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27 - È stato incantevole incontrarti





Perdonate il ritardo, ma questo capitolo è importantissimo e ci ho messo un po' perché volevo che fosse al meglio che mi riesce. Vi avviso anche che tra un'ora pubblico lo spin-off su Ares (la intro con le info), visto che ormai non manca molto alla fine di GoT. Così la storia è già qui su wattpad e io posso stare serena. A fine capitolo vi lascio una domanda importantissima a riguardo, non saltate le note d'autore plsssssss

Un baci8
dalla vostra amichevole posata di cucina🥄

——

"Esiste un'antica leggenda che risale a più di duecento anni fa e vede come protagonisti i fiori di loto. Si narra che molto tempo fa si diffuse una terribile epidemia nell'odierno distretto di Kyoto che colpì il signore di Koriyama e la sua famiglia. Un giorno, giunse un'eremita al castello e rivelò che solo piantando dei fiori di loto si sarebbero potuti allontanare gli spiriti maligni colpevoli di aver diffuso l'epidemia. Allora, il signore decise di ascoltare l'eremita e di piantare i fiori nel fossato della fortezza. Dopo pochi giorni il signore di Koriyama e la sua famiglia guarirono e il castello fu ribattezzato con il nome di "Castello del Loto". Dopo la morte del signore di Koriyama, il castello fu ereditato dal figlio che, però, trascurò i fiori di loto. Un giorno, un samurai vide due bambini che giocavano sul bordo del fossato e, preoccupato, cercò di allontanarli dal pericolo, ma i due si tuffarono in acqua e scomparvero. Tornato al castello, il samurai riferì l'accaduto e gli alti funzionari decisero di pulire il fossato per cercarli, ma non trovarono nulla. Una sera, un altro samurai, passando lungo il fossato, vide dei giovani ragazzi che giocavano vicino al bordo dell'acqua e, pensando che potessero essere degli spiriti malvagi, decise di colpirli con la spada. All'improvviso si sollevò una nuvola di vapore che non riuscì a fargli vedere nulla. Il mattino seguente, però, il samurai si rese conto di aver ucciso gli spiriti del loto che avevano salvato il castello e il popolo dall'epidemia. Sentendosi terribilmente in colpa, il samurai decise di compiere l'harahiki, la cerimonia di suicidio dei samurai. Da allora, i fiori continuarono a fiorire ma non furono mai più visti gli spiriti del loto vicino al fossato."





— This is me praying that
This was the very first page
Not where the story line ends
My thoughts will echo your name,
u n t i l I s e e y o u a g a i n
These are the words I held back,
as I was leaving too soon
I was enchanted to meet you



🧍🏻🧍🏼‍♀️
H A V E N ' S
P O V


«Dov'è mio fratello? Come sta? Posso vederlo?» È la prima cosa che esclamo mentre percorro il corridoio diretta al reparto di terapia intensiva.

Due infermieri e un medico donna sono fermi davanti a una porta; lei ha una cartella in mano, gli altri due stanno ascoltando quello che viene detto loro. Si voltano nella mia direzione in contemporanea.

Prima di poter fare un altro passo, vengo bloccata. Ares alla mia sinistra e Hades alla mia destra. «Cohen, non puoi fiondarti dentro la stanza e saltare addosso a Newt. Sarà rincoglionito dal coma, rischi di combinare casini. Stai ferma.»

La voce di Ares è più acuta del solito. Da quando siamo entrati in ospedale sembra nervoso e sull'orlo di una crisi isterica. Nonostante Newt sia la mia priorità, è stato impossibile non notare il suo drastico cambio d'umore.

Il medico ci viene incontro. È una donna adulta con una chioma castana, legata in una coda alta. «Haven Cohen, la sorella? Sono la dottoressa Tyrell.»

Annuisco con enfasi. «Posso vederlo? Come sta?»

Glielo chiedo anche se conosco già la risposta. «Qui,» indica la cartella, «leggo che avete un solo genitore. Dov'è vostro padre?»

«È una domanda che ci poniamo da diverse settimane, dottoressa,» interviene Liam. «È sparito nel nulla, dico bene, Haven?»

Zeus lo afferra per l'orecchio e lo tira indietro, sotto lo sguardo confuso della dottoressa Tyrell.

«Attualmente nostro padre non è raggiungibile,» confermo. «Ci sono solo io. Sono l'unica parente che ha Newt.»

Lei mi scruta per qualche secondo, forse impietosita dalla situazione familiare che abbiamo. Se solo sapesse tutti i retroscena, chiamerebbe la polizia. Alla fine, sospira. «Ogni paziente reagisce in modo diverso al risveglio da un coma. La probabilità che una persona uscita dal coma recuperi il suo normale stato di salute dipende in gran parte dalla gravità, dalla causa della lesione cerebrale, dall'età del paziente e dal tempo trascorso in stato comatoso. In genere, il recupero è graduale e all'inizio il paziente può essere molto agitato e confuso. Alcuni pazienti hanno un recupero completo, altri, invece, potrebbero riportare delle disabilità causate dal danno subito al cervello.»

«Grazie per la lezione di medicina, ma possiamo saltare al caso specifico di Newt?» domanda Ares, maleducato come al solito. Hades gli dà un colpo alla nuca.

«Newt ha aperto gli occhi con calma,» racconta Tyrell. «Non ha mostrato né agitazione né confusione. E per quanto vorrei dirvi che è un ottimo segno, non lo è in realtà. Non risponde ancora agli stimoli più basilari, come quando lo si chiama per nome. Muove appena le dita delle mani e dei piedi, ma il resto del suo corpo è immobile.»

Il mio corpo risponde allo stesso modo. D'improvviso, mi paralizzo sul posto e mi viene difficile anche deglutire. Il cuore inizia a martellarmi nel petto, e ogni battito è un tonfo sordo che mi riecheggia nelle orecchie.

«Si è svegliato a tutti gli effetti dal coma,» prosegue la dottoressa. I due infermieri alle sue spalle hanno espressioni dispiaciute. «Il suo cuore ha un ritmo regolare e respira senza difficoltà. I parametri sono buoni. Ma è come se fosse ancora addormentato, solo che ha gli occhi aperti. Potrebbe essere una situazione provvisoria, perché come vi dicevo ogni paziente ha una ripresa diversa. Però, dobbiamo considerare l'ipotesi che possa rimanere così per il resto della sua vita. In uno stato di... trance.»

Non mi accorgo di aver iniziato a scuotere il capo, con gli occhi lucidi, fino a quando le braccia di Hades mi avvolgono e mi dà carezze sulla schiena per rassicurarmi. «Haven...» sussurra. «Spereremo nella prima. Deve solo riprendersi. Non pensare subito al peggio. Haven?»

Mille frammenti di vita mi scorrono davanti. I ricordi che ho con Newt, mio fratello non di sangue, ma al quale sono legata come se fossimo addirittura gemelli. L'unica famiglia che ho. L'unica cosa che mi era rimasta. Ogni minuscolo stralcio di frase che ci siamo detti mi invade la mente e mi mozza il fiato.

«Almeno possiamo sapere se ha aperto quella maledetta mano e se c'era qualcosa dentro?» la voce brusca di Ares mi riporta alla realtà e ridona mobilità totale al mio corpo, ora in allerta perché si era scordato di quel dettaglio.

La dottoressa corruga la fronte e scambia un'occhiata con i due infermieri. «Sì, la ha aperta ancora prima degli occhi. E c'era qualcosa dentro.»

Resto in attesa che aggiunga altro, la curiosità mi sta per uccidere. Anche gli altri devono sentirsi come me. Hades perde la pazienza per primo. «Quindi cos'era?»

«Era un fiore,» risponde, dopo un attimo di esitazione. «Appassito. Lo abbiamo esaminato in laboratorio e sembrerebbe essere...»

