Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

97- Il giorno in cui decidemmo di combattere

"Dimmi chi è che come me

Combatterà con lealtà
io fuggirò e correrò da un'altra notte me ne andrò
La forza che è dentro di me
È fuoco e terra e inquietudine.
Combatterò non perderò l'orgoglio di un guerriero che non muore mai!
Oh! Non giudicar tu non devi insinuare,
Con me non giocare
No che non mi arrendo e non mi arrenderò mai no,
Tu lo sai che un fiore può fiorire dal sale
Come un canto che sale

Sono libero e nessuno mi sconfiggerà no,

Tu non mi avrai così".

Tu non mi avrai così – Zucchero (Spirit)

Due anni e mezzo dopo
P.O.V.
Rais

I polpastrelli sfiorano la coperta di questo letto che abbiamo condiviso mentre il mondo, nell'agonia di ciò che il mio corpo ha ingerito per mettere alla gogna il mio dolore, collassa su se stesso in una vertigine di colori e suoni. Un malessere mi opprime, avrei voglia di inclinare di nuovo il corpo e vomitare. Non ho fatto altro per tutta la notte, sconfitto dalla mia stessa mente che era arrivata a credere alla mano di un uomo che, nel cuore della mia agonia, mi aveva costretto ad ingoiare ulteriori pastiglie che suggerissero una simile reazione. Ero sempre stato io, di mia volontà altrimenti, ad ingurgitarle? Non possono esserne certo, nonostante questa casa sia vuota ormai da un sacco di tempo ed il mio corpo si sia atrofizzato lungo questo materasso.

La luce del sole all'esterno lascia proiettare sulla coperta dei piccoli e sottili raggi che accarezzano la mia nuda spalla e le dita della mano destra, tese verso il vuoto, verso un volto che la mia mente ancora ricorda alla perfezione, tanto da sorridergli nel cercare conforto.

Dei colpi alla porta, però, disturbano il nostro silenzio e si intromettono nella nostra vita in maniera spietata. Non do loro alcuna importanza, lasciando che mi raggiungano, come ogni giorno, nel loro tentativo patetico di riportarmi a questo mondo.

«Rais, puoi aprire questa porta? Ho bisogno di parlarti.»

Rais... nessuno mi chiama più in questo modo da un sacco di tempo e sentirlo pronunciare proprio dalla voce dolce di lei quasi mi fa sorridere. Vorrei dimostrarglielo che mi ha reso felice ma non posso alzarmi, non ne ho le forze.

Dall'altro lato del portone di casa mia immagino Halima, a testa china, riuscire a capirlo. Ha avuto una vita così difficile, lei... non può non farlo, per questo motivo è la migliore delle voci che giungono da dietro la barriera del mio carcere. Lei capisce, lei comprende e dentro i silenzi che lascia vivere tra noi riusciamo a comunicare molto meglio di tutti gli altri. Vorrebbe quasi abbandonarmi al mio dolore, Halima, ma il suo buon cuore non glielo concede. Come un istinto di salvataggio verso quello che entrambi proviamo da tempo la esorta a seguire il consiglio fornito da tutti gli altri nel presentarsi, ormai da anni, dinanzi a questo portone in un coro di suppliche.

«Avanti, Halima... dobbiamo andare» la supplica di retrocedere Marcus, da parte di entrambi.

La vita scorre così veloce nel mondo che ho lasciato distante e mi sembra come possibile vedere il loro amore crescere, se solo chiudo gli occhi. Che sensazione bellissima amare, l'essere amati. Non dovrebbe perdere tempo con me Halima, il tempo è così poco. Il tempo sfugge via e non ci è dato modo di cedere a compromessi.

«No. No, devo parlargli.»

«Halima...»

«Rais, ascoltami. So come ti senti. Lo capisco molto bene, ho perso entrambi i miei fratelli, e lui...» la voce le si rompe, impedendole di proseguire, mentre i miei occhi si chiudono dinanzi il volto che è steso con me, lungo questo letto. «Non gli ho mai detto che l'avevo perdonato da tempo» sussurra, lasciando scaturire una lacrima dai miei occhi.

Il mio corpo si contorce per quel flacone di medicine che ieri notte sono riuscito ad ingerire. Per l'alcol che da mesi, ormai, irroro nel mio corpo nel tentativo di soffocare ogni emozione. Per il vomito che tutto questo, assieme alla pastiglia che per ultima credo di avere ingerito, aveva provocato. Eppure il dolore fisico non supera nemmeno lontanamente quello psichico... e vorrei trovare le forze per parlare. Consolare Halima perché dal primo istante in cui l'ho conosciuta ho imparato a volerle bene. Vorrei riuscire a dirle... che non importa che cosa ha fatto o meno in passato perché lui è qui, steso accanto a me, ed è riuscito a sentirla.

Non ho voce per farlo. Ed Halima piange con me dall'altra parte di quel muro, in un modo differente, in un modo che sembra aver già fatto parte della rassegnazione e che si caratterizza con sussurri e piccoli gemiti mentre io rimango in silenzio, ad occhi chiusi, con il sole che mi sfiora la pelle.

Vorrei dirle che io e lei siamo simili ormai da molto tempo e che va bene piangere. Piangere è la sola cosa che ci rimane da fare mentre continuiamo a vivere all'interno di un mondo inclemente che non lascia traccia nemmeno del suo ultimo respiro.

Adesso
P.O.V.
Francis

«C'è un solo modo per tenere la palla e fare canestro. Vedi? Devi fare così.»

Damien accoglie nel suo palmo la palla da basket che mi ha chiesto di lanciargli, muovendola in una rotazione che poi blocca in modo da dimostrarmi su quali precise linee tenere le dita spalancate. La forza del pollice, poi, è fondamentale per poter garantire la spinta sul pallone ma c'è di più, occorre anche tenere in movimento il corpo. Flettere le ginocchia, vincolare lo sguardo all'obbiettivo e poi... canestro. Nessuno può riuscire a batterti.

Mio zio si volta verso di me sorridendo e strizzandomi un occhiolino, dopo avermi dato quella dritta imbattibile.

«Le carte devono giare nel palmo una sola volta. Lo riesci a vedere? Un'unica volta. Fai tenere gli occhi del tuo avversario fissi sulla rotazione che stai compiendo, dopodiché maschera il tuo trucco...»

La voce di mio padre si unisce ai suoi gesti mentre è intento a ruotare un mazzo di carte tra le mani, nascondendo nell'operazione la carta da gioco che ero riuscito a pescare. Il sette di cuori. Mio padre è scaramantico. Crede solo alla potenza di certi numeri. Alcuni li ritiene fortunati, altri di cattivo presagio. Ha persino scelto la targa del taxi che guida per lavoro per questo solo motivo ed il sette è un bel numero, gli piace. Così come il tre o l'uno. Il sei, invece, è sinonimo di sfortuna. Ogni volta che lo nomina diviene cupo il suo sguardo, sembra ricordarsi un cattivo evento...

«Era questa la tua carta?» Mi domanda, mostrandomi in bella vista, dopo un acrobazia degna del migliore giocatore di poker di tutto il paese, il sette di cuori, ovvero la mia carta scelta.

«Come ci sei riuscito?» Esclamo entusiasta, facendo nascere uno dei suoi pochi sorrisi sinceri, pronti a scaturire solo quando viene osannato.

«Ti ho ingannato e per tutto il tempo ti ho fatto guardare da un'altra parte mentre la verità... era proprio sotto ai tuoi occhi.»

Ripete il trucco con più lentezza, mostrandomi lo spazio della lunga manica all'interno della quale aveva nascosto la mia carta fortunata, prima di presentarla dinanzi a me.

Ricambio il suo sguardo, arrabbiato perché la sua non è maestria ma solo un ignobile trucco. Mio padre non ne viene scalfito. Ama fare le cose a modo proprio ma più di tutto ama vincere, con ogni mezzo possibile.

