenham nel giro di tre minuti. Quando l'uomo in questione ci venne ad aprire, rimasi leggermente sorpresa per il suo aspetto. Avrà avuto attorno ai cinquant'anni, ed era di innegabile bell'aspetto. Alto, dai capelli biondi tirati all'indietro e uno strato di barba curata sulle guance, appena mi vide sgranò gli occhi azzurri - come il nome indicava, doveva avere origini nordiche - e sorrise.
"Ginevra Weasley? Delle Holyhead Harpies? A cosa devo l'onore?"
Sorrisi anch'io. "In persona."
"Vorremmo farle alcune domande sulle sue dimissioni come direttore di Azkaban," intervenne Harry, la bocca piegata in una linea retta, piuttosto freddamente. "È urgente."
Nascosi un ghigno soddisfatto mentre Wenham ci faceva da parte per farci entrare in casa. Era piccola, ordinata, pulita - non quello che mi sarei aspettata da un uomo. Ancora mi ricordavo quando io e Lily eravamo andate a dormire un paio di giorni da Luna, dato che Rolf e Lysander e Lorcan erano via per un viaggio di lavoro, insieme a Hermione e Rosie, e avevo lasciato i ragazzi di casa soli. A momenti l'avevano mandata a fuoco, e si era trasformata in una cuccia per cani.
"Accomodatevi," ci indicò il divano in salotto. "Qualcosa da bere?" mi chiese, con un accenno di nervosismo, il mago. Era attraente quasi quanto il bulgaro Viktor Krum, che dopo venticinque anni ancora aveva un debole per la mia amica.
Scossi la testa. "Grazie, ma andiamo di fretta."
Wenham si sedette, e noi lo seguimmo a ruota. "Come posso esservi utile?"
"Perché ha improvvisamente lasciato il posto da direttore in favore di un lavoro come dipendente dell'Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia?" chiesi io, accavallando le gambe. Wenham, rispettosamente, non seguì il mio gesto con gli occhi - forse troppo impegnato a tenerli sul mio viso.
Ero fiera che mi avesse riconosciuta come giocatrice delle Holyhead Harpies, e che non fosse subito impazzito nel ritrovarsi di fronte il fantomatico Harry Potter, e via dicendo.
La sua bocca ebbe un guizzo, ma gli occhi azzurri rimasero calmi. Intrecciò le dita sulle ginocchia, senza distogliere lo sguardo da quello di mio marito. "Ho avuto problemi in famiglia."
Harry non fece una piega. "Ci risulta il contrario."
Wenham alzò un sopracciglio, invitandolo a continuare, e lui, impassibile, disse: "Credevamo che la sua famiglia fosse morta."
Il biondo si mantenne spaventosamente neutrale. "Dirigere Azkaban è un lavoro a dir poco stressante. L'urgenza data dai motivi familiari è il modo migliore per ottenere risultati tempestivi."
Harry, come da perfetto Auror, decise di non insistere, ma di rigirare l'argomento. "Quando ha saputo chi avrebbe preso il suo posto?"
Wenham fece spallucce. "Insieme a tutti gli altri del mio nuovo dipartimento, all'incirca una settimana dopo che Shacklebolt ebbe accettato la mia decisione. Dopotutto, non mi riguardava più direttamente."
La domanda che più ci premeva, quindi se il Lord Protettore l'avesse costretto a dimettersi perché sapeva qualcosa di importante, era anche quella che era meno facile da porre.
"Conosceva già questo Brierley, il suo sostituto?"
"No," mi rispose, "forse l'avevo visto di sfuggita al Ministero, e avevo sentito parlare molto bene di lui in giro. L'unica cosa che mi aveva stupito era l'età - Brierley risulta giovanissimo per un incarico di tale tipo, solo ventisei anni."
"Il Ministro Shacklebolt ha detto che già da anni lavorava a stretto contatto con il Viceministro Randall e la sua Assistente, Ephelia Skeeter," spiegò Harry. "E poi, la scelta di mollare è stata imprevedibile. C'era l'immediato bisogno di una sistemazione."
Wenham alzò di nuovo le spalle, e si rimboccò le maniche della sua camicia. "Come ho già detto, non mi sono immischiato negli affari di Shacklebolt. Se ho lasciato questo lavoro, è proprio per non averci più a che vedere."
Harry, forse stufo di quelle risposte così vaghe ma al contempo così sincere, decise di lanciare la bomba. "Signor Wenham," mormorò, chinandosi in avanti fino ad avere i gomiti sulle ginocchia. "Lei ha mai sentito parlare del Lord Protettore?"
La totale confusione trasparì nei suoi occhi. "Il cosa?"
Io sospirai, delusa. Stranamente, stavamo giungendo al nulla più assoluto. Non avevo certo avuto la convinzione che potessimo trovare qualcosa al primo colpo, ma nemmeno che saremmo usciti con in mano un pugno di mosche.
Speravo che i ragazzi avrebbero avuto più fortuna: io ero, forse, l'unica degli adulti che davvero confidava in loro. Hermione e Harry, probabilmente dimentichi di quello che avevano passato insieme, alla loro età e persino più piccoli, li trattavano solo come bambini da proteggere.
Loro erano tutt'altro, invece. Rose aveva combattuto contro chi voleva ucciderla, Scorpius si era infiltrato dentro Azkaban. Quando avrebbero smesso di vederli come cuccioli? Quando li avrebbero iniziati a guardare come adulti?
