1. Prologo
La pioggia cade incessante ed è da tutto il giorno che va avanti così.
I passanti per le strade - ne sono usciti pochi con questo tempaccio - sono solo ombre veloci e sfuggenti, e neppure si rendono conto di quello che sta succedendo intorno a loro.
Norval ha il sorriso stampato in faccia, ma nessuno lo nota, così può continuare per la sua strada senza intralci.
Non è il suo stile, di solito non è così che lavora, eppure questa svolta alla monotonia di tutti i giorni lo fa sorridere
I suoi occhi verdi sembrano quelli di un bambino il giorno di Natale, non certo di un assassino.
L'Ombra, non una tra tante, ma proprio quella, si sta allontando.
"Concentrato" borbotta tra sé, giocando con il mazzo di chiavi che ha in mano.
Sono tenute insieme da un anello di metallo largo qualche centimetro e non ce n'è una uguale all'altra.
Una è grande e arrugginita, non la usa da tempo.
Un'altra è più modesta e ben lucidata.
Un'altra ancora non è neanche una chiave vera e propria, ma una carta magnetica.
E poi c'è lei, o come la chiama Norval, Chiodo.
"Non perdere tempo" aggiunge, ficcandosi il mazzo in una tasca del largo cappotto.
Fino a questo punto ha proceduto in tutta calma, passo dopo passo, un'ombra come un'altra, ma ora non può permettersi di restare indietro.
Comincia a correre, ignorando che il suono dei suoi stivali nelle pozzanghere probabilmente avvertirà l'Ombra della sua presenza.
Lo ignora come ignora il fatto di essere zuppo dalla testa ai piedi e che la coppola, ora come ora, si rivelerebbe più utile come spugna che come cappello.
L'Ombra accelera il passo; sa di essere seguita.
Norval maledice la pioggia, invece che se stesso.
Perché non poteva essere una bella notte serena, con una grande luna e qualche stella che fanno capolino tra i vapori?
Sarebbe più semplice, sulla cima di un palazzo, con le Sorelle strette tra le mani, asciutto e senza la puzza di pesce che risale dalla baia.
Norval arriccia il naso, ma sa che se la caverà anche lasciando le sue fidate amiche appese alla cintura.
L'Ombra intanto si è andata a cacciare in un vicolo cieco: infondo c'è un'alta parete di metallo e si ritrova stretta tra due edifici in mattoni.
Il topo è in trappola.
Quando Norval la raggiunge non può che ridacchiare, mentre tira nuovamente fuori dal cappotto le chiavi.
Le fa tintinnare tra di loro, sperando che venga sentito dalla sua taglia, sopra lo scrosciare della pioggia.
È un modo per confermare la sua presenza, come per dire "Ormai è finita, porta i miei saluti all'Inferno".
Chissà com'è l'Inferno, pensa, chissà cosa si prova, temendo di morire.
L'Ombra si volta, immobile, monolitica, solo la sua voce trema:
"Ti prego" dice, abbassando la testa con un suono secco, come di un ramo spezzato.
L'Assassino ride ancora e si avvicina, continuando a far tintinnare le chiavi.
"Ti prego, non ho fatto niente!" Supplica, abbassando ancora di più la testa.
Norval afferra la sua spalla con la mano libera: ha perso i primi obiettivi della Gara proprio quand'era sicuro di averli in pugno.
Stringe con fermezza, anche se è sicuro che questa volta non ci siano vie di scampo.
"Devi avermi scambiato per Byron" sussurra, con delusione.
Stringe ciascuna delle chiavi tra le nocche delle dita, come spuntoni di un tirapugni.
"No, ti prego, ti prego! Non posso difendermi! Ti prego!"
L'Ombra urla acuta, alzando di nuovo la testa. Fissa statica Norval, nessuna emozione attraversa il suo viso: la paura è solo nelle sue preghiere.
"Vedi, è lui quello che ascolta le ultime preghiere e poi uccide" ridacchia il ragazzo, grattandosi la base del naso con una chiave - Io preferisco venire subito al dunque.
Ebbene, fuoco alle polveri!
Il primo colpo non fa' molti danni, aprendo solo una piccola fessura nel metallo ambrato che ricopre la testa.
"Sono disarmato! Fermati! Posso..."
Al secondo si apre in una feritoia di diversi centimetri, attraverso la quale Norval può osservare un intricato complesso di ingranaggi, che non capisce neppure per metà.
"La mia padrona! Lo sai! Lei..."
Al terzo montante mezza finta faccia è completamente squarciata.
Gli ingranaggi si fermano e l'automa smette di supplicarlo.
Norval fissa l'Ombra, vagamente perplesso, poi lascia incauto la presa sulla spalla.
Quella resta immobile, in silenzio.
Non supplica e non scappa.
Il ragazzo dà una leggera spinta al centro del petto e quella che ormai è solo una carcassa di rottami, cade all'indietro con un tonfo.