Il sudore cola dalla fronte raggiungendo il terreno di questo campo da gioco mentre la palla, in una rotazione veloce, finisce all'interno della rete del canestro, spinta forse anche dalla velocità del mio respiro.

Rais, camminando avanti e indietro lungo le gradonate di questi spalti pubblici, non dice niente ma continua a fissarmi. Continua a verificare il momento preciso durante il quale crollerò, restando in silenzio, valutandolo da lontano.

Recupero la palla, afferrandola nella maniera con cui mi ha insegnato mio zio e la mando in rete. Nell'aria si crea un semiarco perfetto ma per un solo istante del pallone si perde qualsiasi traccia. Il buio lo inghiotte nel suo nero manto, prima che possa finire nel canestro, impigliandosi nella rete.

«Voglio insegnarti una cosa, vedi... le voci che circolano su di te sono importanti, aumentano la tua importanza, ti permettono di essere riconosciuto... ma non sono niente se non sono affiancate dai fatti. Devi dimostrare a tutti gli altri di essere un uomo forte e di sapere rispondere se qualcuno di loro ti attacca» mi dice mio padre, dall'alto della sua statura, tendendo dei pugni in avanti prima di far tornare gli avambracci stretti vicino al corpo. Le mosse di un pugile. Io non so essere violento.

«Non voglio colpire i miei compagni» affermo, provocando la sua sorpresa.

«Allora come ti aspetti che ti rispettino? Se loro picchiano forte tu devi picchiare ancora più duro. Rispondi colpo su colpo, tieni loro testa. Tienigli testa e non mollare.»

La palla cade a terra, dopo il mio ultimo punto segnato, ed il mio respiro rotto esce dal corpo che, esausto, ho portato allo stremo delle fisiche forze. Ma la mente no... la mente è rimasta integra ed ora ragiona con una lucidità sorprendente seguendo il rimbalzo di quella palla.

Anche i passi di Rais si arrestano non appena volgo la testa nella sua direzione. Ha compreso il mutamento. Ha capito che qualcosa, adesso, sta per cambiare.

«Preparati, dobbiamo andare» gli dico solo, tornando eretto con la schiena e facendo cadere le ultime gocce di questo violento sudore.

«Dove?» Mi chiede lui, valutando il grado della follia che mi affligge adesso.

«A rispondere colpo su colpo.»

******

La centrale ha sempre lo stesso odore di casi irrisolti e di disperazione, di azioni compiute non del tutto secondo la legge al solo fine di poter mettere dietro le sbarre dei criminali. Ad oggi, respirando a pieni polmoni il grigio fumo della nicotina, sono pronto a sporcarmi le mani e fare lo stesso. Barare, nascondendo le mie carte in una manica, al solo fine di avere la vittoria in tasca.

Giungo al tavolo centrale di questo grande salone con ancora la sigaretta tra le labbra. Fumare qui dentro non è vietato ed immagino che sia un'azione che sarò ben volentieri pronto a ripetere in questa giornata da trascorrere sotto la luce violenta di questi fari a neon. In fondo, non ho altro da nascondere, giusto? Vivere nell'archivio con i miei segreti non è più necessario. Ora è tutto, palesemente, alla luce del sole. Gareth si è allontanato dalla centrale con tutte le informazioni più importanti, esortando anche da Carlail a prendersi un periodo di pausa dal grave choc psicologico che sembra stare affrontando dopo che l'uomo che doveva difendere, che ha protetto con tutto se stesso, si era sacrificato alla cattiveria del nemico per poter tenere al sicuro tutti.

Eccoci, dunque, sul terreno di un nuovo campo da gioco dove la spietatezza è la regola fondamentale.

Noto Rais allontanarsi con stanchezza per poter recuperare una tazza di caffè da una delle macchinette in modo tale da rimanere sveglio e concentrato dopo una notte passata completamente in bianco a vegliare sullo sfogo fisico avuto su quel campetto da basket, mentre io nel frattempo mi avvicino sempre più alla mia nuova postazione fino ad arrivare a notare la fotografia lasciata da Carlail assieme ai fascicoli. La stessa che ci aveva scattato, solo il giorno precedente, il fotografo di quel giornale.

Ghigno con rabbia, vedendo noi tre schierati al pari, quasi come se fossimo complici di un qualcosa che in verità non esiste.

Getto la fotografia più lontana ed apro questi nuovi fascicoli. Il caso della Ester si è concluso alla sua morte, i complici di quei crimini efferati sono stati incriminati mentre Bennett è ancora a piede libero ma sotto il controllo di nostre pattuglie che setacciano ogni centimetro di questo sporco mondo al solo fine di stanarlo. Rivogliamo indietro il nostro asso. Attila deve tornare tra noi ad ogni costo e quell'uomo.. quell'uomo ignobile, quel dottore che in un'altra vita avrebbe dovuto curare la gente, finirà a marcire nella cella di un carcere dove pregherà che qualcuna delle guardie possa lasciar correre la lametta conservata al di sotto del letto in modo da consentirgli, un giorno, di mettere fine lui stesso alla sua patetica vita.

Mentre il resto... picchietto la cenere in un piccolo e basso contenitore di cristallo, sollevando gli occhi dinanzi la figura che mi è venuta incontro.

«Carlail mi ha detto che saremo tornati a lavorare insieme. Quale è il caso?»

Soffio via la nuvola di fumo dalla bocca, notando dietro quella nebbia i suoi capelli dorati divenuti più lunghi, abbinati a quel paio di occhi neri, particolarmente scuri.

William è mio fratello. Fratellastro, per meglio dire. Non ci costringe alcun legame di sangue.
La consapevolezza mi aveva raggiunto questa notte.

È mio fratello e siamo cresciuti con lo stesso, ignobile, padre.

Pensarci è quasi divertente, rifletto facendo tornare alla bocca la sigaretta, se solo non fosse assurdamente patetico.

William ha un taglio degli occhi affilati, che vede il termine appuntito di quella nera cavità concludersi leggermente verso l'alto a rendere più intenso il suo sguardo ed un naso affilato, quasi quanto la lama di un pugnale, che divide i suoi due volti. Da un lato il terribile sanguinario dal cuore gelido e dalle scelte guidate solo dall'atrocità e dall'altro l'uomo che distrutto dal dolore cedeva il passo ad un atroce auto violenza del cuore.

Stabilire quale delle due persone possa essere, ed in quale proporzione, è impossibile... ma è mio fratello. Prima d'ora questo legame non era mai stato sporcato tanto.

«Sai suonare il pianoforte, William?» Domando ad un tratto, risalendo lento con gli occhi senza tentare di celare la mia rabbia.

«Questo che cosa ha a che fare con il nuovo caso?»

«Ritienila una semplice curiosità. Sai andare a cavallo, hai imparato a sparare... sai fare altro?»

«Lo so suonare, mi ha insegnato mio padre.»

Ma certo... gliel'ha insegnato. Proprio come l'ha insegnato a Caleb e come ha tentato di fare con me. Non troppo a lungo perché, a quanto pare, è una dote che preferisce acquisiscano solo i figli che davvero riportano il suo sangue. Ed oltre questo gli ha insegnato a lottare, alla maniera del South Side, ed a picchiare duro tanto forte da farmi credere che non avremo mai raggiunto la parità nel nostro primo confronto all'accademia. Anche allora, William ha usato dei trucchi. Mio padre è famoso per gli imbrogli.

«Tu lo sai suonare?»

«Mai imparato, non mi piace.»

«Bene, quindi sono finite queste domande inutili?»

La sua sfrontatezza mi fa sorridere e riflettere su quanto mi piaccia questo lato del suo carattere o addirittura mi intrighi. Sfidarlo era sempre stato soddisfacente ma mai prima d'ora ne avevo compreso il motivo... ed il motivo è che è come un fratello...

...Che risvolto patetico.

Apro i fascicoli con un solo gesto della mano portando allo scoperto parte del loro contenuto.

Dovrebbe averlo già cercato per suo conto, no? Sarebbe un folle altrimenti.

