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5. Labirinto di Fuoco

Noah

Ritornare alla Columbia era come rimettere piede nell'inferno. Un tempo, io e mio fratello eravamo popolari, apprezzati e stimati da tutti. Poi, dopo quella notte, qualcosa cambiò e di colpo diventammo gli assassini. Era un'etichetta che detestavo, una macchia che non riuscivo a scrostarmi di dosso pur grattando con vigore la pelle. Non avevo mai capito quanto danno potesse fare un pettegolezzo prima di quella volta. Erano in pochi a credere nella nostra innocenza.

Il tradimento maggiore lo subii da Evan. Lui era il mio migliore amico, la mia spalla, avevamo vissuto momenti indimenticabili al liceo e aveva visto parti di me che neanche il mio gemello aveva conosciuto. Ma quando lei morì, mi puntò il dito contro accusandomi di un reato per me stesso imperdonabile. Non lo avrei mai fatto. Non avrei mai potuto ucciderla.

Seduto sotto l'albero secolare dell'immenso giardino della scuola, osservavo la gente passeggiare allegra. Nash accanto a me fumava una sigaretta, sembrava essere assorto in qualche pensiero strano perché era stranamente silenzioso. Il mio gemello non stava mai zitto. Parlava fin troppo e aveva un'ironia molto spesso tagliente e fuori luogo. A volte mi chiedevo se provasse davvero dei sentimenti perché era capace di ironizzare anche sulle tragedie.

Mi voltai a guardarlo per un secondo, sistemando gli occhiali sul naso visto che quella mattina non ne volevano proprio sapere di rimanere ferme. Si accorse del mio sguardo e, facendo un sorriso, mi diede un colpetto di gomito sul braccio. «Fratello mio, un giorno saremo ricchi e andremo via da questa città di merda, lasciandoci ogni cosa dietro le spalle» mormorò, guardando con una smorfia Evan che, con il suo solito fare da spaccone, sembrava sussurrare le solite battutine cattive nei nostri confronti. Non riuscivo a sentirlo, ma ci guardava a rideva quindi potevo immaginare quale altra stronzata stesse inventando su di noi.

«Non lo odio» dissi, riferendomi al ragazzo, «in fondo lo capisco. Sta soffrendo.»

Seguì una risata ironica da parte di Nash. «Sta soffrendo? Non è lui che ha perso una sorella ammazzata, probabilmente dallo stesso padre» rispose, facendo una smorfia.

Allora lo pensava anche lui. Non lo aveva mai confermato, se non prima di quella volta. Ogni volta che in un impeto di rabbia accusavo nostro padre, lui rimaneva in silenzio e il suo volto si trasformava in una maschera priva di emozioni. A volte pensavo che mi prendesse per pazzo. «Non credevo che anche tu lo pensassi...»

Mi guardò serio, poi fece un sospiro. «Non esiste un minuto in cui non lo abbia creduto, Noah. Ma non abbiamo prove e lui sembra essere più protetto di quanto sembra. Dobbiamo andarcene da quella casa»

Aveva ragione. Probabilmente eravamo sul serio in pericolo. Mio padre non era mai stato un padre esemplare. Dopo la nascita di Althea, nostra sorella, era impazzito. Non l'avevo mai visto fare una carezza d'amore per la sua unica figlia femmina. Gran parte dei motivi che l'avevano portata all'anoressia era proprio la ricerca di attenzioni verso i miei genitori. Mi passai una mano sul viso. «Ma che motivo avrebbe dovuto avere? Forse non riusciamo solo ad accettare il fatto che lei si sia suicidata, magari il nostro è solo un modo per non sentirci in colpa per averla abbandonata nel momento peggiore della sua vita, il disturbo alimentare.»

