Atto I
2:28
Aurora, sono qui fuori.
2.32
Ti sto aspettando.
Avevamo concordato per le tre massimo.
Dove sei?
2.33
Devo chiamare la polizia?
2.35
Mamma, sono in fila per il bagno con Carla.
Ci sono tantissime persone.
2.35
Carla può aspettare e farla a casa che è anche più igienico.
2.36
Dice che è urgente.
Ci vorrà almeno mezz'ora.
2.36
Se non vuoi che entri lì dentro e ti faccia fare una figuraccia uscite immediatamente!
I patti non erano questi.
2.37
Facciamo presto!
Sbuffai sonoramente in macchina da sola, mentre gettai in malo modo il cellulare sul sedile del passeggero della mia fiat 500. L'abitacolo era completamente buio e silenzioso, eccezion fatta per quel brusio proveniente dalla discoteca in cui mia figlia e le sue amiche avevano deciso di passare il sabato sera.
Sapete qual è il lato negativo di essere una madre giovane di appena trentaquattro anni? Che le altre madri più vecchie si aspettano tu non abbia problemi a fare le tre del mattino per andare a prendere non solo tua figlia, ma anche le loro.
E, invece, problemi ce n'erano eccome considerando che io lavorassi come tutte loro per ben otto ore al giorno.
Forse avrei dovuto fare come quelle madri cinquantenni che, pur di non avere pensieri, preferivano sempre vietare qualunque esperienza ai figli. Ma purtroppo io ero cresciuta proprio a suon di "no" continui e a trentaquattro anni mi rifiutavo di far vivere la mia figlia quindicenne di rinunce continue a esperienze irripetibili. Non volevo che mia figlia, in futuro, rimpiangesse l'adolescenza come invece facevo io, ogni santo giorno.
Accesi la luce dell'abitacolo, flebile come la mia voglia di vivere in quel momento. L'unica cosa a cui riuscivo seriamente a pensare era al cuscino e a quella ridicola menzogna di mia figlia. Probabilmente, il famoso bagno gremito di gente e con una coda lunghissima era soltanto l'ennesimo cespuglio che avrebbe accolto il vomito suo o dell'amica ubriaca. Erano davvero convinte che io fossi all'oscuro dei trucchetti adolescenziali per smaltire l'alcol in eccesso?
Ero stata giovane anch'io e avevo anch'io riempito di menzogne la testa di mia madre.
Dai, sono ancora giovane, in fondo.
Alla fine, i trentaquattro anni erano più vicini ai trenta che ai quaranta, no?
Toc. Toc.
Sobbalzai nell'istante in cui sentii il rumore di qualcuno che stava picchiettando le nocchie sul finestrino della mia auto. Il battito del cuore accelerò rapidamente e io iniziai ad avere una certa ansia.
Ma che certa. Avevo una terribile ansia e già mi vedevo uccisa da un pazzo omicida.
Chi avrebbe accompagnato mia figlia a casa se io fossi morta?
Voltai immediatamente il volto verso la direzione del rumore e contro ogni mio desiderio i miei occhi incontrarono la figura di un ragazzo fuori la mia macchina.
Ero terrorizzata e abbassai il finestrino di appena un centimetro, giusto per poter sentire che diamine aveva da dirmi del tizio che aveva richiamato la mia attenzione. Intanto, la mia mano destra era poggiata sulla chiave di accensione dell'auto, pronta a svignarmela in un posto meno isolato e più sicuro al primo sentore di allarme.
«Vuoi qualcosa?» domandai e fortunatamente la mia voce uscì più ferma di quanto avessi immaginato, giusto per preservare la mia dignità.
«Sì,» rispose lui. Aveva un tono di voce molto basso per essere solo un ragazzino. «hai da accendere?»
Inutile dire che di quel tizio non mi fidavo per niente.
Grazie alla piccola luce nell'abitacolo, nell'oscurità, riuscii comunque a distinguere qualche suo tratto. Una cosa che potevo dire con certezza era che fosse decisamente molto alto e moro. Aveva un tatuaggio sul braccio sinistro, quello che aveva usato per bussare al finestrino della mia auto, ma non potevo dire cosa rappresentasse con esattezza. Sul volto aveva un accenno di barba scusa a contornare delle labbra piene. Dall'oscurità, gli occhi mi parvero scuri. Il fisco era tonico, le braccia e le spalle erano più grandi della norma, segno che praticasse qualche sport da molto. Probabilmente atletica, a giudicare di primo approccio.
Di certo, non avrei potuto atterrarlo in nessun modo se avesse voluto farmi del male. Io ero appena un metro e sessantacinque di finta magrezza e un po' di cellulite alle cosce.
«Sei in una discoteca, con amici sicuramente. In fondo a questo spiazzo dovevi venire a chiedere un accendino?» chiesi scettica.
Per un istante ci guardammo negli occhi. Lui sorrise – inaspettatamente – e ripose la mano sinistra nella tasca dei suoi jeans dal lavaggio chiaro. Poco dopo, riestrasse la mano e lo avvicinò alla bocca. Da lì, una fiammella uscì, e solo ad allora notai l'accendino nella sua mano.