«Traffico di armi, spaccio di droga, ingaggio alla prostituzione» inizio a leggere l'elenco puntato dei capi di accusa, scorrendo il dito affinché sia chiara la mia precisa attenzione per ogni titolo di grassetto. «Omicidio premeditato, stragi, sequestro di persona.»

«Chi è Darle Rechi?» Legge il nome sulla copertina di questo dossier, sollevando poi gli occhi verso di me. «Dobbiamo arrestarla?»

«Non appena è nelle nostre mani, ma non Darle Rechi... ma Richard Lee.»

Un semplice gioco di anagrammi.

Ecco la carta... ecco che è scomparsa.

Gli occhi di William sgranano a quell'informazione, non essendosi mai reso conto di ciò che da sempre era stato sotto il suo controllo ed ora eccolo qui, servito in bella vista in un gesto folle, incapace di mostrare tutto ciò che abbiamo ma rivelandone una gran parte.

«Ci occuperemo di questo, adesso?»

«Non solo ce ne occuperemo, ma dovremo iniziare a prendercene carico già da ora.»

«Che cosa intendi?»

Ecco la parte divertente della questione... quando la battaglia termina ci sono degli sconfitti e dei vinti, dei morti e delle vittime ma anche inevitabili fila di indizi che si susseguono per poter condurre alla conclusione un'altra guerra. Ci sono state lasciate delle evidenti prove ed ora sarà divertente vederle sparire di fronte ai suoi occhi.

Abbiamo giocato per molto tempo ad afferrarci, William. Ci siamo sfidati prima ancora di conoscerci ed ora non rinuncio certo né tento di resistere.

Richard Lee ha tessuto per così tanto tempo la sua rete di bugie da non riuscire a credere che potessero avere un inizio ma ecco trovato lo stratagemma, l'imbroglio. Scoperto il trucco, il gioco perde qualsiasi sorta di interesse e rivela l'esperienza persino da parte di chi lo aveva creato.

Non era niente di complesso, solo finzione da parte di un uomo che fin dal principio è stato incapace di essere solo se stesso.

«Siamo riusciti ad ottenere il mandato di perquisizione per uno di questi avamposti. Vedi? Il capanno segnalato proprio qui, su questa carta. Ed anche questo... e questo...»

Con preoccupazione, William fissa una ad una quelle torri di controllo che stanno per cadere in mano nostra, senza poter avere modo di fare più niente adesso. Probabilmente suo padre gli affliggerebbe come lezione la colpa di essersi fatto distrarre dal dolore ma io, invece, posso solo offrirgli in cambio l'ipotesi di avermi ancora una volta sottovalutato.

Non è il solo a voler essere il problema principale del proprio acerrimo nemico: lo sono anche io e da tempo ormai mi sono sottratto a qualsiasi ipotesi di poter scendere a compromessi con le loro menti malate.

Dalle prove Willam scivola ai miei occhi, rendendosi conto che questa guerra non è affatto finita.

******

Tutta questa storia era partita come una vendetta, nata nel dolore e nel desiderio di fare ammenda di una situazione che mi aveva stravolto l'anima. Cercando l'assassino di Gyasi mi ero preso a carico il dovere di annullare qualsiasi traffico di droga per le strade, rintracciare lo spacciatore, seguire il suo fornitore e mettere fine a tutto perché l'overdose lungo le strade del South Side è comune come un raffreddore.

Per la prima volta adesso, dopo lunghi anni, vedo il risultato dei miei sforzi. Vedo l'affronto a cui danno vita le guardie nel portarsi via la merce sequestrata, al di sotto degli occhi di William. Quella palese sfilata di campionario, composto da armi e droga, che per molto tempo è stato il loro cartello da visita. Come può sentirsi adesso il padre di William dinanzi a questa sconfitta che ha un che di sfida?

Non riesco più a credere che sia stato anche mio padre, che le due figure possano coincidere, non riesco del tutto a credere all'odio che la mia mente genera automatica rinforzandosi nella convinzione non appena nota la rabbia di William. Non mi credevo capace di una simile venerazione per la giustizia ma lo sono e non importano i legami che questa intacca: se l'uomo che ha fatto tutto questo, Richard Lee, è lo stesso che mi ha cresciuto e che ha sbeffeggiato la mia intelligenza rimanendo alla luce del sole, allora questo uomo mi sta invitando a desistere. Lo capisco fin troppo bene. La sola che aveva apprezzato, tra le mie molte scelte, era stata l'entrata in polizia, forse perché si augurava che un giorno potessi diventare come il figlio a cui ha dato il diritto di uccidere. Corrotto ed ignobile, al servizio di ogni suo capriccio.

«Che cosa c'è, William? Va tutto bene?» Domando maligno in direzione del suo scompenso.

Le basi delle quali li stiamo privando, suggerite dalle ultime dritte di Samuel grazie alla corrispondenza di quel bambino, sembrano essere riferimenti importanti al loro commercio per cui immagino possa essere stato un colpo violento per cui è normale covare un simile odio, così come è normale faccia nascere il mio divertimento.

«Abbiamo altri posti, oltre a questo, in cui andare?»

«Solo uno, l'ultimo della lista.»

Reticente dinanzi le mie parole, segue i miei stessi passi in direzione delle volanti mentre il resto del personale continua a registrare sporchi cimeli della loro ridicola vita.

Due giorni dopo
P.O.V.
Francis

Il mio riflesso si infrange in un paio di iridi immobili e nella parete a specchio sul fondo di questa stanza. Una luce rossa, all'angolo in alto di quella finestra oltre la quale non è possibile vedere altro che il mio volto, ci informa che questa conversazione è stata registrata con video ed audio presenti, grazie alla telecamera che la affianca, ma il silenzio regna sovrano da troppo tempo.

Sposto l'attenzione di nuovo su questa guardia dello schieramento nemico che sembra essere ostile a qualsiasi confessione. Un violento istinto di prevaricazione mi esorta a rendere più ostiche le mie domande e a far presente quanto abbia da perdere, continuando a tenere la bocca serrata.
I suoi cari, la sua famiglia, la sua vita... purché ne abbia mai avuta una all'infuori del controllo del suo padrone.

Oltre il vetro nessuno dice niente. Sarebbero disposti a farmi continuare questo interrogatorio finché quest'uomo non crolla, esortati dalla mia stessa rabbia che so esservi nello sguardo di almeno uno di loro. Sono cosciente del fatto che Carlail sia presente per cui era stato normale fermare l'indagine all'insegna di un suo divieto... ma niente mi aveva raggiunto.
Proprio come me, Carlail rivuole Samuel indietro e desidera che uno di questi uomini parli.

«Attendi l'arrivo di un mio collega» sussurro in direzione della persona sedutami dinanzi, prima di rialzarmi da questa gelida sedia e dirigermi verso la stanza limitrofa.

Uno degli agenti più famosi all'interno di questo distretto mi da il cambio, a metà di questo lungo corridoio, rilasciandomi pacche su una spalla.
Tento di corrispondergli la stessa rassicurazione prima di entrare all'interno della sala al di là del vetro.
Carlail ha le braccia incrociate ed uno sguardo severo, proprio come immaginavo che fosse.

«Perché hai abbandonato quella stanza?»

«Perché non mi hai fermato?» Gli chiedo di rimando, essendomi reso conto nel corso di quell'interrogatorio di quanto il mio carattere violento stesse per insorgere.

In un primo momento Carlail non replica niente e torna ad osservare la sedia sulla quale prende posto un altro uomo in divisa.

«Credo che ormai Samuel sia morto» sussurra però ad un tratto, dando voce ad un incubo che è stato sussurrato come macabro pettegolezzo in tutta la centrale.

«Non avrei dovuto farlo andare di nuovo sotto copertura» continua a colpevolizzare se stesso e stavolta sono io che non lo arresto, credendo fermamente a tutto ciò.
Non avrebbe dovuto ma l'ha fatto e Samuel, Attila per meglio dire, è il migliore nel suo campo. Non credo sia morto. Non credo che questi uomini stiano in silenzio senza una ragione.