Noi avevamo combattuto una guerra alla loro età. E comunque, più di uno voleva fare l'Auror - sarebbero comunque vissuti nel pericolo, per quanto fosse difficile da accettare. Il Lord Protettore, prima di minacciare noi, minacciava loro. Dovevano imparare a difendersi, e al più presto.
"Quindi ha lasciato Azkaban solamente per riposarsi? Non c'erano altre motivazioni - ad esempio, pressioni da parte di qualcuno? Intimidazioni?" domandai, tentando di non mostrare emozioni per non far sì che Harry, che con la carriera Auror aveva sviluppato un acuto senso dell'osservazione - che gli era decisamente mancato nell'adolescenza, - si preoccupasse.
Wenham sembrò indeciso. "Essere il capo di quella prigione comporta una quantità infinita di responsabilità," rispose, quasi con fare arrendevole, "negli anni ho ricevuto più di una lettera minatoria. Non mi è mai importato più di tanto," aggiunse. "Non credevo che mi sarebbe successo niente di male. Principalmente, i familiari dei detenuti che avevo internato."
Aggrottai la fronte. "E queste non hanno mai influito sulla sua scelta di lasciare il carcere?"
"No," fu la risposta, decisa. "Avevo decine di Auror a sorvegliarmi, e per qualsiasi privato cittadino era quasi impossibile rintracciarmi e farmi del male. Anche se..." scosse la testa, interrompendosi.
Gli occhi verdi di Harry ebbero un guizzo. "Anche se?" lo invitò, curioso.
Wenham alzò per la terza volta le spalle, e agitò la mano come a minimizzare il tutto. "Una settimana prima di Natale, quando ho presentato il foglio delle dimissioni," raccontò, ora con aria quasi nervosa, "me ne è arrivata una diversa dal solito."
"Diversa?" ripetei, "diversa come?"
L'uomo si alzò, e iniziò a camminare avanti e indietro. "Il contenuto era uguale ad ogni altro. Diceva di stare attento, perché il pericolo era in agguato, e che se non avessi lasciato il posto come direttore mi sarebbe successo qualcosa di orribile."
Corrugai le sopracciglia. "Ma allora cosa c'è di differente?"
"Era firmato," replicò Wenham, sorprendendoci. "Non con un nome," si affrettò a specificare, "ma con un simbolo."
"Può farcela vedere?" insistette Harry, già irritato dalla, forse inconsapevole, mancanza di collaborazione dell'uomo. Sembrava dovessimo cavargli ogni parola di bocca - probabilmente riteneva che ciò che ci stava raccontando non fosse importante. Non capiva che qualsiasi dettaglio, anche la più infinitesimale cazzata, poteva risultare fondamentale per noi.
Il mago si esibì in un sorriso di scuse. "Non credevo fosse di una qualche rilevanza. L'ho buttata insieme alle altre, un mese fa."
Harry si prese il viso tra le mani, l'unica reazione che si era permesso da quando eravamo entrati in quella casa. Prima di incontrarlo aveva tessuto un elogio delle sue capacità come leader, adesso era pronto a strozzarlo. Io, frustrata, mi mordicchiai il labbro. Sapevo, razionalmente, che non avrei potuto incolparlo di una tale mancanza, ma allo stesso tempo avrei voluto appenderlo a testa in giù dalla statua del Ministero.
"Allora si ricorda, per caso, com'era fatto?"
Lui, sorprendentemente, annuì alla mia domanda. "C'era una sorta di, unicorno, credo. Con un toro, e uno stemma. Era abbastanza sbiadito, non si leggeva benissimo, ma ne sono quasi sicuro."
Harry sbiancò dal nervosismo. "E non ha pensato di cercare da qualche parte che cosa volesse dire?" chiese, con il suo solito tono pacato, ma un sottile fastidio a velarlo.
"No," replicò lui. "Mi dispiace. Si leggono tante di quelle stranezze ogni giorno, che non mi sono preso il disturbo."
Dall'occhiata gelida che ricevette da mio marito, capii al volo che non c'era altro da fare lì. Era bastato quell'apprezzamento sulla mia carriera nel mondo del Quidditch per innervosirlo, e le risposte evasive e inutili di Wenham non facevano che aumentare quel fastidio.
"Grazie per il suo aiuto," intervenni io, interrompendo quel gioco di sguardi che si stava facendo sempre meno cordiale. Mi alzai e tesi la mano al biondo, che indossò subito la più gentile delle espressioni, divertendomi.
"Arrivederci a lei, signora Potter. Volevo chiederle un favore, ma forse potrebbe darle fastidio..."
Solo il modo in cui Harry si accigliò mi fece accettare. "Mi dica," ribattei, sorridendo.
"Posso - potrei, per favore, avere un suo autografo?"
Fu la goccia che fece traboccare il vaso: Harry emise un lamento paragonabile al soffiare di un gatto, e mi tenne il muso finché non fummo fuori da quella casa.
"Oh, smettila di ridere, Ginny," mi rimproverò, notando il mio ghigno Weasley stampato in volto. "Non è divertente."
"È molto divertente," lo corressi, scoppiando a ridere, e lo presi sotto il braccio, pronta a tornare a casa e a riempirlo di tutte quelle attenzioni che, in fondo, mi faceva più che piacere dargli.
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