La piccola luce mi permise inoltre di distinguere maggiormente i tratti del suo volto.
Avrà avuto forse vent'anni, qualche anno in più al massimo. Il volto era giovane, pulito e, dovevo ammetterlo, attraente. Gli occhi erano chiari, verdi oppure di un castano comunque tendente al verdaccio. Aveva le ciglia nere molto lunghe e gli occhi grandi e un po' rossi. Solo quando aspirò il primo tiro capii non fosse una sigaretta normale, ma una canna. Sul viso, un sorrisetto di scherno gli colorò le labbra piene.
«Che sbadato, avevo dimenticato di averlo proprio in tasca».
Lo dico? Posso dirlo? È sbagliato? Forse un po'. Ma lo dico lo stesso: quando avevo vent'anni sarei impazzita letteralmente per uno così.
Ma grazie a dio la coscienza mi ricordò di averne almeno dieci in più.
«Molto divertente» dissi soltanto.
«Speravo essere più intrigante che attraente a dire il vero» ribatté, ma il velo di sarcasmo e ironia era ben evidente nella sua voce.
E che voce.
Basta, Emma. Ha almeno dieci anni meno di te. Basta.
«E come mai te ne stai qui fuori, al buio, in solitudine, al posto di essere dentro a bere e ballare?»
A quel punto scoppiai in una sonora risata e lui ne restò da un lato confuso, da un altro, era evidente, curioso.
«Facciamo un gioco» gli dissi. «Indoviniamo la tua età».
«Prima rispondi alla mia domanda» ribatté convinto.
«Prima giochiamo» insistetti.
«Giochiamo».
Giuro, non stavo flirtando con un tizio a caso. Giuro.
Spostai lo sguardo da lui per dirigerlo davanti a me per scrutare il paesaggio attraverso il vetro della mia auto. Dinanzi a noi c'era un albero abbastanza vecchio a giudicare dal diametro del tronco e una piccola folata di vento fece muovere i suoi rami pieni. Questa deviazione, mi consentì di pensare a un'età da buttarli per iniziare.
Sicuramente era più grande di Aurora, su questo non c'erano dubbi. Maggiorenne lo era sicuramente. Più che altro, era appena diciottenne, oppure andava sui venticinque, magari? A giudicare da come si poneva, poteva sembrare più grande, quindi sparai un'età di mezzo.
«Ventidue» dissi.
Lui sorrise malizioso. «Fuochino».
«Ventiquattro».
«Acqua».
Cazzo. Voleva dire che fosse più piccolo dei ventidue anni. In quel momento non seppi spiegare la mia delusione, ma più avanti mi fu tutto ben più chiaro.
«Venti» dissi a malincuore.
«Fuoco».
«Vent'uno».
«Fuochino di nuovo» rispose. Ormai aveva finito la canna, o la sigaretta che fosse. In modo disinvolto si abbassò verso il finestrino della mia macchina e poggiò la mano sinistra sul tetto. «Troppi tentativi. Secondo me, hai perso».
Iniziai a sentire un po' caldo. Del resto, era estate, l'aria condizionata della mia macchina non funzionava e se avesse voluto uccidermi o farmi del male l'avrebbe già fatto. Fiduciosa di quell'ipotesi, aprii il finestrino a metà – non tutto, non esageriamo – e il suo bel profumo di tabacco, alcol e qualche profumo costoso maschile di cui non conoscevo il nome, invase le mie narici.
Questo tizio era assolutamente illegale. Se non fosse stato a stento maggiorenne – non ero certa non fosse minorenne, ma mi sembrava troppo convinto e sicuro di sé e i compagni di classe di Aurora non erano certo così –, giuro che un pensiero ce lo avrei fatto. Sì, l'ho ammesso. Pazienza, capita. Sono umana anche io.
«Non è colpa mia se sembri più grande» mi giustificai.
«Sei curiosa, vero, di sapere la mia età precisa?» mi domandò beffardo. «Facciamo che te la dico, se tu mi dici il tuo nome».
«Pensavo volessi la mia età in cambio» ammisi e, dal mio punto di vista, il mio ragionamento non faceva una piega. Insomma, stessa moneta di scambio.
«Ma a me non interessa la tua età. Sei maggiorenne, ne sono certo, perché hai una patente. Questo mi basta» disse, e nel parlare si fece più vicino al mio volto. Aveva anche delle bellissime lentiggini chiare sulle guance e sul naso dritto e lungo. «Mi interesserebbe piuttosto sapere il tuo nome».
Qualcosa, nel mio cervello, mi disse che una donna adulta e matura in quella situazione avrebbe immediatamente chiuso quella conversazione, mandato via il ragazzo sconosciuto, azionato il motore dell'auto e chiamato urlando la propria figlia per intimarle di muoversi che altrimenti le avrebbe fatto pentire di essere nata.
Ma io non feci nulla di tutto questo e, pendendo dalle labbra, gli dissi il mio nome.
«Emma».
«Molto piacere, Emma,» e il mio nome fu canzone sulle sue labbra. «io sono Davide».
«E l'età, Davide?»
«Non te la dico. Hai perso, no? Forse dovremmo scommettercela ad un altro gioco, non trovi?»
Dio.
Ero fottuta.
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