«Lo hanno portato via da quella chiesa» affermo, ricordando l'orrore riservato a quell'ultimo luogo che ancora preservava le sue tracce. «Temo che gli sia capitato un destino peggiore.»

Carlail rivolge a me il suo triste sguardo ma niente è utile a tentare di fermarmi.
Esco dalla stanza, cercando di raggiungere la mia nuova postazione poco prima di essere intercettato dallo sguardo di Rais.

«Hai delle novità?»

«Nessuna» affermo, tentando di governare l'impazienza che mi regna in petto. «Nemmeno mio padre è più tornato a casa.»

Lo sguardo irrequieto si sofferma contro William, in piedi vicino ad altri colleghi e poco più lontano.

«Dovresti smetterla» mi riprende Rais, attirando di nuovo i miei occhi.

«Di fare cosa?»

«Di sfidarlo in questo modo. Smettila di farlo arrabbiare, non sai di cosa è capace.»

«È di questo che sono curioso.»

«Ieri notte non sei riuscito ad addormentarti. Ti ho sentito. Rimanevi immobile ed in silenzio sul tuo lato finché non hai perso il controllo. Ancora quei movimenti bruschi, Francis. Le pillole non bastano, dovremo tornare dal medico.»

«Se continui a parlare ti bacio di fronte a William e a tutti quanti, così metto ancora una volta in chiaro chi è intoccabile.»

«Ultimamente avanzi solo minacce...» replica in una sorta di resa, ovviamente riferendosi al gioco di prestigio che sto avendo con William, ma portandomi così ad avanzare lento verso di lui per mettere in chiaro una cosa.

«Posso passare molto velocemente ai fatti, se è quello che vuoi...»

Una sua mano si posa al centro del mio petto, facendomi desistere dall'avanzare venendo accompagnata da una sorta di sguardo che ha un che di protesta.

«Devi smetterla di provocarlo.»

«Secondo te chi è più malvagio? William o il padre che ha cresciuto entrambi?» Gli domando, continuando a fissare negli occhi quel ragazzo biondo che ormai da tempo si è reso conto di essere al centro del mio mirino. «Mio padre non vuole altro che io mi arrenda, ma non intendo farlo. Non avrò pietà, Rais. Non ne avrò per nessuno di loro.»

«Sì? E che cosa intendi fare? Essere al loro stesso modo crudele?» La domanda mi fa tornare alla ragione, arrivando a farmi analizzare la sola persona al mondo che è in grado davvero di arrestarmi. «Non è in questo modo che si vince il crimine, dovresti saperlo. Non rendere tuo padre orgoglioso di averti reso l'uomo che non sei.»

Ha ragione e non intendevo affatto farlo... ma la rabbia, per lunghi momenti, mi aveva accecato gli occhi. Vivere ancora sotto il controllo costante di William, dall'altro lato della sala, dopo tutto ciò che sono cosciente abbia fatto non rende questa situazione più facile.

«Non lo permetterò... ma nemmeno desidero che resti ancora dei nostri.»

«Hai affidato tutte le prove a Gareth, no? Sono al sicuro.»

«Non lo voglio nel luogo in cui lavoro, Rais. Non voglio guardarlo e pensare che è mio fratello e che in un'altra vita avrei potuto essere come lui.»

Gli occhi di Rais mi sondano con serietà, prima di pronunciare altre parole in grado di ricompormi l'anima. «Non avresti mai potuto essere come lui. Né in questa vita né in un'altra.»

Con un profondo respiro tento di immagazzinare tutta l'aria che l'angoscia mi aveva tolto, prima di prestare lo sguardo alle mani che ho spalancato tra di noi, in modo da rendere visibili al soffitto i palmi.

«Hai ragione, le cure non bastano. Sto perdendo il controllo, Rais... sto perdendo il controllo del mio corpo e non voglio che William lo usi a suo vantaggio.»

Dinanzi queste parole troppo sincere il mio ragazzo tace, capendo l'importanza che queste celano.

«Allora usa ancora una volta l'astuzia e non perdere il controllo. Devi rimanere concentrato Francis e fingere che niente di tutto quello che compiono possa ferirti.»

Prendendo considerazione di questa richiesta torno negli occhi adombrati di William, furioso con me da giorni per la lotta che sta prendendo vita. Nata molto prima del nostro reciproco odio.

******

Ritornare nella propria casa per molti ha un significato comune associato al benessere, al ritrovo di affetti stabili, ma per pochi di noi che sono rimasti al mondo orfani di un amore che non gli è stato del tutto donato significa sforzarsi di mantenere una bugia per le apparenze. Salvaguardare il salvabile e, nel mio solo caso, tenere sotto controllo ciò che non lo è da tempo. Per questo motivo sono tornato dinanzi a questa porta che ha visto tutte le fasi della mia crescita, stupendomi di quante bugie possa avere conservato e della classica musica che sta proteggendo al momento.

Entrando nella casa, mi accorgo che il rumore proviene dalla cucina e che nel corridoio Caleb è in presenza di un bambino della sua stessa altezza, entrambi intenti a guardare di fronte a loro nella direzione di quella melodia.

Avanzo senza che riescano a vedermi e rimanendo lontano, alle loro spalle, mi accorgo che mio padre e mia madre stanno ballando un lento valzer. La musica li circonda, proveniente da una radio nera e grigia dall'aspetto moderno che prima d'ora non ero stato in grado di notare ma ciò che più stupisce sono i loro sorrisi.

Mio padre, Richard Dawson, la sta stringendo a sé in modo struggente, quasi romantico, quasi come se l'amasse davvero e mia madre lo sta ricambiando con lo stesso sguardo, lasciandosi trascinare dalla musica. La scena è raccapricciante per l'assenza di menzogna che sembra mostrare, quasi come se quel litigio nel soggiorno poche sere prima non fosse mai avvenuto, come se niente fosse accaduto. Mio padre fa inflettere la schiena di lei in un lento casquet che pone fine alla danza e alla magia della musica. Nel silenzio noto i piccoli fissare con stupore la bellezza della scena che ha avuto luogo. Sarebbe stata una magia perfetta, se solo non fosse falsa.

Il ragazzino presente a fianco a Caleb inizia ad applaudire con uno sguardo di puro stupore ed il veloce battere delle sue mani desta l'attenzione dei miei.

«Ragazzi ... che ci fate a quest'ora già a casa?» Chiede mio padre, riferendosi a Caleb principalemente. Nell'oscurità di questo spazio sono invisibile e distante dalla scena.

«Ci hanno fatto uscire prima, c'erano le votazioni.»

«Ah capisco, beh meglio così. Vuoi rimanere a cena Ian?»

«Che cos'è, quello che avete fatto prima?» Chiede invece il ragazzino, con un filo di voce, riuscendo a far sorridere di orgoglio mio padre.

«Intendi il valzer? Solo un tipo di ballo molto elegante per conquistare una donna.»

Ed è in questo momento, in questo preciso momento, che mio padre si accorge di me. Solleva gli occhi, spostandoli nella mia direzione, ed ecco che mi trova.

"Per conquistare una donna". Il messaggio è piuttosto chiaro ma mia madre non si accorge di niente.

«Sono tua moglie, non hai niente da conquistare ormai.»

«Questo lo dici tu.»

Per poco non mi viene da vomitare ma questo malessere che sento è del tutto personale ed esente dai protagonisti sulla scena, perché il ragazzino torna a parlare con una tranquillità che rende evidente il mutismo di mio fratello.

«È veramente molto bello, mi piacerebbe impararlo. Come ci è riuscito lei?»

«Vedi, a mio marito piacciono le cose che fanno i ricchi, o che comprano, come questa maledetta radio che ha voluto a tutti i costi mettere in casa. Il valzer lo ha imparato da loro, faceva l'autista un tempo, scortava le persone importanti ai galà e delle volte entrava pure nel salone del ricevimento, dove ballavano. O almeno questo è quello che racconta lui, chissà se è la verità.»