Le parole mi escono di bocca senza che riesca a frenarle. «Un fiore di loto.»

Lei resta a bocca aperta. Forse sta pensando che siamo tutti molto strani. «Sì, esatto. Era un fiore di loto.»

Era tra le parole che diceva Newt, durante il coma, quando stavamo ancora in Grecia. Fiore. Ci stava già dicendo, inconsciamente, cosa avesse dentro la mano. Ma se è uscito dal labirinto con il fiore di loto, significa che lo ha trovato lì dentro. Quindi... le altre parole senza senso che biascicava fanno sempre riferimento al labirinto? Spiegherebbe perché tra quelle ci fosse Apollo. Lui ha la maschera del Minotauro in camera, trovata da Ares.

«Tra mezz'ora potrai entrare in stanza,» mi informa la dottoressa, già in procinto di andarsene. «Ci serve ancora un po' di tempo per finire con gli accertamenti.»

La ringrazio, ma la voce mi esce fioca e non sono sicura che mi abbia sentita. Hades è ancora al mio fianco, mi regge come se potessi crollare da un momento all'altro.

Gli altri, invece, stanno prendendo posto sulle poltroncine lungo il muro. Sono meno di quanti siamo noi, perciò Athena e Hera rimangono in piedi. Poseidon si sistema in braccio a Hermes, Zeus siede al centro, Ares subito dopo e Liam per terra.

«Cosa cazzo significa tutto ciò?» sbotta Ares. Si tortura le mani al punto che si stacca una piccola porzione di pelle dal pollice. «Pensavamo che tenesse qualcosa di importante dentro la mano, e invece stava solo raccogliendo fiorellini mentre scappava da Jared Leto armato di machete?»

Athena e Hera si immettono subito nella conversazione, per una volta pronte a dar ragione ad Ares. Zeus zittisce tutti alzando solo l'indice per aria. Ha lo sguardo perso sul pavimento. «Il fiore di loto è un genere di pianta acquatica che fece la sua prima comparsa sulla terra circa 80 milioni di anni fa. Appartiene alla famiglia delle Nelumbonaceae e comprende due specie: la Nelumbo Iutea e la Nelumbo nucifera.»

«D'accordo, professore di erbologia a Hogwarts,» lo prende in giro Ares, seccato. «Ora puoi dirci qualcosa di importante?»

Zeus ha uno spasmo alla bocca. Butta fuori un fiotto d'aria. «Ci stavo arrivando, se solo tu riuscissi per una volta a stare zitto.» Si guardano in cagnesco. «Nella mitologia greca, si parla di questa pianta soprattutto nell'Odissea dove Omero racconta proprio dei "mangiatori di fiori di Loto" o "latofagi". Gli stessi accolsero Ulisse e gli offrirono il frutto della pianta, considerato un narcotico e associato alla perdita di memoria.»

Nessuno fiata. Hades mi spinge qualche centimetro in avanti, per far passare un'infermiera con un carrello.

«Stai dicendo che i fiori di loto fanno perdere la memoria?» domanda Liam.

Zeus scuote la testa. «La mitologia dice così, ma non è una scienza. Ancora non ci sono studi che lo abbiano dimostrato. D'altra parte, però, esiste un tipo di fiore di loto chiamato Loto Blu. Viene utilizzato fin dal passato, dagli antichi Egizi, per le sue proprietà afrodisiache e... allucinogene. Basta miscelare i petali del fiore e farci una banalissima tisana.»

Il mio cuore è già dentro la stanza di Newt, e non permette al mio cervello di ragionare con lucidità. Non riesco proprio a capire dove voglia andare a parare.

«Non ti seguo,» dà voce ai miei pensieri Hermes.

«Nessuno di noi ha ricordi ben definiti dell'orfanotrofio,» Hades fa un passo avanti e lascia la presa dal mio corpo, ma mi afferra la mano per mantenere un minimo contatto. «C'è sempre qualcosa che non torna, qualche dettaglio incongruente, a volte anche intere parti più grandi. Come per Haven, che non ricordava neanche di esserci stata.»

«Stai dicendo che ci davano tisane ai fiori di loto per annebbiarci la mente?» esclama Herm, e nell'impeto quasi butta giù Poseidon dal suo grembo. È Zeus ad afferrarlo preventivamente per il braccio, in modo che non cada.

Hades annuisce, la mascella rigida e l'aria di uno che sta provando a contenere la rabbia. «Non potevano drogarci con sostanze stupefacenti. Eravamo bambini. E se qualcuno lo avesse scoperto, come noi adesso, sarebbe passato per vie legali. I fiori di loto, invece... Non sono droghe. Sono erbe. Piante. Ne escono puliti. E noi con i ricordi fottuti.»

Potrei mettermi a vomitare da un momento all'altro. Negli occhi degli altri Lively leggo emozioni contrastanti. Athena sembra quella che fatica più di tutti a crederci. Hera, Poseidon, Ares e Zeus, invece, lasciano trapelare il loro dispiacere per il lato della famiglia in cui sono cresciuti i loro cugini. Se Iperione e Teia avessero adottato tutti, come sarebbe andata?

Mentre la famiglia discute, tra sussurri e parole pronunciate a voce troppo alta, la porta della terapia intensiva si apre. La dottoressa Tyrell cattura subito il mio sguardo e mi fa un cenno, dal quale capisco che è arrivato il momento che tanto attendevo. Posso andare a trovare Newt. Un Newt sveglio, fuori dal coma, ma ancora sofferente.

«Puoi far entrare una sola persona con te. È meglio non affollare la stanza e lasciargli spazio,» aggiunge, prima di voltarci le spalle e attendere che la raggiunga.

Mi volto verso Hades, ma la sua attenzione è ferma su un punto oltre di me. «Porta Ares,» sussurra. «Ogni minuto che passa lo vedo più irrequieto e nervoso. Gli farà bene stare lontano da tutto questo.»

Allora l'ha notato anche lui. Ares se ne sta seduto, e all'apparenza sembra ascoltare i discorsi dei cugini e dei fratelli, ma la postura rigida e la gamba che si muove in un tic nervoso lo tradiscono. «Sicuro?» domando.

Hades mi afferra il viso tra le mani e mi dà un bacio sulla fronte. Le sue labbra restano a contatto con la mia pelle, e mormora contro di essa: «Certo. Andate.»

Ci stacchiamo, e io gli sorrido. Poi allungo il braccio in direzione di Ares e lo invito a prendermi la mano. Lui la fissa come se fossi un alieno, dopodiché capisce cosa gli sto chiedendo e la afferra. Intreccia le dita con le mie, in una stretta così forte che mi si spezza il cuore per lui. Non so cosa gli stia passando per la testa, ma dev'essere qualcosa di molto cupo e personale.

Avanziamo fino ad affiancare la dottoressa, che ci apre la porta in cui è ricoverato Newt da settimane. Ce la chiude alle spalle senza fiatare.

Ora è Ares a farmi muovere, mi guida fino a una sedia in metallo, posta al lato sinistro del lettino. Newt è sveglio. Ha gli occhi aperti. L'espressione è vacua. Fissa qualcosa davanti a sé e al tempo stesso è come se non stesse guardando nulla. Mi sento in colpa. In colpa perché il terrore mi assale. Mi fa paura vederlo così. È spaventoso.

«Va tutto bene, Cohen,» mi incoraggia Ares. Mi dà una spinta finale per farmi atterrare con poca grazia sulla sedia.

Quando prova a lasciarmi la mano, afferro la sua anche con l'altra e punto gli occhi sulla nostra pelle intrecciata. Mi reggo a lui come se ne andasse della mia vita.

«Ho paura,» ammetto.