La pioggia, che con il suo scrosciare ha coperto le suppliche, le urla, le risate, i colpi, copre anche quel tonfo.
Nessuno, fuori da quel vicolo, nel mondo, si è accorto di qualcosa.
Norval si piega accanto all'automa, che non è morto.
Il termine esatto è disattivato.
Con un altro paio di colpi riesce a staccare un pezzo considerevolmente grande di quel che resta del finto viso di rame.
Sembra quasi una maschera mortuaria. I lineamenti scolpiti sulla lamina sembrano sereni, soprattuto ora che non strilla preghiere e suppliche.
La nasconde nel cappotto, insieme alle chiavi, poi passa a ispezionare i vestiti.
Non trovando niente, oltre che un pezzo di giornale e qualche bullone di ricambio, si rialza, esce dal vicolo e inizia a fischiettare, come un lavoratore appena uscito dalla fabbrica che torna a casa.
Perché è lì che sta andando, a casa.
O qualcosa di simile, dove stare al calduccio.
Quando raggiunge la destinazione, la luna ha rifatto timidamente capolino tra le nuvole e lo smog, cacciando la pioggia.
Rimane un po' sulla soglia, strizzando la coppola vicino a un tombino.
Poi se la sistema nuovamente in testa, nascondendo quasi ogni ciuffo rosso.
Osserva infine, con il naso all'insù, la scritta disordinata sopra la porta.
"Cenere alla cenere"
Ride per lo stupido nome, come sempre ogni qualvolta si ritrovi lì davanti, e fa il suo ingresso nel pub.
È pieno di gente e i tavoli sono tutti occupati.
Le sue orecchie si riempiono di risate, urla e insulti, lanciati da una parte all'altra del locale.
Si fa strada tra i clienti, i colleghi e i futuri e ignari obbiettivi.
Pesta la coda a un cane, che ormai ha preso per cuccia il poco spazio sotto un tavolo malconcio e che ne ha subite di peggiori, per cui torna a dormire, con il muso appoggiato sulle zampe.
Norval raggiunge il bancone, lasciando anche qualche gomitata per guadagnarsi spazio e salire sullo sgabello.
Il barista, un tipo con un piede nella fossa, pieno di pustole su ogni centimetro di pelle - e pustole grandi, mica brufoli - si avvicina a lui per farsi sentire.
"Il solito?"
Norval annuisce e l'uomo pustola gli allunga un oliatore di un grigio triste e mesto.
Lo fissa un po' senza toccarlo, poi alza lo sguardo.
Davanti a lui, appesa alla parete, c'è una lavagna con una classifica.
Sul fondo di questa è riportato Norval Maycock , con 0 punti.
Il ragazzo lascia la metà della faccia dell'Ombra sul bancone, aspettando che il barista se ne accorga.
Questo la prende furtivamente, anche se è esattamente quello che è obbligato a fare, e la sistema su un montacarichi, che fa scendere la maschera nel seminterrato del locale.
Un minuscolo led verde si accende accanto al montacarichi e l'uomo pustola recupera uno straccio e un pezzo di gesso grande quanto un unghia.
Cancella quello zero e il suo nome, scrivivendolo più sopra, affiancato da un uno storpio: guadagna giusto di un paio di posizioni, ma non rientra ancora nei primi.
Poi afferra la cornetta e trafellato chiama un numero, dice poche parole e ne chiama un altro: così almeno una decina di volte.
Intanto Norval stringe in una mano Chiodo e con altra si apre metà dei bottoni della sua camicia a quadri.
Lo sportello di metallo si delinea tra il tessuto e la pelle pallida.
Infila Chiodo nella minuscola serratura a lato dello sportello.
Una mandata, due mandate.
La serratura scatta e così lo sportello si apre.
Dietro di esso si nascondeva un groviglio di minuscoli ingranaggi e pompe altrettanto piccole, che ora alla luce dell'illuminazione del pub, a semplici candele, è terribilmente simile a quello che si nascondeva dietro la faccia dell'Ombra.
Norval non si sofferma a pensarci troppo, prende l'oliatore e lascia cadere qualche goccia nei punti giusti.
Ripete quest'azione ogni giorno, da quasi 10 anni, e ormai sarebbe in grado di compierla ad occhi chiusi.
Una volta che il suo cuore meccanico, unico appiglio alla vita da quel terribile incidente, è ben oliato, restituisce l'oliatore, richiude lo sportello, riabbottona la camicia e sistema le chiavi nel cappotto.
Infine si volta, dando le spalle al bancone e osserva il locale.
Ora che l'adrenalina ha esaurito il suo effetto e tutto sommato non è più bagnato come un pulcino, preso dalla noia, è indeciso se prendersi a pugni con qualcuno o scroccare una sigaretta a qualcun'altro.
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