Ghigno con una smorfia che sa di rammarico e di orrore al tempo stesso, iniziando a cercare il pacchetto di sigarette nascosto in qualche tasca, ricordandomi senza interesse che si tratti di un altro vizio dei miei odiato da mio padre.

«È la verità, amore mio, niente di cui tu ti debba preoccupare.»

«Meglio così, caro.»

Non dovrebbe preoccuparsi di come abbia imparato a danzare ma di come la sua ingordigia lo abbia condotto ad un'inestimabile sete di ricchezza. Dovrebbe preoccuparsi della sua rabbia, della sua capacità di tenere una pistola in mano, della sua bravura nel fare i soldi sporchi. Dovrebbe preoccuparsi del fatto che l'abbia chiamata "puttana" per l'amore provato verso Damien. Di questo dovrebbe preoccuparsi, non certo di quella stupida radio, per cui di conseguenza dovrebbe fingere che possa essere giusto questo modo che ha di sorridere perché è ridicolo ed inclemente verso i cuori dei piccoli che ancora si possono illudere.

«Quindi, giovanotto, rimani con noi a mangiare oppure no?» Procede nel chiedere mio padre, fissando con divertimento l'amico di mio fratello, ignorandomi e provocandomi un mal di stomaco tale da arrivare a chiudere una porta alle mie spalle per rendere palese la mia presenza, prima di incamminarmi con lentezza verso il centro della stanza che li accoglie.

Diversi tipi di sguardi accompagnano il mio arrivo; mia madre mi guarda con stupore e dolore, mio fratello con una sorta di tensione forse avendo creduto che il nostro ultimo abbraccio fosse un effettivo addio, il suo amico con curiosità ma è l'indifferenza di mio padre, mescolata ad una dose di maligna concentrazione, ad attrarre tutta la mia attenzione verso di lui.

«Che succede qui?» Chiedo con tono piatto, volendo ricordare, almeno alle due persone che ne sono coscienti, quanto sia ridicola questa messa in scena.

Continuare a fingere è il motto che la mia famiglia preferisce al di sopra di ogni altro ed è proprio ciò che mia madre continua a fare, tentando di far credere a mio fratello tramite i modi gentili che di colpo esercita che niente possa essere cambiato e a me che possa essere ancora riparato.

«Ah Francis, sei tornato anche tu! Bene, ci riuniremo tutti a tavola.»

«Chi è quel bambino accanto a Caleb?» Domando solo per gentilezza nei confronti dell'estraneo, mentre espiro una profonda boccata dalla sigaretta dirigendo il fumo verso mio padre. I suoi occhi si serrano ma la sua bocca non dice niente, semplicemente si inclina verso un maligno sorriso.

«Ian, tesoro, un suo amico» continua a rispondere mia madre e così decido di veicolare lo sguardo verso questo fantomatico amico, ricordandomi che prima d'ora nessuna delle compagnie di Caleb aveva raggiunto la soglia di casa.

Forse, questo ragazzino dai capelli chiari è davvero il primo affetto di mio fratello, oltre la piccola Megan presente alla fine di queste scale, per cui mi stupisce di come i loro sguardi siano diametralmente differenti. Mentre negli occhi di mio fratello scorgo una sorta di rabbia ed incertezza, in quelli di Ian trovo come serenità e curiosità nei miei riguardi, quasi non si aspettasse che Caleb potesse avere un ulteriore parente. Non gli ha parlato di me? Forse si vergogna o forse parlare non gli è davvero tanto facile come chiunque potrebbe credere, viste le sue frasi taglienti.

«Allora felice di fare la tua conoscenza Ian, io sono Francis, il fratello di Caleb» mi presento a lui, tendendogli la mano in un sorriso ed insegno di amicizia.

Ian volta la testa verso Caleb, quasi chiedendogli il permesso per una simile azione ed il gesto, simbolo della loro complicità, riesce a farmi sorridere per qualche istante. Sono costretto a tornare serio quando il ragazzino ricambia la mia stretta.

Terminata la conoscenza, torno a dirigere lo sguardo verso mio padre che si allontana mettendo termine al leggero sfrigolio della musica all'interno del vuoto canale della radio. A passo stanco, invece, recupero uno dei bicchieri della cucina e percepisco con distinzione lo sguardo preoccupato di mia madre. Questa quotidianità le sta facendo credere che finalmente sia tornato a casa. Non dovrei illuderla ma desidero vedere ancora come mio padre si comporta in mia presenza, dopo quello che abbiamo passato, sì, ma anche dopo tutto ciò che sono venuto a sapere.

Perché è tornato? Era sparito da dei giorni, colpa probabilmente dell'importanza dei suoi veri affari e mi lascia sorridere l'idea che possa averlo fatto per parlare con William e riassumere il controllo. Abbiamo fatto chiudere molte delle sue attività, tanto da creare scompiglio nel paese per mano di chi, al soldo dello stipendio che mio padre era solito offrire, aveva deciso che generare disordine in una città fin troppo precaria fosse il metodo migliore per poter dar vita a nuovi conflitti. Che cosa aspetta, il signor Lee, per farsi avanti? Dove si era rintanato tutto questo tempo? E davvero la paura lo aveva fatto tornare di fretta fino a noi?

«Tutto bene, tesoro?»

È mia madre a chiederlo, notando la straganza delle emozioni che corrono lungo il mio sguardo. Potrei parlarle di quanto mi abbia disgustato vederla felice con un uomo che non ama e che non è il mio vero padre, dirle quanto si sbagli nel valutarlo come la scelta migliore della sua vita ma cedo, alla fine, nel dirle qualcosa che non è a lei direttamente indirizzato, sforzandomi di non voltarmi per rendere palese come i miei occhi si possano focalizzare sul destinatario.

«Giornata impegnativa a lavoro, mamma.»

Avverto mio padre spostare una sedia alla tavola e prendere posto, attento ora nel poter carpire un'informazione che gli possa essere utile.

«Di che si tratta?»

La carta scompare... la carta riappare.

Giocare ad un gioco di illusione è bello per i trucchi che si possono mettere in scena ma nessuno arriva a definire quanta rabbia possa nascondersi nel proclamare, fremente, parole che in se celano rabbia.

«Di un brutto gruppo di persone che ultimamente riempiono fascicoli su fascicoli alla centrale.»

«Ho capito, hai dovuto fare molte ricerche sul loro conto?»

Quante cose sa mio padre? Se non è più tornato nel South Side significa che non ha potuto mettersi in contatto con William e visto come le conversazioni telefoniche sembrino non essere nel suo stile, per paura di essere costantemente rintracciato dopo quel passo falso compiuto sette anni fa mentre la polizia gli dava la caccia, e del quale sono venuto a conoscenza solo leggendo notizie sul suo conto tra i fascicoli dei casi, allora posso affermare che non sappia niente di ciò che davvero sta succedendo. È solo consapevole di come le sue attività stiano chiudendo una dopo l'altra, grazie ad informazioni entrate in nostro possesso.

«Abbastanza, dovevo trovare un movente che li collegasse ad altri crimini successi in zona, e credo di esserci riuscito ma si basa su poche prove, non sarà facile convincere il procuratore distrettuale.»

«Tu dai sempre il massimo, Francis, e vedi che non potrai sbagliare.»

Queste parole mi fanno voltare verso mia madre con cui ho tenuto fino ad adesso questo dialogo, catalizzando in me la dolcezza con cui ha provato a parlarmi, nonostante l'incertezza.

Sì, conosco questo sguardo e conosco la dolcezza che preserva. Mia madre è una donna semplice, nonostante tutti gli sbagli che può avere compiuto. Vorrebbe solo che tornassi a casa ed imparassi a vivere nuovamente con loro, come una vera famiglia. Questo mi fa sorridere. L'idea di come il suo cuore, nonostante tutto il male che la circonda, possa non essere stato del tutto violato e di come l'ipotesi di tornare seduto affianco alla sedia su cui mio padre sta leggendo il giornale sia impossibile da immaginare.