Ares sospira e si abbassa fino a inginocchiarsi per terra. Mi tiene la mano, ma si stacca di dosso l'altra che lo ha afferrato per paura che mi lasciasse andare. Prima che possa chiedergli cosa ha intenzione di fare, la posiziona sopra quella di Newt, immobile sul materasso. Da lì, mi viene istintivo stringergliela. È calda, e non risponde al mio contatto. Non mi importa, perché la paura provata fino a poco fa comincia a dissolversi gradualmente.

«Sono qui, Newt,» gli dico. «Sono Haven. La tua sorellina rompicoglioni e ludopatica.»

La mano di Newt si muove appena sotto la mia. E tutto il dolore che avevo nel cuore da quando l'ho visto perdere i sensi all'uscita del labirinto, svanisce.

«Devo essere felice perché si è svegliato. Quello che verrà dopo, lo affronterò.» Non volevo dirlo ad alta voce.

Ares fa scontrare la spalla con la mia. «Lo affronteremo. Tutti insieme.»

La goccia che fa traboccare il vaso. Sbatto le palpebre e le lacrime mi inondano le guance, gridando vittoria dopo tutto il tempo che ho passato a combatterle, per non farle uscire.

«Voleva essere una cosa gentile...» si difende Ares, confuso.

Mi scappa una risatina, seguita da un singhiozzo imbarazzante. «Piango proprio perché hai detto una cosa bella, Ares. Grazie.»

Le sue dita sfuggono alla mia presa, solo per potermi circondare le spalle con il braccio e stringermi contro il suo petto. Poggio il capo all'altezza del suo cuore, batte velocissimo. «Ho fatto piangere tante ragazze nella mia vita, ma mai per aver detto loro una cosa bella.»

«Immagino.»

«Una volta Stacy ha pianto perché le ho detto che avrei preferito scoparmi sua sorella, se era in casa.» Fa una pausa. «Un'altra, ancora, ha pianto perché le ho chiesto se a sua madre piacessero quelli più piccoli. E poi c'è stato quando ho visto sua cugina Kasy...»

Scoppio a ridere tra le lacrime. «Smettila, Ares!»

Anche lui ridacchia e mi stringe più forte. Sento il suo mento sopra la mia nuca, e il suo fiato tra i capelli. «È dura stare qui, per me. In ospedale. Odio gli ospedali. E so che non è strano, perché non credo che a qualcuno piacciano. Ma mi creano forti attacchi di panico. Così come le sirene delle ambulanze.»

Sollevo il capo per guardarlo, ma lui mi sfugge. «E allora perché sei qui? Ares, puoi andare, non preoccuparti. Io non sapevo che...»

Mi zittisce subito. «L'ho fatto per te. Lasciami fare una cosa buona dopo tutti i casini che ho causato.»

«Ne hai fatte tante, Cayden.»

Percepisco il suo corpo irrigidirsi, e mi pento di averlo chiamato per il suo secondo nome. Temo di averlo messo a disagio. «Mi piace il modo in cui pronunci il mio nome. Nessuno mi chiama così. Nemmeno i miei fratelli. L'unica volta che l'ho sentito è dalla bocca di mia madre, e non lo diceva con la stessa dolcezza che usi tu.»

Con una mano accarezzo il dorso di quella di Newt, e con l'altra il ginocchio di Ares. La mia realtà è scandita dai bip dei macchinari a cui è attaccato mio fratello, e i battiti accelerati del cuore di Ares.

«Ho paura degli ospedali da quando ci sono stato io, a undici anni,» bisbiglia Ares, la voce roca e spezzata. «Sono stato proprio in un reparto di terapia intensiva, in coma. Farmacologico, però.»

Gli afferro il viso e lo costringo a guardarmi. «Ares, non sei costretto a raccontarmelo. Per favore, fermati, non voglio che tu ti senta in...»

Mi ignora e le sue pozze nere come la pece si fermano sulle mie labbra, tanto a lungo da farmi star male. Che non mi ami lo abbiamo già capito, ma forse è ancora difficile per lui.

«Mia madre...» balbetta. «Mia madre ha provato ad affogarmi in mare. Non mi ha mai insegnato a nuotare. Eravamo solo io e lei. Lei era una tossica con problemi di alcolismo e io ero il frutto di una scopata fatta per racimolare qualche grammo. Non mi ha mai voluto. Così, dopo undici anni di maltrattamenti e noncuranza, mi ha portato in una spiaggia deserta, di mattina. E ha provato a farmi annegare. Avevo degli ottimi polmoni. Ma i medici mi misero in coma farmacologico per non farmi soffrire, anche se erano convinti che non ce l'avrei fatta. E invece, dopo tre mesi, mi svegliai. Mi ci vollero due anni per recuperare, dopo i quali finì in orfanotrofio. Da lì, la storia la sai bene. Gente strana con una passione per la mitologia greca eccetera.»

Non so cosa dire. E al tempo stesso ricollego tutti i tasselli mancanti. Le volte in cui mi diceva di non sopportare l'odore della salsedine o del cloro. Ne manca solo uno.

«Perché ti piacciono i temporali?»

L'angolo delle labbra scatta all'insù. «Perché la mattina in cui mi teneva per il collo, con la testa sott'acqua, c'era un bellissimo sole e non tirava neanche un filo di vento. C'era la pace completa. E sentivo le sue frasi. La sentivo dire "Ancora qualche minuto ed è finita, Cayden", "Manca poco", "Non opporre resistenza". Se ci fosse stato un bel temporale, i tuoni avrebbero coperto la sua voce. E adesso io non la sentirei ancora nella mia testa.»

Le mie lacrime, ora, sono di puro dolore. Il terrore di prima è tornato, ma non per mio fratello, bensì per l'orrore della storia che ho appena sentito. Sembra che i ragazzi Lively abbiano tutti una cosa in comune: dei genitori biologici che non li volevano.

Comincio a pensare di essere stata fortunata. Mi saranno mancati i soldi tutta la vita, ma almeno ho avuto un padre che mi voleva.

Quando io e Ares ci guardiamo, stiamo piangendo entrambi. Io riesco a malapena a tenere sotto controllo i singhiozzi, lui invece non fa alcun rumore. Il silenzio con il quale mi mostra il suo dolore, fa ancora più male del suono prodotto dalle parole con le quali me lo ha raccontato.

«Non piangere per me, Haven Cohen,» mi ammonisce in tono bonario. Tira su col naso. «Sei brutta quando piangi.»

Sorvolo sulla sua frase cattiva, perché so che è solo un modo per distrarmi. «Sono felice che tu sia vivo, Ares.»

Abbassa il capo e io glielo risollevo. Passo le mani sul suo viso, e asciugo ogni lacrima che gli bagna la pelle liscia e pallida. «Chi l'avrebbe mai detto che, alla fine, non sono poi così stronzo. Ho solo delle mommy issues. Forse dovrei buttarmi sulle quarantenni, in effetti...»

«Perché cerchi di alleggerire la conversazione con stronzate?»

Tira indietro il capo, come colpito da uno schiaffo. Il pomo d'Adamo si abbassa. «Perché quando parlo dei miei problemi mi sembra di pesare sugli altri. Quindi preferisco dirottare la discussione e liberarli dall'enorme fardello che sono io. Come mi è stato insegnato a fare per tutta la vita.»

«Ares...» tento, ma lui alza una mano e non ho il coraggio di continuare. Sento come se questo piccolo racconto fosse l'unica cosa che mi è concessa sapere. Non sono io la protagonista della sua storia. Non sta a me sentire cos'altro ha da dire. Io sono un'amica. E a me non vuole dire altro, perché non è ancora arrivata la persona con la quale vuole aprirsi completamente.

«Io ce l'ho fatta, contro ogni previsione,» riprende Ares. Sembra più calmo. «E ce la farà anche Newt. Capito?»

Annuisco.

«Dillo ad alta voce, Cohen. Le cose sono più reali quando le esprimi a parole.»

