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Sconforto e codardia


Vincent e Claudette non avevano mai provato un tale sentimento così forte da far tremare la voce, le gambe, il cuore. Erano stati amici, degli amici gelosi che non riuscivano a vedere nessuno, se non se stessi, accanto all'altro. Una gelosia morbosa li accomunava e loro non se ne curavano: avevano loro con se stessi e questo bastava per far apparire il resto del mondo frivolo ai loro occhi.

Erano sempre stati ottimi amici, alle volte forse un po' più intimi, ma poco importava. Non hanno mai provato a chiarire la loro situazione, non era importante, ché tra loro era solo passione. Erano solo incontri occasionali fatti di corpi sudati che si univano in un'armonia di gemiti, orgasmi e sospiri. Era un legame di amicizia vissuta in ogni sfaccettatura che la vita donava, fu così, però, che giorno dopo giorno, tra mani che si cercavano, tra pianti soffocati e urla disperate, il loro bene si evolveva. Non volevano ammetterlo per paura di rovinarsi. Ammettere qualcosa significava renderla reale e non c'era nulla di più pauroso della realtà, per loro due; così si scambiavano gesti e carezze, il cui valore era più grande di qualsiasi altra parola.

Non se lo dicevano, ma lo sapevano bene: per lei c'era solo lui e per lui c'era solo lei. Era un amore insano, indissolubile, felice tanto quanto tormentato, il loro.

Vincent, ancora sdraiato su quella panchina logora tra l'effetto di una sostanza nociva, tossica, sorrideva al pensiero di loro due prima di tutto quello. Smise di farlo solo quando la sua mente malata non lo trascinò in un ricordo recente ma poco quieto.

Vincent e Claudette erano tremendamente spaventati dopo l'errore che lui aveva commesso cercando di dar un nome al loro rapporto. Dopo l'estasi che li aveva accompagnati durante quella notte piovosa e viva, era seguito il terrore di non esser capaci di rispettare l'altro e la paura di sbagliare; questo dopo poche settimane li fece precipitare in un pozzo senza fondo composto di malinconia, impazienza, rabbia e una sconfinata tristezza.

Spesso trascorrevano le giornate nell'appartamento della piccola creatura: fu lì che Vincent prese dimora dopo quella notte. Tuttavia, durò poco.

Vittima di quel sentimento pauroso, dopo pochi giorni fu preda di un attacco di panico furioso. Aveva bisogno d'aria: gli mancava il fiato. Aveva bisogno di evadere dalla monotonia e di placare il suo cuore costantemente in subbuglio: non sopportava più il suo cuore palpitante, non sopportava sentirlo battere costantemente nella cassa toracica. Aveva bisogno di andare via.

"Scappa", gli diceva la sua testa.
"Rimani", gli suggeriva il cuore.
"Al diavolo i sentimenti", si ripeteva.

Seguì il consiglio che la sua mente gli donò, così prese il cappotto, indossò un cappello nero e si precipitò dentro l'auto. Fece respiri profondi alternati a ringhi frustrati per tentare di calmare il suo animo. Ma tra sospiri disperati, una valanga di lacrime che erano in procinto di dipingere il suo volto stanco, affranto e deluso da se stesso, e mani tremanti che sostenevano il peso del capo mentre stritolavano i capelli; diede vari pugni al volante, certo che il dolore avrebbe potuto calmarlo: così non fu.

Evadere. Aveva bisogno di evadere.

Mise in moto l'auto, schiacciò sull'acceleratore e con una sgommata uscì da quel parcheggio dirigendosi con la sua ira e ipocrisia da qualche parte nel nord della Francia.

Quando Claudette tornò a casa, dopo le ore trascorse sui libri, non trovò Vincent, ma lo aspettò. Lo aspettò fino al sorgere delle stelle e fino al calare della luna, lo aspettò per i seguenti ventidue giorni, finché l'ultima stella fu visibile nel cielo quasi illuminato dal sole. Lo aspettò anche se lui non le lasciò nessun messaggio e anche se non aveva sue notizie. Non perse le speranze: sarebbe ritornato. Tornavano sempre l'uno dall'altra, lo avrebbe fatto ancora, ne era certa. Doveva solo pazientare.