La realtà si è infranta per sempre e non c'è più modo di ritornare ad essa.

Mio padre è Richard Lee. Un uomo tanto malvagio da essere incurante di chi ferisce nel proprio passaggio.

Espiro la nicotina nell'aria e premo la sigaretta sul fondo del bicchiere, con presenti due dita di acqua, prima di provare la necessità di allontanarmi da questa stanza per qualche minuto. Sento mia madre seguirmi ed afferrarmi la mano mentre siamo nel corridoio e dalla cucina le voci dei due bambini presenti si interfacciano a quella di mio padre. Troppo distanti, ormai, per rendersi percepibili al di sopra della preoccupazione di mia madre.

«Possiamo parlare?»

«Di che cosa vuoi parlare, mamma?»

«Di quello che è successo l'ultima volta che sei venuto qui. Tuo padre non avrebbe voluto dirti quelle cose, lui...»

«Ti riferisci a Richard o a Damien? Perché se la risposta è il primo dei due allora credo proprio che ti sbagli.»

«Vuoi parlare di Damien?»

«Voglio bene a mio zio, più di quanto ne abbia mai voluto a mio padre, è un dato di fatto. Avresti dovuto dirmi la verità.»

«Io... io amo tuo padre, Richard.»

«Nonostante la sua cattiveria? Andiamo, mamma, te ne sarai accorta. Non è un uomo buono, non lo è mai stato. Ora più che mai.»

«A che cosa ti riferisci?»

«Stagli lontano, ti chiedo solo questo.» Le dico poco prima di abbandonarla ed avvicinarmi ancora una volta alla cucina con esitazione, volendo captare la voce di mio padre senza che lui si accorga che lo stia ascoltando.

«Caleb ascoltami bene: non prendere mai il vizio di tuo fratello, questa roba ti uccide. Devi crescere forte e sano» gli sento dire e posso chiaramente vederlo, tramite gli occhi della mente, con la mia sigaretta tra le dita ed uno sguardo austero. Sollevo gli occhi al cielo, dinanzi l'orrore di queste parole brutali.

«Va bene, padre.»

«Anche te, Ian. Vuoi prendertelo un consiglio gratuito? Non seguire affatto l'esempio di Francis, e vedi come sarai felice. Per tutto, non solo per il fumo.»

Sta per caso scegliendo dei sostenitori? La sicurezza che raggiunge Ian poco dopo mi disgusta.

«D'accordo, signore!»

«Riposo, soldatino di legno.»

Un veloce flashback passa dinanzi ai miei occhi ed ospita la voce di Samuel, il suo sorriso malignamente divertito mentre mi cammina dinanzi. Vuole che mi eserciti, che mi abitui il più possibile ad ogni pressione mentale e fisica che esercita su di me. Nonostante le sue poche parole, riesco a notare il palese orgoglio che prova per le mie vittorie, l'affetto, le aspettative.

"Riposo, giovane soldato".

Il campanello dell'ingresso suona destando l'attenzione di mio padre che si scusa con i ragazzi e raggiunge il portone. Non riesco a scorgere il volto dell'uomo presente dietro a quel divisorio, dal momento che Richard tiene la porta tanto socchiusa da poter garantire solo il filtraggio di un piccolo spiraglio di luce all'interno dell'ingresso. Le voci, inoltre, sono tanto basse da non essere udibili nelle parole quanto solo nella sonorità ma la conversazione è breve e destinata ad interrompersi dopo sole poche battute.

Il mio finto padre richiude la porta dinanzi a sé e poi si volta, trovandomi sorridente a pochi passi.

«Chi era?» Gli domando, nella più totale tranquillità e difeso dall'aroma di nicotina che mi fa da corazza e che costringe il suo naso a storcersi di lato.

«Niente di cui ti dovresti interessare.»

«Altri segreti?» Commento con ironia, generando anche il suo divertimento.

«Tu non ti arrendi mai, non è vero?»

Il silenzio che ne consegue lascia vivo il battere feroce del mio cuore mentre fisso i suoi severi occhi blu e lo sguardo con cui, senza ritegno, fronteggia me e tutto ciò a cui credo.

«Mai.»

«Beh, dovresti farlo. Specie avendo capito di non essere mio figlio e quanto poco sia riuscito ad apprezzarti per tutti questi anni. Dovresti imparare a correre da Damien, invece. Tra malati di perversione vi capite.»

«Ci sono molti tipi di perversione diversi. E credo che ogni sfaccettatura del mio lato peggiore io l'abbia presa da te.»

«Come mai ritieni questo?»

«Per il tuo modo di odiare, padre. Per la codardia che hai nel nasconderti. Per la ferocia che dimostri come tua sola arma e forza.»

«Senti che belle parole... non devi avermi apprezzato nemmeno tu per molto tempo.»

«Mai come adesso ho capito quanto ti disprezzi.»

«Allora devo essere il solo uomo che tu non sia riuscito ad amare. Come si chiamava il primo? Gyasi? Una fortuna scappare dal tuo affetto vista la maledizione che comporta. Chissà se quello nuovo, Ryan, sarà capace di fuggire da essa o finirà anche lui sotto le macerie del tuo enorme coraggio... sai, fare dei passi indietro non mette al sicuro solo te ma anche tutti gli altri. Non vedi che dolore sta subendo tua madre? Rinuncia a questa ridicola testardaggine e torna a coprire il tuo ruolo di figlio perfetto. Godevi, no?, nell'essere il migliore. Caleb che vive nella tua ombra... tua madre che ti rispetta come se fossi il capo famiglia...»

«Che cosa mi stai chiedendo, esattamente?»

«Rinuncia al tuo lavoro, al tuo amore, al legame con tuo zio e torna a casa.»

La paura delle azioni che ho compiuto lo hanno portato molto lontano se la conseguenza è stata quella di fargli avanzare una simile richiesta. Ancora una volta maschera le sue intenzioni ed utilizza i miei affetti per poter avere il controllo.

«Mi stai chiedendo di arrendermi» sussurro con falso divertimento, fissando negli occhi l'uomo che più di tutti desidero spedire in un carcere. «Non lo farò. Non rinuncerò, mai.»

«Sei solo un ragazzo egoista e testardo.»

«No, sono l'unica persona che non sei riuscito a controllare ed è questo a farti arrabbiare ma dovresti provare ad abituarti. Non avrai il mio rispetto né la mia comprensione. Non chinerò la testa, mai.»

E questa è la vera libertà. Non avere fili. Non avere catene. Lasciare questa casa con la possibilità di avere ancora una scelta e quando la notte cala, protetto da una casa che è diventata un nuovo nido, avere la completa autorità per poter fissare negli occhi una persona amata mentre compie gesti comuni, di vita quotidiana.

Osservo Rais posare gli ultimi piatti asciutti con un panno al di sopra della propria testa, sul posto a loro designato nella credenza, nel più completo silenzio con cui è solito svolgere una simile operazione. Lo osservo e non penso a nient'altro, solo alla forza che il suo amore mi da, solo al coraggio che la sua fragilità mi ha permesso di possedere per tornare a vivere.

Mi sollevo da questa seduta che mi ha visto immobile ed in silenzio per tutta la serata ed afferro il telefono, imposto la canzone. Arrivo a lui incentivandolo a far cadere lo straccio a terra mentre le prime note riecheggiando nell'aria e poi lo ospito tra le mie braccia.

Rais si lascia guidare ed è così che nel soggiorno, in maniera lenta, balliamo sulle note di questo valzer. Non sono un ballerino impeccabile ma ho già avuto modo, per scherzo con Amy, di danzare sopra questo ritmo ma mai con amore. Mai fissando negli occhi, senza ridere, la persona che sto stringendo tra le braccia.

"Ti amo", gli dicono i miei occhi mentre i miei passi lo conducono. "Ti amo perché, per quanto le persone possano credere il contrario, sei tu la mia roccia. La persona più forte che conosca. L'uomo che amo, più di me stesso".