«Ce la farà anche Newt.» Tiro su col naso. Devo essere un disastro da vedere.

Ares mi dà un bacio sulla guancia. «Ottimo. Non ho finito di prendere per il culo tuo fratello. Deve riprendersi a ogni costo.»

D'istinto sorrido, ma l'esasperazione mista al divertimento scemano in un lampo. Una nuova emozione si fa spazio dentro di me, spintonando le altre e impedendo loro di prendere il sopravvento.

La rabbia. La voglia di vendetta. La voglia di sapere la verità. La voglia di far pagare la persona che ha permesso tutto questo.

Andrò anche io al Saint Lucifer, l'orfanotrofio di Hades. Se c'è uno stralcio di verità lì, un minimo bagliore di luce che possa mettere in vista qualcosa, io lo voglio.

🪷🪷🪷

Il tragitto che porta a Washington, District of Columbia, si percorre in un'ora e sei minuti in auto. Nel nostro caso, un'ora e venti per un piccolo ingorgo stradale. Ci siamo spostati su un minivan, affittato dai Lively. Per non dare troppo nell'occhio, non stiamo andando tutti all'orfanotrofio. Siamo solo io, Hades, Hermes, Zeus, Athena e...

«Ho trovato un test online che ti dice quale mese dell'anno sei,» irrompe la voce di Liam, chino sullo schermo del suo cellulare. «Io sono maggio. Volete farlo anche voi?»

«Liam, io...» risponde Athena.
Lui quasi salta sul sedile. «Certo, subito. Pronta alla prima domanda.»

«No,» lo interrompe lei. «Liam, io sto per darti un pugno se non la smetti. Ecco cosa volevo dire.»

Liam blocca lo schermo del telefono. Herm, alla sua destra, gli dà una pacca sulla schiena, in un goffo tentativo di consolarlo. Anche lui sa che a volte Liam è indifendibile. Porta leggerezza quando l'aria è tesa, ma in alcuni casi dovrebbe davvero stare zitto.

Hades è alla guida. Non ha aperto bocca nemmeno una volta da quando siamo partiti, e posso immaginare il motivo. Non mi va di fargli domande, sia per lasciargli il suo spazio e sia perché non ha bisogno di ulteriori distrazioni mentre guida.

Ritorno al mio telefono e sospiro.

«Quante altre volte vuoi rivedere quel video?» è la voce di Hades a chiamarmi.

Resto immobile, quasi spaventata. Non mi aspettavo avrebbe detto qualcosa. E non credevo che si fosse accorto del fatto che sto riguardando il video di me in orfanotrofio in loop. Il video che Ares ha rubato, convinto di starci portando la prova schiacciante che io e Hades ci conosciamo fin da quando eravamo piccoli. Non riesco a smettere. Continuo a premere play, nella speranza che prima o poi arrivi la parte che Ares ci aveva promesso. Invece, si interrompe sempre allo stesso punto.

«Non cambierà solo perché continui a guardarlo con quel faccino ridicolo,» continua Hades, mentre fa ruotare il volante con il palmo della mano.

Distolgo lo sguardo. «Faccino ridicolo? È la mia espressione arrabbiata.»

Sorride appena. «Ed è buffa. Oltre che molto carina e per nulla minacciosa.»

Stringo le labbra per non sorridere a mia volta. E, quando il video termina con me da sola, per la frustrazione del momento lo lancio contro il cruscotto e lascio che cada a terra, ai miei piedi.

«Vorrei ricordarti che se fai qualche danno all'auto, devo pagarlo io.»

«Tanto sei ricco. Sono sicura che Crono pagherebbe per i danni fatti dalla sua Artemis.» Faccio una smorfia e Hades mi imita.

Sprofondo contro il sedile e incrocio le braccia al petto. Il navigatore segna che mancano due minuti alla nostra destinazione. Siamo letteralmente dentro una stradina in un bosco, gli alberi hanno le chiome folte e si stagliano per altezze esorbitanti. Eppure, da qui, vedo la sommità di un edificio. Ogni parte di me si mette in guardia, come se ci stessimo avvicinando a un pericolo.

L'orfanotrofio non è come lo avevo immaginato. L'architettura è moderna, con pareti bianche intervallate ad altre fatte interamente in vetro. Conto dodici piani. Lo faccio una, due, tre volte per assicurarmi di non aver sbagliato. Un giardino ben curato è ciò che ci accoglie per primo, con il sentiero lastricato e l'erba che brilla sotto il sole.

«Sembra più la villa delle Kardashian che un orfanotrofio,» commenta Liam. Non appena incrocia lo sguardo contrariato di Zeus, arretra fino a posizionarsi dietro Athena.

Sulle scalinate che portano all'ingresso, c'è una donna adulta. Se ne sta in piedi, immobile come una sentinella, con un completo elegante e dei tacchi in vernice. I capelli sono rasati e dai lobi due orecchini a cerchio catturano l'attenzione.

È la direttrice del Saint Lucifer. Hades ha chiamato ieri per chiedere di poter fare una visita. Quando si è presentato come Kai, Malakai, la donna lo ha riconosciuto subito ed è sembrata parecchio felice di sentirlo. L'intento era di farle interpretare la nostra visita come un viaggio nel passato, un saluto e un ringraziamento alla struttura che ha permesso a Hades Malakai di trovare una famiglia.

Hades avanza davanti a tutti, e le labbra color cremisi della donna si distendono in un sorriso di pura gioia. «Kai,» mormora, commossa. «È così bello vederti.»

Hades fa un cenno col capo. «Anche per me.» È un pessimo attore. O forse io lo conosco troppo bene.

La direttrice lo stringe in un abbraccio, dopodiché sposta l'attenzione su di noi. Leggo della chiara confusione. Forse saremmo dovuti venire in numero ancora più inferiore. Se è contrariata, non ce lo dà a vedere. «Mi chiamo Alexandria. Dirigo questo orfanotrofio da vent'anni. Quattordici anni fa ho conosciuto Kai, o meglio, il vostro Hades.»

Si presentano tutti, e le stringono la mano. Arrivato il mio turno, la guardo dritta negli occhi. «Haven, piacere.»

Alexandria tentenna. Per un tempo così breve da farmi dubitare che sia mai successo. «Piacere mio.» Lascia la presa all'istante. «Volete fare un giro? I bambini, adesso, stanno seguendo le lezioni nelle aule. Abbiamo un po' di tempo.»

L'interno è in perfetto accordo con l'esterno. Spazi luminosi e limpidi, ogni superficie sembra che venga pulita a ogni ora. L'unico colore presente è il bianco, fanno eccezione i dettagli in metallo. Donne e uomini in divisa ci passano accanto senza staccare gli occhi dal pavimento, salutando Alexandria come se fosse una regina a cui mostrare reverenza.

La cosa più inquietante di tutte è il silenzio che regna qui dentro. Una struttura di dodici piani avvolta dalla calma più assoluta. Una calma inquietante. Al punto che, mentre ascolto il ticchettio delle scarpe di Alexandria sul pavimento lucente, mi vengono i brividi alle braccia.

«Ho pochi ricordi di questo posto,» ammette Hades, e gli sono grata per aver fatto un po' di rumore. «Sono quasi certo che, quattordici anni fa, non fosse così.»

Alexandria si volta di tre quarti per scoccargli un'espressione d'intesa. «Non sono poi messi così male i tuoi ricordi, allora. Abbiamo ristrutturato tutto. Circa dieci anni fa, sì. È molto diverso. Oserei dire che i bambini che ci sono stati poco, o che erano molto piccoli, tornando qui non si ricorderebbero mai di esserci stati.»

Hermes mi affianca. Sembra irrequieto. «Questa tipa con la testa da palla da bowling non mi piace,» sussurra, approfittando di Hades che le sta rispondendo. «E nemmeno questo posto. Detesto tutto.»

