2. Highway to hell
Mio padre guarda l'orologio che porta sul polso e scuote la testa con aria preoccupata.
«È tardi!» annuncia guardandomi «io devo scappare a lavoro, e tu devi andare a scuola».
A scuola? Sono appena arrivato e gia devo andare a scuola?
«Pensavo che avrei iniziato domani» dico con tono lagnoso.
Vedo Gerard sorridere di nuovo, sempre con quel ghigno. Come se fosse davvero divertente vedermi disperato.
Mio padre solleva un sopracciglio, guardando di nuovo l'orologio «Non credo proprio. Ci vediamo stasera» dice, poi prende la sua valigetta e se ne va, non prima di aver dato un bacio sulla fronte di Donna.
Quando siamo solo noi tre nella stanza, Donna mi guarda seria.
Anche io la guardo, ovviamente. Perché non passa certo inosservata, con le unghie lunghe sei metri e dipinte di rosso, e quel top scollato a stampa maculata che probabilmente le andava piccolo anche quando aveva quindici anni.
«Mi piace la tua aurea» dice seria socchiudendo gli occhi in due piccole fessure e muovendo le mani di fronte a me, come per toccare l'aria.
«La mia che?».
Gerard ride, scuotendo la testa.
«La tua aurea, tesoro» insiste Donna «percepisco delle buone vibrazioni».
Fantastico, la compagna di mio padre si fa di allucinogeni. Tanto valeva andare con mia madre in California. Almeno lei non è completamente pazza.
«Ok... Ehm... Ora credo che, insomma, dovrei proprio andare a scuola» dico cercando di uscire al più presto dalla stanza.
Donna annuisce, continuando a guardarmi in quel modo strano «Certo tesoro, certo. Gerard ti accompagnerà, frequenterai la sua stessa scuola».
Ah, grandioso.
C'era da aspettarselo, visto che Belleville è grande quanto il buco del culo di un piccione.
Gerard mi sorride facendomi cenno di seguirlo. Saluta sua madre, dopo aver chiuso la conversazione al telefono e poi mi fa strada verso l'uscita.
Quando siamo fuori, si accende una sigaretta ed io faccio lo stesso.
Camminiamo in silenzio per qualche metro, io gli sto dietro di qualche passo perché lui sembra andare di fretta e a me non va certo di correre per andare a scuola.
Dopo qualche secondo vedo una macchina accostarsi a lui.
Alla guida c'è un tipo con una gran massa di capelli ricci sulla testa, che suona il clacson tre o quattro volte e sorride come un idiota.
Gerard mi guarda ed apre lo sportello posteriore «Ci vediamo a scuola» mi dice, di nuovo con quel sorriso odioso.
Cioè, non ha intenzione di accompagnarmi? Sul serio?
Lo odio. Non lo conosco e già lo odio con tutto me stesso.
«Non so nemmeno dove cazzo sta, la scuola!» dico lamentoso.
Il riccio e gli altri due tipi che sono in macchina con lui - un tizio grosso e biondo e un altro che sembra uscito da un centro di recupero per tossicodipendenti che ha i capelli lunghi e sporchi almeno dal 1993 - scoppiano a ridere.
Il riccio rimette in moto l'auto e si allontana, e Gerard mi fa ciao con la mano dal finestrino.
La macchina si allontana ed io resto da solo come un imbecille a guardarmi intorno cercando di trovare questa maledetta scuola.
Dopo aver girato a vuoto per 40 minuti buoni ed essere passato davanti alla stazione almeno due volte, finalmente trovo la scuola.
Un edificio fatiscente sulla cui facciata anteriore è appeso uno striscione giallo e blu con su scritto "Belleville High School" in Comic Sans.
All'interno è tutto blu e tutto giallo, gli armadietti, i poster sui muri, dei festoni, le divise di un gruppo di cheerleder che mi passa accanto guardandomi come se fossi un alieno in terra straniera...
Beh, è quello che sono, in realtà.
Dunque, dato che mio padre mi ha iscritto in questa stupida scuola senza nemmeno darmi indicazioni riguardo, per dire, quali dannate lezioni seguirò e roba del genere, entro nella segreteria a chiedere informazioni.
La signora dietro la scrivania distoglie lo sguardo dallo schermo del computer e mi guarda sorridendomi e mostrando i denti sporchi di rossetto rosso.
«Che c'è, figliolo?» mi domanda.
C'è che la mia vita fa schifo. Ma non lo dico. Ovvio che non lo dico.
«Mi chiamo Frank Iero, ed oggi è il mio primo giorno di scuola e non so quali lezioni devo frequentare».