Che ingenua fu Claudette! Una creatura leale, giusta, bella e forte ma con un punto debole: l'ingenuità. I mesi trascorsero e mentre lei non aveva notizie del suo Vincent, non poté fare altro che voltare pagina. Era terrorizzata all'idea di averlo perso. Nessuna paura era maggiore di quella, in lei, ma non poteva continuare ad aspettarlo: tra pochi mesi avrebbe finito gli studi e sarebbe andata via, lontano da lui e da quella cittadina.

Per la prima volta assaporò la libertà: era al gusto di malinconia e felicità. Una libertà paurosa, indesiderata che faceva mancare il respiro. Fu libera, per la prima volta, da quel legame indissolubile creato da sguardi, poche certezze e infiniti tocchi. Fu libera, ma non riusciva a percepire quell'autonomia, in precedenza negata dal loro amore.

Erano da sempre stati ossessionati l'uno dall'altra; era un bene tossico, il loro. Improvvisamente, però, la libertà bussò alla loro porta con l'intento di incatenarli in una realtà che non apparteneva alla loro natura, di conseguenza non ne vollero sapere di essere liberi. Preferivano la prigione del loro amore.

In quella libertà, conobbe un giovane, uno qualunque, con qualche dote nascosta. Ciò che turbò Claudette, però, fu che quel giovane non era Vincent.
Passeggiarono mano nella mano, osservando il sole calare, ma ancora una volta lei accarezzava le dita di uno sconosciuto. Non era Vincent.
Fecero l'amore, ma senza i tocchi dolci ma bramosi che solo lui sapeva donarle. Non era Vincent: non fu amore.

"Libertà è una parola troppo importante per definire il mio cuore. Il mio organo palpitante non è libero, è imprigionato in un amore tossico quanto vitale. Libertà è ciò che non vorrei mai, ma che nello stesso istante desidero follemente", così scriveva Claudette, in un giorno qualunque durante quell'attesa infinita, nel suo quaderno dei pensieri.

Claudette aveva scoperto le due facce di quel sentimento tanto temuto dal maggiore e ne era impaurita tanto da abbandonare il suo nuovo uomo e chiudersi in se stessa, affogando tra le lacrime e i sensi di colpa.
Era persa senza lui. Lui era stato la sua infanzia, la sua vita, la sua giovinezza e ora non c'era. Ora lui non c'era e Claudette si rifiutava di mangiare, si rifiutava di vivere.

Erano sempre stati solo loro due e adesso che uno dei due non era presente vi era un vuoto nell'altro.

Claudette era da settimane chiusa in casa con le lacrime agli occhi, con le ferite nel cuore e la porta di casa chiusa a chiave.

Aveva commesso un errore, Claudette: era stata con qualcuno che non amava durante la fuga dai sentimenti del suo uomo. Lui era sparito e lei non sapeva né dove fosse e né con chi fosse, era straziante non sapere nulla, le procurava una voragine nel petto ignorare cosa stesse facendo il suo Vincent. E mentre lui era lontano mille miglia per puro egoismo, per pura codardia verso lei che raffigurava l'amore, Claudette aveva deciso di voltare pagina e adesso se ne stava facendo una colpa.

"Prendi il mio corpo", pregava dio, Claudette, il suo unico dio: Vincent. "Non abbandonarmi", sussurrava prima di addormentarsi, con il viso sul cuscino pregno di lacrime. "Se mi amavi, perché mi hai abbandonato?" si chiedeva mentre puliva il pavimento. "Trovami", era la sua ultima preghiera quotidiana.

Fu esaudito il suo desiderio. Vincent la trovò e bussò calmo alla sua porta. Tuttavia Claudette aveva l'animo in subbuglio: sapeva bene che non lo aveva spettato. Non seppe attendere e fu il suo unico sbaglio.

Giaceva ancora su quella panchina il corpo bagnato e freddo di Vincent Leroy.

Lo spazio di Cenere

Buongiorno, amici!

Scusate per il ritardo nel pubblicare il capitolo! Ho diversi impegni lavorativi che mi impediscono di scrivere, lo faccio la notte difatti ^^" Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che sia valsa l'attesa.
Fatemi sapere la vostra opinione!
Che idea vi siete fatti di Claudette? Ha fatto bene a non aspettare Vincent?

Mancano pochissimi capitoli alla fine e sinceramente sono elettrizzato di leggervi non appena pubblicherò l'ultimo atto di questa storia.

Non vi prometto che la prossima domenica uscirà il quarto capitolo, tuttavia spero di riuscire a scriverlo entro la prossima settimana. A presto!

- Cenere

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