Incastro le dita con le sue, in un debole tentativo di rasserenarlo. «È importante per Hades. Resisti.»

Alexandria ci fa fare un giro completo della struttura. Ci mostra il piano terra, con gli uffici e le aule in cui fanno lezione. Dalle finestre vediamo anche i bambini e i ragazzi, divisi a seconda dell'età. Sembrano sereni, quasi felici di stare in un ambiente del genere. Come se non fosse un orfanotrofio. Ci porta anche ai piani con i dormitori. Ogni stanza ospita cinque bambini o ragazzi. Non sono grandi, ma sono pulite e dotate di tutto ciò di cui uno può avere bisogno. Ci fa persino vedere qual era la stanza di Kai. Ai tempi, l'orfanotrofio aveva solo sei piani, ma la sua era situata al quarto. Una volta all'interno, Hades non dice nulla e non fa alcun commento, nonostante Alexandria parli a manetta e provi a ricordare i vecchi tempi.

Più passa il tempo, più ho paura che questa visita sia stata un grave errore. Non solo perché temo che Crono venga a saperlo, ma perché potrebbe star facendo male a Hades e basta. Non stiamo ottenendo alcuna risposta.

E Hades si volta verso di me ogni cinque minuti, con gli occhi accesi di speranza. Spera che stare qui possa scatenare un ricordo, un dettaglio, qualsiasi cosa ci dica che ho passato anche io una brevissima parentesi della mia infanzia al Saint Lucifer.

Ma io... non ricordo niente. Questo posto non mi è familiare. Non l'ho mai visto in vita mia, ne sono sicura. È un buco nell'acqua. Hades ci soffrirà e basta. E io con lui.

Ciò non spiega cosa diamine abbia visto Ares, quella notte in Grecia. Non so cosa darei per poter vedere quel maledetto video.

«E poi c'è il giardino...» sta dicendo Alexandria, sceso l'ultimo gradino che riporta al piano terra. Indica qualcosa in fondo a un corridoio. «Uscivi poco, in realtà, e quelle rare volte te ne stavi da solo. Non sei mai stato un bambino socievole, però...»

«Alexandria,» la interrompe Hades. Faccio per bloccarlo, perché so già che sta per rovinare tutto. «Ora basta. Non sono qui per un viaggio nei ricordi. Anche perché, non so se te ne sei resa conto, ma per me non erano felici. Erano un cazzo di inferno.»

Qualcosa mi dice che Alexandria lo abbia sempre saputo. Fa un sorriso tirato. «Kai, non capisco. C'è qualche problema?»

«Voglio la verità su quello che succedeva in questo orfanotrofio,» risponde.

Zeus scatta in avanti. «Hades, fermati.»

«Fatti i maledetti cazzi tuoi,» gli ringhia contro.

Alexandria prova a mettersi in mezzo, e per un secondo incrocia il mio sguardo. Mi sfugge come nel momento in cui ci siamo presentate. «Possiamo abbassare i toni, ragazzi? Non c'è motivo di comportarsi in questo modo. Kai, parla in modo diretto e educato. Cosa vuoi da me?»

Hades incombe su di lei, più alto di almeno quindici centimetri nonostante i tacchi. Alexandria arretra, e lui non le lascia via di scampo. «Cosa facevate ai bambini di questo orfanotrofio, per conto di Crono e Rea Lively? Ci davate qualcosa per distorcere i nostri ricordi? E, soprattutto, Haven era qui, vero?» Mi indica. «Io, lei e Apollo eravamo insieme e in qualche modo ce lo avete fatto dimenticare. Voglio i filmati, so che ci sono dei filmati. Voglio la verità, Alexandria, e non le puttanate sulla stanza in cui passavo notti di merda o il giardino in cui giocavo. Me ne sbatto il cazzo di quello.»

Nessuno fiata. Alexandria ha un'espressione impassibile.

Liam, alle mie spalle, emette un verso strozzato. «Avrei scelto delle parole diverse, onestamente.»

Zeus sta scuotendo il capo, con la spalla adagiata contro il muro. «Se lo hai capito persino tu, siamo messi male.»

Alexandria porta le mani sul petto di Hades e, applicando una lieve pressione, lo fa indietreggiare. Si sistema la giacca del completo e dà un colpo di tosse. «Le accuse che mi rivolgi sono gravi, Malakai. Gravi, rudi e offensive. Ma scelgo di non prendermela e di non cacciarvi tutti via, perché capisco che la tua vita in orfanotrofio non fosse delle più serene. È evidente che ti porti ancora dietro il trauma, e mi dispiace. Noi vogliamo solo il meglio per i nostri bambini.» Hades prova a ribattere, ma lei solleva l'indice. L'unghia è corta e laccata di nero. «Perché non vai un po' in giardino? Prendi dell'aria fresca, stai sotto il sole, oggi che l'inverno è meno freddo del solito, e parli un po' con la tua ragazza. Io starò al mio ufficio, se hai bisogno di qualcosa, a patto che non siano altre accuse. Potrete andare via quando vorrete.»

Sia io che Hermes ci muoviamo in automatico in direzione delle porte, convinti che Hades vorrà andarsene via. Ci stupisce, invece. La sua postura si rilassa e annuisce. «Grazie. Penso che seguirò il consiglio e andrò in giardino.»

Athena, finora rimasta in silenzio, inarca un sopracciglio. «Roba da non credere.»

«Mi aspettavo che la mandasse a fanculo,» aggiunge Herm. Quando Alexandria si gira verso di lui, abbozza un sorriso imbarazzato. «Salve.»

Lei si accerta che Hades si sia davvero calmato, poi ci rivolge un saluto distaccato e avanza fino a metà corridoio. Sparisce dentro una stanza e ci lascia soli.

«Allora...» rompe il silenzio Liam.

Hades ci dà le spalle e si incammina nella stessa direzione in cui è sparita Alexandria pochi secondi fa. Lo seguo senza esitazione. Sono costretta a fare una corsetta per raggiungerlo, ma lui resta comunque in vantaggio. Esito proprio davanti alla porta, incerta sul fatto che mi voglia con lui. Forse ha bisogno di stare da solo. Ma Hades me la tiene aperta, e attende che esca prima di lui.

Il giardino è un incanto. Ci sono tavolini e tanto verde. Cespugli di fiori colorano diversi angoli, e tre alberi creano delle grandi zone d'ombra. Uno di questi è nettamente più maestoso, le sue radici si stendono verso il cielo con imponenza.

Hades mi passa accanto, ancora in silenzio, e raggiunge proprio quest'ultimo albero. Inclina il capo verso la chioma, e sotto il mio sguardo stupito comincia ad arrampicarsi. Si ferma in un punto non troppo alto e si sistema in modo da restarci seduto, con un piede che penzola per aria.

Lo raggiungo e rimango a terra. «Che fai?»

Se Ares fosse qui, direbbe che è una prova schiacciante a conferma della sua teoria su Malakai la scimmia.

«Era l'albero sul quale mi arrampicavo da bambino,» risponde dopo un po'. «Ne sono quasi certo. Era il più alto anche quattordici anni fa. L'avevo scelto apposta, perché dava una visuale migliore del panorama e mi permetteva di vedere meglio se la bambina sarebbe tornata.»

Ho una fitta di gelosia. La mando subito via, sentendomi in colpa per aver avuto un pensiero così egoista. «Capisco.»

Mi conosce bene, e sente nella mia voce una nota malinconica. Allunga il braccio verso di me. «Vieni. Ti aiuto a salire.»

«Anche se non sono io la bambina che aspettavi?»