La signora scuote la testa. Vedo qualche granello di forfora ricaderle sulle spalline del vestito blu. Blu e giallo, giuro «Figliolo, se non lo sai tu quali lezioni devi frequentare, chi dovrebbe saperlo?».
Ah ah. Simpatica.
«Beh, lei. È il suo lavoro» le rispondo. Giuro che me ne pento subito, appena mi fulmina con lo sguardo.
Torna a guardare lo schermo del pc, sbuffando. Digita il mio nome e stampa un foglio che poi mi porge senza nemmeno guardarmi.
Leggo il mio orario scolastico.
Trigonometria.
Già, trigonometria.
Cerco l'aula, perché il mio destino a quanto pare è quello di girare per Belleville sempre alla ricerca di qualcosa, e quando trovo la classe tutti mi guardano mormorando cose tipo "Ehi, un ragazzo nuovo".
Il professore mi chiede il mio nome, io mi presento, poi mi indica un banco vuoto nella prima fila e riprende la lezione.
All'ora di pranzo prendo il fantastico menù del giorno della mensa - polpette di pesce e patate lesse - e cerco un tavolo a cui sedermi.
Non c'è da stupirsi del fatto che siano tutti occupati.
È un po come in quei film ambientati nelle prigioni, in cui ognuno deve stare al suo posto e i bianchi siedono coi bianchi, i neri coi neri, gli ispanici con gli altri ispanici e così via.
Solo che qui le cheerleder siedono con le cheerleder e i giocatori di football, poi c'è il tavolo dei nerd, quello delle matricole, il tavolo dei secchioni, dei gotici.
Cerco il tavolo degli sfigati, perché sono sicuro che il mio posto sia proprio lì, ed incrocio lo sguardo di Gerard Way.
È seduto con quei tipi che erano in macchina con lui stamattina.
E il loro è il tavolo dei fattoni. Si sente l'odore dell'erba da qui, e i loro occhi lucidi e arrossati parlano chiaro.
Mi guarda insistentemente, mentre un tipo seduto accanto a lui racconta qualche epica avventura che non sono davvero curioso di ascoltare.
Mi guarda e mi fa sentire a disagio.
Così a disagio che non ho più nemmeno voglia di mangiare.
Voglio solo uscire da questo incubo.
Alla fine delle lezioni cerco di fare mente locale per ritrovare la strada verso casa.
Cammino con le mani affondate nelle tasche dei jeans e le cuffiette nelle orecchie, ascoltando un po di musica.
Sono quasi a metà strada quando vedo la macchina di stamattina accostare accanto a me.
Gerard Way e la sua gang, all'interno dell'auto, mi guardano tutti sorridenti.
Il riccio alla guida dice qualcosa ed io devo togliermi le cuffiette per sentirlo.
«Vuoi un passaggio, Yankee?» mi chiede.
Dal finestrino esce fuori una nuvola bianca di fumo.
Erba, ed è anche di buona qualità.
Lo dico sia per l'odore che per le espressioni ebeti sui loro volti.
Ma quelle forse le hanno sempre, non vorrei dare la colpa alla droga per le loro facce da scemi, assolutamente.
«Allora? Lo vuoi un passaggio o no?» mi chiede Gerard, scocciato.
Non so per quale motivo io dica di si, perché quando avvicino la mano alla portiera dell'auto il riccio da gas e la macchina va avanti di quasi un metro.
Si voltano tutti a guardarmi ridendo come scemi mentre io devo cercare di restare in equilibrio per non cadere dal marciapiede.
Idioti.
«Dai, stavo scherzando» dice il riccio tirando la testa fuori dal finestrino «Vieni».
Ok, riproviamo. Magari a Belleville questo è il tipo di umorismo con cui si accolgono i nuovi arrivati.
Questa volta mi affretto ad aprire lo sportello e il capellone non si sposta, così entro nella macchina.
E mi siedo, accanto a Gerard.
Che mi guarda, ancora, con quei suoi dannati occhi verdi che mi mettono in soggezione.
«Io mi chiamo Ray, lui è Bob» dice il riccio, indicando il tipo al sedile del passeggero accanto a lui «quello è Bert e ovviamente conosci già Gerard».
Annuisco.
Guardo fuori dal finestrino mentre Ray percorre qualche strada, e sono sicuro che non sia diretto a casa di mio padre.
Dopo un quarto d'ora ci ritroviamo in una specie di zona industriale semideserta.
Ray parcheggia l'auto accanto ad un edificio che probabilmente crollerà tra qualche secondo.
Scendono tutti dall'auto ed io li seguo. Bob apre la porta di un vecchio magazzino abbandonato.
Camminando calpestiamo dei vetri rotti, ed io mi chiedo che diavolo ci facciamo qui.
Giuro che io volevo solo andare a casa.
In un angolo, sotto delle finestre impolverate, sono sistemati dei materassi sul pavimento. C'è anche una vecchia poltrona rotta, la spugna del cuscino esce fuori da un grande squarcio al centro.
A terra ci sono bottiglie e lattine di birra vuote.
Non voglio sembrare esagerato, ma giuro che guardo bene in giro per vedere se ci sia anche qualche siringa. Insomma, sembra davvero il ritrovo di qualche eroinomane.
Bob corre a sdraiarsi su uno dei materassi, come se non avesse aspettato altro per tutto il giorno.
Gerard e Bert si mettono al centro della grande stanza e posano a terra i loro zaini.
Tirano fuori un grande telo bianco e delle bombolette spray.
Vorrei chiedergli che intenzioni hanno, ma una parte di me non vuole davvero saperlo.
Magari quel telo serve per avvolgere il mio corpo dopo che mi avranno ucciso. Insomma, con la fortuna che ho, posso aspettarmi di tutto.
Mentre Ray e Bert reggono i lembi del telo, Gerard comincia a disegnare qualcosa con le bombolette.
Non riesco a capire cosa sia.
Mi avvicino, per vedere meglio.
Gerard sembra assorto in un mondo tutto suo, mentre disegna chissà cosa su quel pezzo di stoffa bianco, tenendosi naso e bocca coperti col colletto della maglia nera tirato sul viso.
I suoi occhi finalmente non guardano più me, non mi scrutano. Ma sono puntati, con la loro solita intensità, sul suo lavoro.
Si muovono veloci, da una parte all'altra, e mentre io vedo solo qualche riga qua e là presumo che lui abbia una visione chiara di ciò che sta facendo.
Sono così preso dalla sua opera che non do nemmeno peso a quello che dicono Ray e Bert, che comunque non credo sia la conversazione più interessante dell'anno.
«Ehi, Yankee, dammi una mano» mi dice Gerard.
«Che devo fare?»
Indica una bomboletta rossa «Prendi quella e mettici uno di quei cap piccoli. Il più piccolo che trovi».
Prendo la bomboletta rossa e faccio come mi ha detto.
La punta delle dita mi si sporca di vernice rosso sangue.
Porgo lo spray a Gerard che per afferrarlo mi sfiora la mano.
Mi guarda di nuovo negli occhi, mentre le sue dita sono proprio sulle mia. Stringe per un attimo la presa.
Indossa dei guanti di lattice, eppure mi sembra di sentire il calore della sua mano.
Poi mi sorride, afferra la bomboletta e torna a concentrarsi sul disegno.
È quasi completo ora.
È un uomo che penzola da una corda.
Un uomo che si è impiccato. Col cappio intorno al collo.
È tutto in bianco e nero, ed ora Gerard aggiunge dei piccoli tratti rosso vivo sul collo, lungo le linee che formano il cappio.
È davvero bellissimo.
Il disegno, intendo.
Gerard lo guarda soddisfatto, sorridendo.
Mi passa di nuovo la bomboletta chiedendomi di cambiare cap per metterne uno più grande.
Eseguo i suoi ordini e lui ritorna a piegarsi sulla sua opera.
Parte dal lato sinistro, lungo il centro del telo, ed inizia a scrivere.
S-U-C-C...
Osservo Gerard che ride mentre scrive.
H-I-O...
Anche Bert scoppia a ridere.
E Ray.
Bob probabilmente è svenuto sul materasso a causa dei vapori della vernice.
C-A-Z-Z-I.
Sul serio?
Cioè, ha davvero rovinato un'opera d'arte per scriverci sopra "Succhio cazzi"?
Evito di commentare.
Umorismo strano, a Belleville, l'ho detto.
Gerard mi chiede di aiutarlo a sistemare le bombolette spray.
Nel farlo mi sporco ulteriormente mani e vestiti di vernice, ma poco importa.
Per il momento Gerard Way non sta facendo lo stronzo con me, quindi va bene così.
Fuori si è fatto buio.
Ray e Bert accendono delle torce per illuminare il magazzino.
Gerard prepara una canna mentre aspettiamo che il disegno sul telone si asciughi.
Per tutto il tempo non riesco ad entrare nella conversazione di Gerard e i suoi amici.
Fumo con loro, ma per qualche motivo non riesco a parlare.
Non so se io e questi tizi abbiamo qualcosa in comune o meno.
Sembra che parlino delle cose più inutili del mondo.
Parlano di storie e persone che io non conosco e ad un certo punto penso che sia meglio tornarmene a casa.
Mi sento fuori posto, ecco.
Inaspettatamente, Gerard mi dice di aspettarlo, e ci incamminiamo verso casa insieme.
Dice qualcosa a Bert riguardo il telo con l'impiccato, e lascia a lui anche il suo zaino pieno di bombolette spray.
Per tutto il tragitto non ci diciamo una parola.
Gerard cammina davanti a me.
Indossa dei pantaloni così stretti che per qualche motivo mi ritrovo a fissargli il culo.
Perché cammina come una primadonna, sculettandomi davanti, ed anche se non vorrei, gli sto davvero guardando il fondoschiena.
Mi vergogno di me stesso.
Quando arriviamo a casa Donna ci accoglie sulla porta.
«Dove siete stati?» ci domanda.
«In giro, ho fatto conoscere Frank ai miei amici» le dice Gerard avviandosi in cucina.
Io lo seguo, e Donna viene dietro di noi.
La tavola è apparecchiata, e mio padre è seduto a capotavola con il giornale tra le mani.
Lo mette via non appena ci sediamo.
«Alla buon'ora. In questa casa si cena alle 19. Alle 19 dovete essere seduti intorno a questa tavola» dice severo, guardandomi.
Come se fosse colpa mia. Che cazzo ne so io che si cena alle 19? Sono arrivato solo questa mattina.
Annuisco senza ribattere, perché nonostante la mattinata sia stata uno schifo, il resto della giornata sembra aver preso una piega quasi decente quindi non mi va di replicare.
Donna mi riempie il piatto di roba. Lasagna, patatine fritte, verdure e ali di pollo piccanti.
Il mio piatto sembra una montagna.
Forse vuole farmi ingrassare.
Infondo l'aspetto da strega cattiva che ha intenzione di mangiarmi ce l'ha.
Quando prendo la forchetta, la strega - cioè, no, Donna - mi guarda le mani.
«Per Giove! Sei tutto sporco, che hai fatto?».
Mi guardo le mani, piene di vernice rossa e nera.
«Niente, è solo un po di vernice spray» dico scrollando le spalle.
Gerard è seduto di fronte a me, impegnato a mangiare, ha lo sguardo puntato sulle lasagne eppure sta ridendo sotto i baffi.
E questa cosa mi mette davvero in paranoia.
«Ah, Frank, hanno chiamato quelli delle spedizioni. C'è un ritardo con la consegna delle tue cose, arriveranno la prossima settimana» dice mio padre dopo un po.
Sul serio? Dovrò stare senza vestiti, chitarra, libri fino alla prossima settimana?
Donna sorride «Tranquillo, Gerard ti presterà qualcosa di suo».
Fantastico. Skinny jeans e stivaletti, sarò ridicolo come alla recita della quarta elementare, quando facevo il culo della renna, piegato in due con la faccia schiacciata sulle chiappe di Jamia Nestor.
Finiamo di mangiare mentre parliamo di come è andata la giornata.
Mio padre annuncia soddisfatto di aver venduto un appartamento ad una coppia di neo sposini ed essersi quindi guadagnato il primo posto nell'azienda per maggior numero di contratti chiusi fino ad ora.
Dopo cena mio padre e Donna se ne vanno a letto, non prima di aver ricordato a Gerard di darmi qualche vestito per dormire e di mostrarmi la camera.
Aspetta, la camera? Non la mia camera!?
Gerard fa una smorfia facendomi strada al piano di sopra.
Non ho ancora avuto modo di fare un tour di questa bellissima casa piena di bambole di ceramica inquietanti e quadri raffiguranti la Madonna, Gesù, e giuro, nonostante non mi sia molto chiaro visto che non c'entra niente, c'è anche un quadro raffigurante Buddha.
A questo punto suppongo che Donna arredi casa ad occhi chiusi, un po a casaccio.
Gerard mi indica la porta della camera, la apre ed indica un letto sotto la finestra.
«Questa è la camera. Quello è il tuo letto. Quell'angolo è tuo. Tutto il resto è roba mia» dice con tono serio.
Come se volessi rubargli l'ammasso di vestiti sporchi gettati sulla sedia della scrivania o che ne so io.
Qui dentro c'è puzza di calzini e deodorante e sudore.
Sulle pareti ci sono appesi dei disegni, i poster di qualche band e un paio di fotografie.
Gerard apre l'armadio e mi lancia una maglietta enorme.
«Puoi dormire con questa» mi dice.
È una doppia XL e mi sta sedici volte.
Ma ok.
Mi spoglio e mentre lo faccio sento lo sguardo di Gerard addosso.
Mi vergogno troppo per controllare se davvero mi sta guardando, ma sento che lo sta facendo.
Se ne sta seduto sul suo letto e non dice una parola.
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