Il volto di Rais si posa sulla mia spalla, non riuscendo a sostenere lo sguardo disperato che la mia triste mente gli direziona o forse nel solo desiderio di poter respirare il mio profumo.

È un ballo di conquista, una danza nata nel reciproco amore ed è così che mi sento, stringendo Rais a me. Indistruttibile contro tutto il resto, svuotato di ogni male. Libero..unicamente di amare.

Lascio che la sua schiena si inclini sotto il controllo delle sue mani, permettendo al suo collo di rivolgersi all'indietro in questo casquet al termine della musica al seguito della quale ci raggiunge un silenzio fatto solo dei nostri sguardi.

"Ti amo, Rais. Ed è per questo amore, per quello che mi hai insegnato, per la terra che ci ha visto nemici e che ora ci trova amanti, che detestiamo, amiamo, rispettiamo allo stesso tempo, che ha visto i nostri sorrisi e le nostre lacrime che ora non mi arrendo. Stiamo producendo un cambiamento, io e te, la droga tra le strade è scomparsa ed è sparito per sempre il dolore di una dipendenza insana."

Ti amo ed è per questo motivo che ho la forza ancora di lottare.
Lottare per l'amore e per la libertà.

Una settimana dopo
P.O.V.
Francis

Le mani perdono la concreta tangenza con la realtà dei fatti presentata dai nostri risvolti sul caso. Si confondono all'interno delle maligne parole pronunciate una settimana prima da mio padre nella sua richiesta di una mia resa.

Il mio rifiuto aveva comportato un notevole sviluppo nelle forze d'azione della centrale, tanto da farmi guadagnare un soprannome tra le scrivanie di questo posto, nello stesso trattamento che era stato riservato ad Attila.

Sono stato soprannominato "Icaro", niente di più appropriato. Un uomo che desiderava raggiungere il sole senza accorgersi dei propri limiti fisici ed umani. Aspetto solo il giorno in cui le mie ali si scioglieranno nella loro cera ma fino a quel momento... continuo a lottare.

La resistenza è la sola azione che mi fa perdere l'ossessione per il tremore delle mie mani e per la stanchezza fisica del mio corpo: niente è più importante quando le indagini sono tanto vicine e la speranza di trovarlo è a portata di mano.

«Francis!»

Un uomo dell'equipe di Carlail mi richiama con un cenno della mano, unito a quella voce rotta. Feroce e triste allo stesso tempo. Mi rialzo velocemente dalla postazione e raggiungo la sala adiacente agli interrogatori, dove tutti mi stanno aspettando.

La nuova guardia della squadra di Bennett, o meglio il capitano a controllo di tutta quella che sembra essere stata la struttura gerarchica a protezione della casa del dottore, mostra un sorriso al nostro collega che gli è seduto dinanzi, pronunciando parole che sono certo si sia trovato a ripetere.

«Parlerò solo con Francis Dawson.»

Volgo la testa verso Carlail, cercando il suo consenso.

«Vai.»

Esco a passi lenti dalla stanza, accorgendomi di stare tardando l'eventuale scontro con la realtà.

Ognuno di noi aveva perso le speranze ed in fondo al cuore aveva sperato nella morte di Attila poiché le ore trascorse senza trovarlo, le giornate, pesavano sulla nostra coscienza nell'ipotesi delle atroci torture che può essere arrivato a subire. Nove giorni. Nove giorni sono un tempo eterno tra le mani di un uomo che cerca vendetta.

Arrivato nella stanza degli interrogatori provo a dimenticarmi di tutto. Allontano questi pensieri mentre mi siedo dinanzi la provocazione di questa guardia, la sola che non sfoggia l'impeccabile divisa monocromatica con la quale li abbiamo visti sfilare ma degli abiti informali che mi fanno supporre sia stata al fianco di Bennett per tutto questo tempo, proteggendo il suo capo finché non è stato proprio lui a mandarla qui per parlare con me.

Cerco l'autocontrollo e lo trovo nel silenzio, scostando la sedia vuota di fronte lo sguardo attento dell'uomo. Ho preso posto a questo tavolo infinite volte, fronteggiando criminali e provocando le loro ossessioni con azioni all'apparenza casuali. Avevo accolto, persino, l'arrivo di Dalia Ester un giorno e con lei avevo imparato che cosa significasse confrontarsi con un nemico per la quale astuzia si nutre del rispetto ma mentre vedo negli occhi di quest'uomo... altro non riesco a scorgere che una malignità priva di eguali, nata solo dal suo essere una macchina. Prima d'ora avevo scorto una simile espressione solo in certi momenti nello sguardo di William ma mai in nessun altro e captarne la vacuità che dona allo sguardo...

«Sono felice di poterti parlare» parte lentamente con il dire, sorridendo complice nella mia direzione. Osservo quello sguardo a suo modo divertito, cercando di preservare il controllo.

«Per quale motivo? Mi conosci?»

«Sono cosciente di essere scappato da te, per tutto questo tempo.»

Il che significa di come Paul Bennett e Dalia Ester si siano accorti della mia presenza sulle loro tracce già durante la copertura di Attila.
Ticchetto le dita della mano sul tavolo in ferro, solo per cercare di dare un ritmo alla concentrazione.

«Io, invece, non so con chi sto parlando» confesso, sapendo troppo poco sul suo conto.

«Hans Roth, membro onorario del corpo dei Marines.»

«Forze armate, dunque. Un collega.»

Sorride del mio approccio informale, avendo capito che la mia possa essere solo una tattica per entrare a stretto contatto con la sua mente estranea.

«Sta cercando di stabilire un contatto, collega

«Sto solo provando a capire il motivo per il quale, tra tutti questi fantastici agenti, è stato fatto il mio nome per poter presenziare a questa confessione.»

«Semplice rispetto e perché è stato Paul Bennett ad ordinarmelo.» Resto in silenzio, pronto ad ascoltare le sue parole. «Il vostro collega, Attila, è vivo e potete riaverlo indietro.»

Oltre il vetro che divide le due sale, nonostante il silenzio, appare come udibile il sospiro di sollievo di Carlail.

Io, invece, proseguo a rimanere imparziale, sfidando questo marines con la sua stessa concentrazione.

«Gentile da parte del dottore non porre alcuna condizione...»

«Ovviamente una condizione c'è: dovrete consegnare qualsiasi prova Dalia Ester abbia fornito contro di lui e rinunciare alla sua cattura. Solo in questo modo potrete riavere indietro il poliziotto.»

«E come possiamo sapere se è un accordo conveniente?» Replico, destando la sua curiosità che mi consente di stringermi nelle spalle. «Attila può essere già morto ed essere divenuto una pedina nelle vostre mani.»

«Ma non essendo questo il caso non potete essere certo voi a decretare la sua fine, no?» Capendo come io stia cercando delle prove, il soldato sospira profondamente, allungano le mani incatenate dalle manette al centro di questo tavolo. «Possiamo scendere ad un compromesso ed accettare di avere le prove solo una volta che Attila sarà stato consegnato. E se ve lo state chiedendo siamo consapevoli di poterlo fare senza correre rischi perché consapevoli di poterlo riprendere tra le nostre fila senza troppa fatica.»

Sorrido, pieno di malignità, nell'udire queste parole. «Questo perché avete delle spie all'interno del nostro distretto, non è vero? Più di una.»

Hans inclina la testa, senza voler rispondere in un primo momento ad una domanda tanto diretta. «Voi avete i vostri metodi e noi abbiamo i nostri.»

«Qualsiasi siano i vostri non vi consentono di avere accesso diretto al materiale di cui chiedete di entrare in possesso.»

«Siete delle teste calde, tutti quanti in effetti. Persino Attila i primi giorni ha protestato tanto sotto le mie cure...»