Non rispose. Rimase a fissare davanti a sé in silenzio. Quando una persona cara decide di togliersi la vita, si entra in un circolo tremendo che è quello del senso di colpa. Magari stavamo davvero accusando nostro padre solo per sentirci meno sporchi con noi stessi, solo per giustificarci dal fatto che eravamo troppo presi dalle nostre vite per accorgerci di quanto lei stesse soffrendo. «Lei me la ricorda» disse dopo poco, facendo un lungo sospiro, «Juliet, intendo. Mi ricorda tanto Althea. Ogni volta che la guardo sento come se-»

«Come se lei fosse ancora qui» continuai per lui, «lo so, provo la stessa sensazione.»

Non parlò più per tutta la mattina, neanche quando Ashley corse a salutarci con il suo solito fare esuberante. Forse era vero, dal passato non si poteva fuggire perché lui tornava in qualche modo per ricordarti della sua esistenza. Juliet era arrivata nelle nostre vite per un motivo: riscattarci per tutte quelle volte che, corrosi dalla vita, avevamo voltato le spalle a nostra sorella Althea.

Juliet

Avevo un rapporto strano con le fotografie, mi piaceva esporle, conservarle, ma poi non avevo mai il coraggio di soffermarmi a lungo con lo sguardo su di esse. Quel pomeriggio aveva un sapore amaro. Liam aveva ricevuto cattive notizie riguardo alla sua malattia, sembrava proprio che non stesse affatto progredendo e questo lo aveva scoraggiato al punto che si era rinchiuso in camera. Così, ero rimasta da sola nella mia, con l'ennesima flebo attaccata al braccio. Ormai smettevo pure di chiedermi che cosa mi stessero iniettando. Quelle ore in solitudine, mi portarono a sfogliare tutte le foto che avevo appeso al muro. Ne presi una, accarezzai il volto di quella ragazza e gli occhi cominciarono a bruciare dalla commozione.

Althea aveva quindici anni la notte che ingerì volontariamente del veleno per farla finita. L'avevo conosciuta tra queste mura, era la figlia del dottor Alan Miller. Non che per lei fosse un vanto, lo chiamava spesso per nome.

Althea era piena di energie, amava la vita, i colori, le primule e le ginestre, ma l'anoressia l'ha ammazzata. Perché quando lei arrivava, non aveva alcuna importanza se tu fossi in grado di sovrastarla. Avrebbe vinto. È come un demone, si insidia nelle carni e mangia tutto quello che ti appartiene. Era tornata casa dopo il ricovero, mi aveva abbracciata stretta e mi aveva detto che avrei potuto farcela anch'io. Fisicamente, aveva raggiunto quello che noi malati di disturbi alimentari temiamo: il peso forma. Ma la nostra malattia non è solo il fisico, se il suo corpo aveva retto, la sua testa probabilmente no. Due notti dopo aveva bevuto dell'arsenico.

Rimasi a fissare la foto e accennai un sorriso. Quanto era bella, la mia Althea... sorrideva, era felice. Quante notti mi ero odiata perché non ero riuscita a salvarla. Asciugai le lacrime e decisi di andare da Liam. Il fatto che non uscisse dalla stanza mi preoccupava, dovevo almeno assicurarmi che stesse bene. Mi trascinai dietro la flebo e uscii nel corridoio. Fu solo in quel momento che notai che i gemelli erano lì, in compagnia di Maddox e di una ragazza che non avevo mai visto. Li salutai con un cenno della mano, poi a piccoli passi percorsi il breve tragitto che mi portava alla camera di Liam. Il dolore alle gambe quel pomeriggio sembrava mangiarmi viva, era atroce. Sconfitta, bussai alla porta e vi appoggiai il capo sopra. «Liam...» mormorai con voce tremante, «Liam per favore»

Sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla. «Tesoro, non ne vuole proprio sapere...» era Selene, la giovane infermeria assunta da poco nel nostro reparto.

«D'accordo» dissi, facendo un sospiro. «Liam, lo so che sei là dietro. Non voglio costringerti a uscire, quindi farò alla vecchia maniera, va bene?» guardai la giovane operatrice sanitaria, «Sel, mi porti carta e penna?» annuì e mi procurò subito ciò che le avevo chiesto. Mi appoggiai alla porta per scrivere. "So che senti di aver fallito, ma qualsiasi cosa tu stai provando adesso, possiamo affrontarla insieme. Tu ed io, come sempre."

Lo passai sotto la porta, notando che i ragazzi in corridoio mi guardavano con una leggera tristezza. Che merda. Odiavo quando qualcuno provava compassione per noi. Tamburellai le dita sulla porta e attesi una risposta, che però non arrivò. Ritentai con un altro biglietto. "Liam, ti prego. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra. Non mollare adesso." Passai anche quello. I minuti scorsero ma di Liam nessuna traccia. Mi sentivo sconfitta. «Ancora niente, tesoro?» mi chiese Selene, accarezzandomi la schiena.

Rimasi con la testa appoggiata alla porta e scossi il capo. «No, cazzo. Avete tolto tutti i lassativi in camera, vero?»

Annuii. «Tutti. Ne abbiamo trovato un flacone dentro la scatolina sopra l'armadio.»

«E quelli dietro il vaso di Viole?»

Sbarrò gli occhi. Cazzo. Fu in quel momento che cominciai ad agitarmi e a bussare come una matta. «Liam, apri questa cazzo di porta perché se scopro che hai preso i lassativi giuro che ti faccio fuori!» ringhiai, cominciando a battere le nocche come una forsennata.

Selene tentò di fermarmi. «Tesoro, rischi di farti male, hai la flebo!»

«Lasciami stare!» urlai. Mi divincolai dalla presa, usando una forza che nemmeno io credevo di avere. Mossa errata, perché l'ago scivolò dalla pelle e il sangue cominciò a schizzare ovunque, macchiando l'intero braccio e la porta davanti a me. «Cazzo!» esclamai, continuando a bussare.

Noah si avvicinò a me. «Juliet, per favore calmati. Devi sistemare l'ago, il sangue schizza ovunque!»

Gli tirai una gomitata. «Non me ne frega un cazzo! Fatelo uscire da quella camera o sfondo la porta!» ringhiai, prendendola a calci sotto lo sguardo spaventato di Selene.

Pronunciò una semplice parola, la stessa che mi portò a guardarla con odio e rabbia. «Sicurezza! Aiutateci a calmarla, sicurezza!»

Un uomo mi trattenne dal braccio non ferito, mentre Selene si accorse a prendere l'occorrente per medicare il braccio e fermare il sangue. «Cazzo, lasciatemi stare! Devo... Liam, per favore!» cominciai a piangere, disperata, nella speranza che il mio migliore amico non si fosse fatto del male.

Fu in quel momento che la porta si aprì. Rivedere il suo volto fu come entrare in un clima di pace e calma. «Non li ho presi» mi disse con voce meccanica e il volto spento, «lo stavo per fare ma ho pensato a te, alla mia promessa.» rivolse uno sguardo a Jill, l'uomo della sicurezza, e lui mi lasciò andare.

Regolarizzai il respiro. «Mi hai fatto... Dio, ti odio così tanto!»

«Mi dispiace,» disse, avvicinandosi a me e prendendo il cotone dalla mano di Selene, «adesso lasciati pulire e curare questo braccio, poi riposeremo insieme in camera tua. Si vede che non hai proprio dormito.»

Mi calmai. Solo lui era in grado di farlo. Notai Noah avvicinarsi cauto a noi. «Vi serve una mano?» domandò a bassa voce.

Liam scosse la testa. «No, amico, grazie. Siamo abituati.» e mi portò in camera, in silenzio.

Soffrire di disturbi alimentari era come vivere in un labirinto di fuoco. Vivevi tra le fiamme, con la convinzione di saperle domare, ma quando meno te lo aspettavi, esse divampavano e ti bruciavano vivo.

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