Non ribatte. Continua a tendermi la mano, imperterrito, e io la afferro. Con quella libera mi aggrappo al tronco e incastro il piede sul legno per darmi la spinta. Hades fa quasi tutto il lavoro, mi regge anche per il fianco e mi fa sistemare accanto a lui. Non mi sono mai piaciute le altezze, motivo per cui tengo gli occhi incollati al suo viso e cerco di concentrarmi solo su di lui.

Hades non mi lascia andare nemmeno quando sono stabile e seduta nel punto più sicuro. «Persefóni mou, quella bambina potrebbe arrivare in questo preciso momento, e io continuerei a guardare te, comunque.»

Con il dito, mi sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Poi sorride, notando che il resto è fissato alla nuca con la mia solita matita.

«Lei è il mio passato. Ma io voglio vivere il presente, in cui ci sei solo tu.»

Mi abbandono a un sospiro. «Scusami. È stupido, ma sono ancora gelosa. Vorrei che le nostre vite fossero... non diverse, ma più semplici. Il che può suonare da ingrata, ma...»

«Sai cosa mi ritrovo a pensare sempre più spesso?» mi interrompe in modo gentile. «Che vorrei rubare a qualcuno una vita felice e senza problemi, per poterla dare a te.»

La sua voce è come una carezza, capace di sciogliere ogni grumo di tristezza che ho in corpo. Al punto che mi lascio andare contro il ramo alle mie spalle e ci adagio la schiena. Lascio la testa girata verso il suo viso e lo scruto dal basso.

Hades si fa più vicino e mi accarezza la fronte.

«E in questa vita felice...» sussurro. «Tu ci sei?»
Scuote il capo. «No, agapi mou
«Allora non è una vita felice.»

Sorride mestamente. «Sono parte dei tuoi problemi. Per quanto ti sia difficile ammetterlo, è così.» Faccio per controbattere. «So che al novanta percento è colpa di mio padre. Haven, ho capito che il tuo non voler indagare sul nostro passato è dovuto a qualche ricatto che ti è stato fatto. Un ricatto che metteva in pericolo qualcuno che ami, magari me stesso. Non sono stupido.»

Aggrotto le sopracciglia. «E allora perché insistevi sul volerlo fare?»

Si stringe nelle spalle. All'ombra dell'albero, i suoi occhi sono di un grigio scurissimo. «Perché non mi interessa se qualcuno minaccia la mia vita. Che vita è senza i nostri ricordi? Che vita viviamo se ci vengono tolti i momenti felici? Stiamo davvero vivendo se non siamo nemmeno liberi di ricordare il nostro passato e da dove veniamo?»

Non so cosa rispondere alle sue domande. A primo impatto, gli direi che rinuncerei a qualsiasi ricordo se equivale a tenerlo al sicuro.

«Dietro ogni nostro problema c'è Crono,» dico, alla fine. Deglutisco a fatica, alla ricerca delle parole più delicate da usare. Non le trovo. «Suonerà folle, ma quando torneremo in Grecia per il gioco del Labirinto, se capiterà l'occasione di ucciderlo, non me la lascerò scappare.»

I tratti del suo viso si induriscono. «Se ti capiterà l'occasione,» rimarca. «Io proverò in ogni modo a crearla. Così come i miei fratelli.»

Ci fissiamo a lungo, e dietro la maschera di determinazione e forza che ha messo su, vedo la sua debolezza, sempre ben nascosta per paura che qualcuno arrivi a essa. Come le rose. Il loro gambo è ricoperto di spine, forse per far desistere l'uomo dal prendere in mano il fiore e rovinarlo. Forse servono a proteggere i petali, così delicati e belli, che non dovrebbero essere sfiorati da nessuno. È così che Hades si protegge dalle persone, dopo tutta la cattiveria che ha subito.

Eppure, io posso prendere in mano la rosa. Le sue spine non mi fanno male. A me è concesso arrivare ai petali, mi è concesso sfiorarli e ammirarli, perché sa che non li strapperò, sa che non li rovinerò e che li tratterò con cura e amore.

Un raggio di luce passa attraverso un piccolo spazio fra i rami sopra di noi e va a illuminare la mano di Hades, poggiata sulla mia gamba. Avvicino la mia e ci intreccio le dita, in una presa che lui ricambia immediatamente.

Non so per quanto tempo restiamo così, seduti su un albero nel giardino di un orfanotrofio, in silenzio, ma ho l'impressione che quando sono con lui, il posto e le circostanze non contino più.

«Vorrei restare così per sempre,» bisbiglio, come se fosse un segreto e qualcuno potesse sentirci.

Hades sfrega il pollice sul dorso della mia mano. «Seduti su un albero in un orfanotrofio?»

«Con te,» specifico, avendo un déjà-vu. «Vorrei restare con te per sempre.»

Riesco a farlo sorridere. Ogni volta che ci riesco, ogni volta che Hades sorride per merito mio, il cuore minaccia di scoppiarmi nel petto.

«Tha se kratíso mazí mou gia pánta, agápi mou.» Fa una pausa solo per far aumentare la mia curiosità. «Ti terrò con me per sempre, amore mio.»

«Tha se katio mazi mou gia pan, agápi mou,» gli ripeto.

Hades mi punta gli occhi addosso, la bocca è dischiusa e il divertimento gli dona una nuova luce in volto. «Dobbiamo ancora lavorare sul tuo greco, però.»

Gli do un buffetto sulla guancia e lui ridacchia. «Non è colpa mia se il mio professore mi ha insegnato solo a chiedergli baci o a entrare dentro di me...» lo provoco.

Alza gli occhi al cielo, in una finta espressione di esasperazione.

«Stai bene?» gli chiedo, ora che l'atmosfera si è alleggerita. «So che avevi alte aspettative da questa giornata. So che speravi che io ricordassi qualcosa.»

Si rabbuia. «Non è successo proprio nulla, vero?»

«Hades... Non sono mai stata qui.» Mi inumidisco le labbra e decido di esporgli un pensiero che ho ormai concretizzato. «Ricordi il video, no? Il tavolo al quale io e Apollo eravamo seduti. Ho osservato ogni mobilio di questo posto, durante il giro turistico che ci ha offerto Alexandria. Non c'era nulla di simile. Da nessuna parte. Magari Ares si è sbagliato...»

Il suo indice si posa sulle mie labbra. D'improvviso, non è più triste come pochi secondi fa. La corazza di indifferenza è crollata, ma non c'è la debolezza che immaginavo. C'è un'altra emozione. Che ha nascosto benissimo a tutti, fino ad ora.

«Haven, sono quasi certo che tu sia stata qui, da bambina. Con me.»

Impiego qualche istante a elaborare la frase. «Cosa stai dicendo?»

«Hai mai sentito parlare del fare buon viso a cattivo gioco?»

«Parlate sempre per metafore con i giochi di mezzo, voi Lively.»

«Haven.» Mi afferra il viso con la mano. «Al primo semaforo a cui ci siamo fermati, ho gettato l'occhio sul tuo telefono, per capire cosa stessi facendo con così tanta attenzione. Ho riconosciuto il video e ho lasciato stare, perché vederlo mi fa solo incazzare. Ma poi... ricordi il tratto che ci ha rallentati per il traffico? Siamo rimasti fermi per cinque minuti, in coda dietro una colonna di macchine.»

Annuisco, con un movimento minimo, perché sono curiosa di scoprire dove sta andando a parare. La mia mente sa che sta per stravolgere tutto, e l'adrenalina comincia a entrare in circolo.

«In quei cinque minuti, tu hai riprodotto il video un'infinità di volte, ma non ti sei accorta che lo stavo guardando anche io.» Fa un respiro profondo. La sua mano scivola lungo la mia pancia, si sposta di lato, sul mio fianco, e si infila nella tasca posteriore dei miei jeans. Estrae il mio telefono.

Ancora sconvolta dal gesto repentino, rimango in attesa. Mi chiede di sbloccare lo schermo con il codice e poi va in galleria, dove sa di trovare il video. Preme play, e per i quarantatré secondi di filmato rimaniamo immobili.

Quando si stoppa, mi fissa. Si aspetta qualcosa da me, ma non so cosa. «Non l'hai notato?»
Mi metto a sedere. «Hades, non ti capisco. Per favore, spiegamelo.»

Fa ripartire il video e io vorrei lanciare il cellulare giù dall'albero per la frustrazione. Lo conosco a memoria. Ma il dito affusolato di Hades tocca lo schermo e lo blocca, qualche secondo dopo che Apollo è sparito. Indica un punto. Assottiglio gli occhi.

La mia bocca si spalanca. Mi reggo a Hades, per paura di cadere talmente grande è lo choc.

«C'è un'ombra per terra, e proviene dal lato sinistro, la direzione opposta alla quale se n'è andato Apollo,» spiega, anche se ormai ci sono arrivata. «Un'ombra piccola, quasi sicuramente appartenente a un bambino. Compare per due secondi scarsi, dopodiché svanisce. Segno che il video è stato tagliato ed è stata omessa una parte. La parte in cui, magari, sono comparso io. Come sosteneva di aver visto Ares.»

È tutto così improvviso e nuovo, che faccio fatica a formulare dei pensieri razionali, ancor di più delle frasi di senso compiuto. Vorrei chiedergli qual è la nostra prossima mossa, allora, ma sto ancora elaborando la scoperta che ha fatto. Com'è possibile che mi sia sfuggito? Dopo le infinite volte in cui ho visto il video?

«Devi fidarti di me, adesso,» mi strappa dai miei pensieri. Mi accorgo che è in procinto di scendere dall'albero, con le gambe piegate come se volesse saltare. «E soprattutto, devi seguirmi.»

«Hades...» obbietto con poca convinzione.

La porta del giardino si spalanca, rivelando Hermes e gli altri Lively. Athena è quella che avanza di più e fissa il fratello con una strana luce negli occhi. «Allora ha ragione Ares quando sostiene che sei una scimmia.»

Trattengo una risata. Hades fa un balzo e atterra sull'erba, piantando bene anche i palmi per reggersi meglio. Come ha fatto per aiutarmi a salire, mi porge entrambe le mani e mi fa scendere in modo più tranquillo.

«Che ne dite se ce ne andiamo da questo posto?» chiede Herm. «Non voglio più vedere quella testa rasata con due lampadari agganciati alle orecchie.»

Hades mi prende per mano e mi tira fino a superare i suoi familiari e Liam. «Non abbiamo ancora finito. Venite con noi senza fare domande e senza rompere il cazzo.»

Ottimo approccio, Hades.

Athena e Zeus mi chiedono silenziosamente che cosa abbia in testa il mio ragazzo, ma io ne so quanto loro. Scrollo le spalle e gli indico di fare come ci ha detto lui.

Avanziamo fino alla stanza dentro la quale è sparita Alexandria, e Hades non bussa nemmeno prima di abbassare la maniglia e fare irruzione. Lei ne è sorpresa, e anche parecchio infastidita. Se ne sta seduta a una scrivania nera, con lo schermo del pc acceso che proietta una luce bluastra sul suo viso.

«Ti do due minuti per dirci la verità,» la incalza Hades.

«Come, prego?» Poi capisce. O almeno, finge di non aver capito subito. «Ancora, Malakai?»

Hades lascia andare la mia mano e torreggia sulla sua scrivania. Poggia i palmi sul piano scuro e si protende verso la donna, che per mostrare sicurezza non si sposta di un millimetro. «Quando siamo arrivati... mi hai chiamato Hades. Tu non dovresti sapere che i miei genitori adottivi mi hanno cambiato nome. Ciò significa che sei rimasta in contatto con Crono, o peggio, che fin dall'inizio sapevi quello che voleva fare.» La frena prima che risponda. «E quando Haven ti si è presentata, sei rimasta stupita, perché ti aspettavi che ti dicesse di chiamarsi Artemis. Sapevi i piani di Crono. Sapevi che lui voleva me, Apollo e Artemis. Ma Haven è stata adottata da un'altra famiglia, e Crono si è incazzato con te. A questo punto, però, ti aspettavi che fosse riuscito a riprendersela. Invece no.» Ridacchia. «Avresti dovuto vedere la tua faccia quando l'ho presa per mano e hai realizzato che non siamo fratello e sorella, ma che stiamo insieme.»

La direttrice del Saint Lucifer non sa cosa dire. So che sta cercando una spiegazione per pararsi il culo, ma è evidente a tutti che non la troverà mai. E, anche se fosse, non ci basterà.

Hades si rivolge a noi, adesso, adagiato sulla scrivania di Alexandria come se fosse lui il proprietario. «Il video di Haven e Apollo è ambientato in un posto di questo edificio che non abbiamo visto. Qui dentro è cambiato tutto, motivo per cui Haven non vedrà mai nulla che potrebbe scatenarle dei ricordi.»

«E allora dove si trova la stanza del filmato?» gli domando, sinceramente smaniosa di avere risposte.

Hades indica il pavimento. «Sottoterra. E Alexandria ci porterà lì.»

La donna scatta in piedi come un fulmine. «No!» urla. La compostezza che ci ha mostrato è sparita. La pelle del viso è paonazza dalla rabbia, o dal nervoso, non saprei dirlo bene. «Dovete andarvene. Subito.»

A sorpresa di tutti, Athena attraversa la stanza e raggiunge Alexandria, che dal suo canto non può prevedere le sue mosse. Athena porta la mano attorno al collo della donna e la spinge contro il muro.

Zeus la richiama, stupito, e Hermes lo ferma. «Cugino, non ti conviene.»

«Hai sentito mio fratello?» domanda Athena, la voce che è appena un sibilo sinistro. Persino io ho paura di lei. «Portaci ai sotterranei. Ora. A meno che tu non voglia che chiamiamo la polizia e rendiamo pubblico tutto quello che avete fatto quattordici anni fa a dei bambini. E credimi che le prove ci sono, stronza.»

Alexandria prova a liberarsi dalla stretta di Athena. «Se lo faccio... vostro padre mi ucciderà.»

«Crono non lo verrà a sapere,» promette Hades. «A meno che tu non lo abbia già avvertito che siamo qui.»

Alexandria scuote il capo. Athena la lascia andare, ma rimane lì vicino in caso le salti in testa di compiere qualche gesto avventato. Alexandria si massaggia il collo, credo più per scena che per altro. Dopodiché apre un cassetto della scrivania e ne tira fuori un mazzo di chiavi che sembrano tutte uguali. Non ci dice di seguirla. Ci passa accanto, lasciando nell'aria un profumo di fiori, e si ferma davanti alla libreria dell'ufficio. Premendo il palmo sul bordo, il mobile si sposta da solo e lascia lo spazio necessario a infilarcisi in mezzo.

Quando provo ad andare per prima, Hades mi blocca. «Scordatelo.»

«Andiamo prima noi,» si aggiunge Hermes.

I due spariscono dietro il mobile. Athena mi prende per mano e mi accompagna.

Liam si attacca a Zeus. «Signor Zeus, ho paura, non è che può...»
Zeus sbuffa a gran voce e gli prende la mano. «Andiamo, Liam. Ma stai zitto.»

Oltre la libreria c'è un corridoio angusto, con una rampa di scale. Una sola luce sul muro illumina il tanto necessario a scendere gli scalini senza cadere a terra. Alla fine di esso, una porta. Alexandria ci sta aspettando per aprirla con una delle chiavi del mazzo.

Ci ritroviamo in un vero e proprio laboratorio. A ridosso del muro più lontano ci sono scrivanie con monitor enormi e spenti, che mi auguro non vengano utilizzati da anni. Il centro dell'attrazione sono cinque tavoli con sedie, posti per tutta l'area della sala.

«Qui facevamo i test ai bambini, compresi voi,» informa Alexandria. «Studiavamo le vostre attività cerebrali, il modo in cui riuscivate a risolvere quesiti e problemi più o meno difficili. E poi selezionavamo chi aveva i parametri migliori, per presentarli a Crono e Rea come candidati all'adozione.»

Liam ha il telefono in mano, con il video fermo sullo schermo. Si avvicina a un tavolo e confronta le due immagini. «Combaciano,» esclama. «È lo stesso tavolo!»

Nessuno sa cosa dire. Nemmeno Hades, che ha fatto tutto questo perché era convinto che avrebbe trovato la prova schiacciante.

«E guardate lì,» interviene Zeus. Sta andando incontro a un angolo della sala. C'è una teca in vetro. «È una serra minuscola. Non ci sono più i fiori dentro, ma...»

«Coltivavamo i fiori di loto,» lo anticipa Alexandria, ferma a una postazione. «Li davamo come tisane ai bambini per confondere i loro ricordi. Giocavamo su quello, sul fatto che fossero piccoli e sull'amnesia che può causare vivere un trauma simile in tenera età.»

Athena la guarda come se volesse ucciderla con una sola occhiata. E credo anche che potrebbe riuscirci.

Mentre Zeus continua a studiare la piccola serra, un monitor prende vita, alla nostra destra. Alexandria sta scrivendo qualcosa, le dita battono veloci sui tasti. Sullo schermo compare una cartella, e con il doppio click scopriamo che ne contiene altre. Ciascuna con un nome diverso. Seleziona una rinominata: Haven/Artemis. Ci sono filmati, lì dentro. E qualcosa mi dice che stiamo per vedere la versione originale del video che ci ha tanto tormentati.

Muovo quattro passi in avanti per vedere meglio, e con me Hades. Restiamo immobili, mentre riparte la scena che conosciamo a memoria. E, quando la me bambina resta sola, la mano di Hades cerca la mia.

Eccolo. Malakai. Si avvicina a me con un bicchiere d'acqua pieno fino all'orlo. Versa l'acqua a me, in modo che il mio bicchiere sia pieno e il suo rimanga metà. «Ora è pieno, bevi.» Se ne va senza aggiungere altro e il filmato si ferma.

Ora è pieno, bevi.

Qualcosa scatta nella mia testa. Non so cosa. È come se qualcuno avesse acceso l'interruttore della luce, in una stanza immersa nel buio totale, e d'improvviso cominciasse a essere accessibile ogni dettaglio che prima era celato dall'oscurità.

La prima cosa che vedo sono delle costruzioni in lego. Spariscono subito e devo sforzarmi per riportare l'immagine a me. Ritorna. Con particolari in più. Ci sono delle mani. Due paia di mani, da bambini. Le mie. E quelle di un bambino che tiene la testa chinata, immerso nella sua opera. I capelli lunghi e castani mi fanno mancare un battito.

Non ho tempo di concentrarmi troppo su quel ricordo, perché ne arriva un altro. Il ramo di un albero mi sfreccia a pochi centimetri dalla testa. Qualcuno, su un albero, me lo ha lanciato. Non vedo chi, il ricordo mi viene strappato via e viene sostituito da un altro.

Sento una voce infantile che grida: «Sei proprio una rompiscatole!»

Sento una seconda voce, profonda e da adulto. «È un piacere conoscerti. Vorrei portarti a casa con noi. La vuoi una famiglia, Artemis?»

Vedo volti. Per istanti troppo brevi. Sento voci che si sovrappongono. Cerco Hades in tutto questo casino, e non lo trovo. Non riesco ancora a vedere il suo viso da bambino.

Nella realtà, nel presente, Hades mi chiama. Pronuncia il mio nome con dolcezza, e il rumore nella mia testa si affievolisce fino a sparire. Nessuno sta più gridando. C'è la calma. È tornato il buio.

E, in questo nuovo e rassicurante buio, si accende una sola, minuscola, luce. Illumina il necessario. L'essenziale.

Sono di nuovo al laboratorio. Sono piccola. Alexandria e un uomo con il camice mi ci hanno appena fatta entrare. Ci sono altre persone, i cui volti sono annebbiati, ma non mi interessa. I tavoli sono vuoti, fatta eccezione per uno più lontano. C'è un bambino. Alexandria mi dice di raggiungerlo e sedermi alla sua destra, senza dire niente.

Obbedisco. Ma ho paura. La paura di me bambina mi fa quasi piangere. Il pensiero che tutti quei bambini abbiano provato lo stesso, mi fa incazzare.

Prendo posto a fianco al bambino, senza guardarlo. Lui guarda me, però. Sento i suoi occhi addosso, e la cosa mi spaventa ancora di più. Mi accorgo che le mani mi tremano in grembo solo quando la sua vocina mi sussurra: «Non avere paura. Un giorno avrai dimenticato tutto questo. Così promettono loro.»

Cala il buio, di nuovo, sui i miei ricordi. Mi chiedono quanto siano attendibili. Mi chiedo se il cervello non lo abbia inventato solo per darmi ciò che volevo.

Hades mi stringe la mano. Si china su di me e sussurra al mio orecchio: «Non avere paura.»

Mi si mozza il respiro. Il cuore mi batte così veloce che temo stia per venirmi un infarto. «Un giorno avrai dimenticato tutto questo. Così dicono loro,» concludo la frase.

Hades mi fa voltare verso di lui e mi afferra il viso tra le mani. Le nostre fronti si toccano, e io non oso chiudere gli occhi, perché questo momento voglio viverlo in modo completo. «Ma noi lo stiamo ricordando,» prosegue. «Nonostante il dolore di quegli anni, lo stiamo ricordando e io sono felice di averti incontrata, anche in circostanze così tristi. Te lo ricordi, Haven? Ricordi che eri qui con me?»

Annuisco piano. Ho visto solo il nostro primo incontro, ma è abbastanza. «Lo ricordo, Malakai.»

«Eri tu,» sussurra, la voce rotta e gli occhi lucidi. «Eri tu la bambina che aspettavo sull'albero, Haven. Sei sempre stata tu.»

Scoppio a piangere, per l'emozione di aver ritrovato una parte bella del mio passato, e per la disperazione del casino in cui ci siamo ritrovati da bambini. «Ero io,» ripeto. «Aspettavi me.»

Hades bacia la mia guancia e le lacrime che la rigano. Si lecca le labbra come a volerle assaporare. «E sei tornata. Haven, sei tornata da me. Sei il mio passato, il mio presente e il mio futuro.»

È stato Hades a dirmi di non avere paura, per primo. La prima voce rassicurante quando sono arrivata all'orfanotrofio. È stato Apollo a dirmi che nella vita non dovevo preoccuparmi se il bicchiere fosse mezzo vuoto, perché magari mi sarebbe bastato. Ma è stato Hades a riempirmelo, fino all'orlo, privando se stesso dell'acqua.

Apollo è stato il primo a insegnarmi a non guardare a quanto mi mancasse. Hades è stato il primo a darmi ciò che mi mancava.


Ce l'abbiamo fattaaaaa 🥳🥳🥳🥳
Questo capitolo è stato un parto trigemellare, sono troppo stanca pure per commentarlo. Lascio il compito a voi💆🏻‍♀️

DOMANDA IMPORTANTE: tra un'ora pubblico la intro e le info per lo spin off di Ares, che inizierà una volta finita Game of Titans. Aiutatemi a scegliere la copertina: teniamo la mela o andiamo sulla ciliegia? (Nel primo caso, lo spin off di Hermes avrebbe la mela gialla. Nel secondo, la fragola)



Grazie per leggere GoT ❤️‍🩹
Have a nice life.🍎

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