Stavolta la mia mente obbliga la voce a tacere per non poter cedere alla provocazione ma il soldato che ho di fronte è pronto a marciare sopra il cuore di tutti noi, procedendo con un discorso che sembra essersi preparato già da tempo.

«Volevamo delle risposte dirette, in un primo tempo. Continuavamo a chiedergli quanto la polizia sapesse di noi e fino a che punto... dopodiché è intervenuto il divertimento. Non ci interessava più di ottenere risposte ma solo di vedere sanguinare la sua pelle. Appeso con dei ganci per le mani al soffitto, ad un tratto osservarlo era come vedere una copiosa cascata di sangue, uno spettacolo unico. Avevo smesso di compiere il mio lavoro quando erano terminate le domande, dopodiché era intervenuto Paul. Lui sa come colpire, sa anche che parole usare per abbattere la mente di una persona... e guardarlo era quasi divertente. Aveva iniziato a tagliare la sua pelle, pezzo per pezzo. Lasciava, con una lama, incisioni profonde un centimetro, dopodiché aveva iniziato a giocare pesante. Era passato alle botte continue, ad ogni ora del giorno, dopodiché al fuoco incandescente... penso che un ferro particolarmente appuntito si sia avvicinato troppo alla retina del vostro amico.»

L'uomo ride. Ride. Mentre nella mia mente si manifesta l'orrore creato dalla descrizione di simile scene. Alla visione del mio mentore privo di forze, legato ad un soffitto, arrivato a chiedere forse la morte, al posto di simili torture.

«Proprio così, la vostra aquila ha perso un occhio. Ed ha anche una brutta infezione dovuta al continuo movimento della pallottola all'interno del costato. Quando l'ho lasciato aveva anche un braccio rotto ed taglio molto vicino all'arteria femorale... ma Paul conosce quali punti possano essere davvero vitali...»

Mi alzo di scatto dalla sedia, rendendomi conto di aver ceduto alla provocazione del suo gioco. La voce torna alle mie labbra con un tono freddo, saturo però di tutto lo schifo che queste persone si portano nel cuore.

«Avrete le prove consegnate dalla Ester non appena noi riavremo lui indietro.»

«Affare fatto, poliziotto.»

Esco dalla stanza l'istante dopo che le sue parole sanciscano un simile contratto, senza curarmi delle voci che mi raggiungono al seguito.

«Francis! Francis, aspetta!»

«Francis, torna qui!»

Non riesco ad avere il coraggio per tornare da loro, rivedendo dietro la retina la continua scena di quelle orribili torture nei confronti dell'ultimo uomo, sulla faccia della terra, a cui desideravo fossero rivolte.

Raggiungo la palestra del distretto continuando a vedere di fronte a me il suo corpo venire reciso dai tagli, la sua bocca gridare nonostante prima d'ora non lo abbia mai sentito supplicare... ma il dolore deve essere stato troppo. Il fuoco troppo incandescente, la lama troppo affilata, la voce di Paul troppo malvagia nel fargli credere bugie ed informi dose di certezze che devono averlo distrutto.

Sono stanco di tutto questo orrore che si nasconde nei loro cuori. Stanco dello schifo che il loro odio rappresenta. Delle loro pistole, lame, droghe. Della loro vendetta. Del loro sadismo e del loro modo contorto di amare. Sono stanco di tutto questo. Stanco di doverci ancora convivere.

«Che accidenti hai, si può sapere?»

La voce che me lo domanda appartiene all'ultima persona al mondo che in questo momento dovrei vedere di fronte ai miei occhi e che sembra covare come del rancore nei miei riguardi.

Quasi mi viene da ridere per gli occhi confusi ed arrabbiati di William ma l'istante dopo non me ne importa niente. Mi abbatto su di lui con un feroce pugno che la sua sorpresa non riesce a parare ma poco dopo che il sangue raggiunge il pavimento di gomma il feroce assassino dai capelli color dell'oro decide di caricare il suo colpo. Mi risponde a tono, abbattendosi sulla mia faccia mentre tento di colpirlo sul costato, nel punto in cui la pallottola ha ferito Attila, e nel darci contro ci respingiamo con ferocia prima di tornare ad attaccarci di nuovo.

Sono stanco che tutto questo schifo mi sia vicino. Stanco di averlo nei miei giorni.

La mano mi trema prima di costringersi in un nuovo pugno che torna ad abbattersi su di lui, che lo imprigiona e ci costringe ad una veloce mossa marziale di cui non ho dimenticato le regole. L'abbiamo imparata all'accademia per cui sappiamo entrambi come cadere, come lottare per poter avere il controllo sul braccio dell'altro e mandare il corpo dell'avversario a tappeto. La guerra è sfibrante perché formata da due entità troppo simili. Due forze che si rispondono a vicenda in una medesima coordinazione di gesti che da alla nausea, ma se William combatte per potermi scrollare di dosso io, invece, combatto per vincere.

Riesco a colpirlo con un affondo particolarmente violento che mi lascia libero di vederlo agonizzare al suolo mentre mi rialzo in piedi, sfinito da questo confronto pur rimanendo consapevole che le sue forze, invece, non si sono del tutto esaurite.

William si rialza in piedi, scrollandosi via il sangue dalle labbra con un movimento veloce della mano ed un interrogativo nello sguardo che riceve presto le mie risposte.

«Ti avrei detto che avrei scelto da che parte collocarti, una volta che avrei capito che genere di persona tu fossi» mormoro, catalizzando la sua attenzione mentre i nostri respiri rotti riempiono l'aria. «Per cui corri. Corri più lontano che puoi da qui perché continuerò a cercarti fino ad ucciderti. Proprio come è morta Dalia morirete tutti voi.»

Gli occhi di William sgranano nel prendere consapevolezza di quanta verità io abbia in mio possesso mentre la tortura di Attila continua a passarmi davanti agli occhi.

«Corri... corri, Wiliam! O giuro che dovrò ucciderti.»

Aveva pensato che fossimo alleati. Aveva creduto che fossimo fratelli. È questo che c'è nel suo sguardo adesso, un'illusione con la quale aveva convissuto per tutto questo tempo quando in verità non avevamo fatto altro che puntarci la pistola contro a vicenda. Aveva perso di vista la verità di questa situazione non appena Dalia era morta ma ora... tutto è tornato al proprio posto, in un delirio tale da lasciar ricollegare i nemici nei loro campi di battaglia.

Sei mio fratello, penso, mentre si risolleva eretto con la schiena per potermi fissare con il respiro rotto. Sei mio fratello, quindi impara a scappare.. altrimenti non sarò colpevole delle azioni che arriverò a compiere.

«Sai che cosa dicono le persone, riguardo a noi?» Scuoto lento la testa, interessato il poco che basta a una simile domanda. Degli altri non mi è mai importato e forse lo capisce, perché arriva a sorridere chinando il capo. «Che sembriamo come fratelli.»

Un piccolo silenzio accompagna la riflessione alla quale ero riuscito a giungere già da solo. «Si tratta di una cosa molto importante, per me.» Ammetto, attirando di nuovo i suoi occhi attenti.

«Anche per me. Non ho mai avuto un fratello, prima d'ora. Di sangue o meno che fosse.»

«Quindi vuoi dirmi che non ne sei infastidito?»

«Tu lo sei?» Chiede di rimando, assumendo una posa maggiormente composta mentre mi analizza.

«Per me non è importante quello che pensano gli altri, ma ammetto che questa sorta di fratellanza non è spiacevole.» Riesco a farlo sorridere. Lo noto, per quanto William tenti di mascherarlo.

«Già... proprio come un riflesso, eh?» Commenta, sollevando la testa e sfidando apertamente la medesima posa che hanno assunto i nostri corpi. Sorrido, perché è vero che è divertente.

Scappa, William... perché altrimenti non saprei come perdonarti.

I passi del sicario sono lenti mentre si allontano da me, abbandonando la stanza e gettando al contempo a terra il distintivo e la fondina d'ordinanza, lasciando alle spalle la polizia ed infrangendo per sempre il legame che ci teneva uniti.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro