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1. La legge di Murphy

Se qualcosa può andare male, lo farà.

Ho sempre saputo di essere destinato ad un'esistenza miserabile e penosa.
Insomma, i miei genitori hanno divorziato ancora prima che io venissi al mondo, ed il semplice fatto che decisero di lasciarsi una volta per tutte a tre mesi dalla data presunta della mia nascita la dice lunga su quanto la mia famiglia si impegni quando si tratta di relazioni personali.
Dovevo nascere il 3 Novembre, un giorno come tanti altri, ma il destino ha voluto che tirassi fuori la testa dal corpo di mia madre nel pomeriggio di un 31 Ottobre di 16 anni fa.
Nascere il giorno di Halloween è una gran cosa, certo. Ad esempio, ho sempre festeggiato i miei compleanni da solo perché i miei compagni di scuola dovevano andare a fare dolcetto o scherzetto in giro per le strade. Ovviamente le decorazioni dei miei compleanni erano sempre arancioni, nere, viola e piene di ragnatele, perché insomma, ad Halloween quelli sono i decori che spopolano nei negozi.
Ma questo è niente, ovviamente. Non sto mica qui a lamentarmi di come la mia vita sia patetica per delle stupide bandierine arancioni e cavolate simili.
No, questo è davvero niente.
Ho sempre saputo di essere destinato alla sofferenza, e ne ho avuto conferma il giorno in cui mia madre ha deciso di trasferirsi in California per lavoro.
Ed io, che sono nato e cresciuto nella costa est degli Stati Uniti, mi sono trovato a dover scegliere se andare a vivere in una cittadina alle porte di San Diego piena di hippy e gente vestita di canapa pronta a salvare il pianeta dall'inquinamento a suon di pacifiche proteste sulla spiaggia, oppure restare in questa parte del mondo, dove esiste ancora l'inverno - ringraziando il cielo.
La scelta è stata ovvia fin da subito.
Vado a vivere con mio padre.
E sia chiaro, ho detto ovvia, non migliore.
Perché mio padre, che non vedo da almeno due Natali, vive in una stupida e microscopica cittadina del New Jersey chiamata Bellefottutissimaville.
Da New York a Belleville nel giro di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Davvero grandioso.
Non posso certo biasimare mia madre, sono certo che prima di firmare quel contratto ci avrà pensato su almeno cinque o sei minuti.
Fatto sta che è tornata a casa dicendomi "Ci trasferiamo in California!", ed io ho iniziato a sentire caldo e ad immaginarmi a passeggiare sul lungomare circondato da ragazze sui rollerblade e surfisti a petto nudo, e no, sul serio, non fa per me.
Così mi ritrovo qui alle sette e trenta del mattino, nella stazione centrale di Belleville, che è praticamente un buco piccolo quanto il bagno degli uomini del primo piano della Grand Central di New York, ma questa era una cosa scontata.
Fuori dall'entrata principale - cioè, no, l'unica entrata - c'è un barbone steso a terra e coperto con un vecchio cappotto sporco e puzzolente, che mi guarda nella speranza che io gli lasci dei soldi ed anche se non vorrei lui continua a guardarmi con insistenza e alla fine gli sgancio una banconota da 5 e pure un paio di Marlboro.
Mi guardo intorno e non so nemmeno dove diavolo devo andare. Mio padre mi aveva mandato una mail con scritto il suo indirizzo, ma ovviamente io e la tecnologia siamo due cose totalmente opposte ed il mio cellulare non vuole saperne di connettersi ad internet quindi vado a controllare la mappa della città appesa alla fermata degli autobus e cerco di ricordare.
Fortunatamente Belleville è piccolissima, così scorro lo sguardo sulla mappa e alla fine ho un'illuminazione: Maple Street, 13.
Ci metto un po per arrivarci, e più il tempo passa, più comincio a sentirmi nervoso.
La casa di mio padre si trova in una via di periferia, ai lati della strada ci sono delle villette niente male, con i prati di un verde splendente e i cespugli in fiore, e le staccionate dipinte di bianco.
Poi arrivo al numero 13.
Ed ovviamente è l'unica villa con la vernice che si sta staccando dal legno del portico e l'erba secca nel giardino.
Faccio un respiro profondo e mi faccio coraggio, premendo il dito sul campanello ed aspettando che qualcuno venga ad aprirmi.
Ma non viene nessuno, così suono di nuovo, e alla fine provo ad aprire la porta.
Non è chiusa a chiave.
Quando entro sento un fastidioso profumo di incenso che mi ricorda le domeniche in chiesa, quando mia madre ha provato ad avvicinarsi a Dio e mi costringeva a seguirla per pregare insieme ad un mucchio di vecchi disperati.
La casa è in disordine. Ci sono cose ovunque. E sono solo all'ingresso.
Alle finestre le tende scure non fanno quasi passare la luce, tanto che se fuori casa il sole era alto nel cielo, qui dentro sembra sia appena l'alba.
Mi guardo intorno cercando di capire cosa devo fare, se salire per le scale e cercare mio padre o fare dietrofront e scappare da questo posto per raggiungere mia madre in California prima che sia troppo tardi.
Sulla parete lungo le scale ci sono delle mensole piene di inquietanti bambole di ceramica, di quelle che sembra ti stiano guardando con quello strano sorriso che sembra in ghigno, ed io rabbrividisco.
Finalmente sento una voce provenire dal piano di sopra.
E la figura di un ragazzo si mostra in cima alle scale.
È alto, coi capelli scuri che gli ricadono sugli occhi, porta una borsa a tracolla e sta parlando al telefono.
Lo vedo che mi guarda, mentre scende i gradini per raggiungere il piano inferiore.
Si ferma due secondi, mi fissa, ancora con il telefono all'orecchio.
Mi sorride, ed io penso di dovermi presentare.
Non ho idea di chi sia, probabilmente il figlio della compagna di mio padre, non lo so, perché mio padre non mi ha mai parlato troppo della sua nuova vita a Belleville quindi io non so assolutamente nulla.
Comunque cerco di sorridere ed allungo la mano destra per presentarmi.
«Ciao, io sono Fra-» dico, ma il ragazzo mi sorpassa senza nemmeno degnarsi di salutarmi. Come se fossi invisibile.
Merda, forse andare a fumare erba e raccogliere rifiuti sulle spiagge della California non era poi così male.
Sbuffo, pensando a quanto stupida sia la mia vita mentre mi trovo nel nulla più sperduto del Jersey, nella casa più inquietante, con uno sconosciuto che fa finta che io sia invisibile.
Lo seguo, entra nella cucina, dove fortunatamente c'è più luce.
Lo guardo mentre si versa del caffè, ed ascolto la sua stupida conversazione telefonica mentre continua a fingere che io non ci sia.
«Ti giuro, Bert, le ha vomitato in macchina!» dice ridendo «Cioè lei gli stava facendo un pompino e lui le ha quasi vomitato addosso».
Che schifo, Cristo. Il ragazzo ride ancora, sembra sia la cosa più divertente del mondo. Lo guardo meglio, ha la pelle bianca che contrasta totalmente coi suoi capelli scuri. Si poggia al bancone della cucina e tira indietro la testa scoppiando in una risata rumorosa «...giusto, è di Bob che stiamo parlando, era ovvio che le chiedesse comunque di finirgli il lavoretto».
Fa una pausa, beve un sorso di caffè, poi tira fuori dalla borsa un pacchetto di sigarette e ne accende una.
Dal corridoio sento provenire dei rumori.
Il ragazzo mi guarda, finalmente.
Ha degli occhi verdi che per un attimo mi penetrano.
Mi ricordano il verde del prato. Non del prato di casa di mio padre, ovviamente.
Allunga la mano con la sigaretta verso di me e fa una specie di sorriso, con il lato della bocca «Puoi tenermela un attimo?» mi chiede.
Annuisco, afferrando la sua sigaretta.
Lui beve un altro sorso di caffè e si rimette comodo poggiato al bancone, quando dei passi si fanno più vicini e mio padre entra nella cucina seguito da una donna che ha l'aspetto che dovrebbe avere Lady Gaga a ottantanove anni, coi capelli biondo platino che sembrano paglia e le ricadono sulle spalle e il trucco pesante su occhi e bocca.
Prima che io possa salutarli lei mi guarda accigliata e fa uno scatto verso di me, togliendomi la sigaretta dalle mani e buttandola nel lavello, aprendo l'acqua per spegnerla.
«No no no!» esclama, e sembra quasi pazza. Si affretta ad aprire le due finestre sopra al lavandino ed agita in aria le mani per cacciare via il fumo «Per Giove, non si fuma in casa nostra!» dice irritata, guardandomi come se avessi portato una bomba su un aereo.
«M-ma non... Non» provo a difendermi, perché Cristo, non era nemmeno mia quella sigaretta, ma non riesco a dire nulla.
«Il mio piccolo Mikey soffre di una grave malattia respiratoria e noi non vogliamo che peggiori, giusto?» mi dice la donna.
Credo che la cosa giusta sia annuire, così annuisco. E chi diavolo è il piccolo Mikey comunque?
Guardo il ragazzo, che ora sta sorridendo divertito, e mi rendo conto che era proprio nelle sue intenzioni farmi trovare con la sigaretta accesa tra le mani, ed ora ha quel fastidioso ghigno sulle labbra ed io penso che sia proprio uno stronzo. Insomma, sul serio? Che male gli ho fatto per volermi mettere in difficoltà con questa specie di mummia vivente che suppongo sia sua madre?
Mio padre si avvicina, scuotendo la testa «Sei sempre il solito, eh» dice con un mezzo sorriso, dandomi una pacca sulla spalla.
Sto davvero rimpiangendo la California e i 90 gradi all'ombra, gli hippy e le ragazze sui pattini.
«Dunque, figliolo, ti presento Donna, la mia compagna» dice mettendole una mano sulle spalle. Poi indica il ragazzo, che molto poco educatamente continua a parlare al telefono «E lui è Gerard Way».
Il ragazzo mi guarda e finge un sorriso cordiale.
Lo so che sta fingendo, perché giuro che l'ho capito subito che in realtà Gerard Way è uno stronzo!


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marveladdicteed89 come promesso u.u
Pubblicata in un minuto esatto! LOL

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