Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

90- Essere diversi

"Solo se riusciremo a vedere l' universo
come un tutt'uno in cui ogni parte riflette la totalità
e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità,
cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo."

Tiziano Terzani- Lettere contro la guerra

P.O.V.
Gareth

Nell'indescrivibile confusione che genera il tempo il ricordo assume il ruolo di unico e vero narratore all'interno di un gioco troppo spesso incline ai fraintendimenti, dati da menzogne o mancate verità. Ricordo, per esempio, di avere sempre odiato la mia città perché considerata un luogo senza onore, dove la fame minacciava, per paradosso, di portarti via l'appetito assieme alla dignità, rendendola simile ad un invisibile punto cardinale che le carte geografiche erano solite dimenticare e data la mancanza di carattere risultava quasi impossibile definirsi.
Mentre invece in questo posto... il South Side è come popolato di gente ferita e arrabbiata, in grado di celare dentro di se una realtà più dolce che poi viene definita fragilità. Non saprei come altro descriverlo altrimenti ma tutti loro possiedono lo stesso sguardo ed è come se scegliessero volontariamente cosa far trasparire, in base alle situazioni.

Ad offrirmi l'esempio per una simile teoria è proprio Ryan che, uscendo dalla centrale con le mani nelle tasche dei jeans e passo calante, non si vieta di accaparrarsi il diritto di guardare nella mia direzione con sguardo minaccioso. Puro odio. Non riesco a comprendere a cosa sia dovuto ma ricambio semplicemente lo sguardo, volendo mantenere il contatto visivo affinché sia chiaro come da parte mia prevalga la confusione piuttosto che la rabbia.
Per un istante mi chiedo anche che cosa ci stia facendo da solo e se sia pronto ad avvicinarsi a me per parlare, senza bisogno di tutte queste supposizioni, ma l'uscita di Francis dalla centrale mette a tacere ogni altra eventualità.

«Sono arrivato qui in tempo?» Gli domando, notando la fretta che sembra insorgere latente nelle sue mosse.
Francis si osserva attorno, infatti, con circospezione per i secondi necessari a farmi quantificare i minuti restringenti attorno a noi, l'orologio che ha al polso, prima di rispondermi.

«Grazie per esserti presentato. Ho fatto accomodare Hasim dentro, non preoccuparti.»

Spostando gli occhi da Francis riesco a notare Ryan, distante alle sue spalle, appoggiato alla corteccia di un albero con le braccia conserte. Mi sta ancora fissando con quella sua espressione di odio e sospetto, sconosciuta a chi come me è rimasto un mero estraneo.

«Che cosa non va in lui?» Francis volta la testa per un istante nella sua direzione, ma torna presto verso la mia per potermi rispondere. Sospira profondamente prima di offrirmi delle spiegazioni.

«Temo che si sia fatto un'idea sbagliata su diverse questioni, o che qualcuno si sia assicurato che lo facesse, ma ora non è questo l'importante.»

Il consiglio del moro è silenzioso: allontanare lo sguardo dal suo protetto, suggerendomi l'ipotesi di focalizzarmi su di lui che nel frattempo estrae da sotto il braccio una cartella che non avevo notato, poco prima di affidarmela.

«Che cos'è?» In attesa della sua risposta inizio a sfogliarla, trovando dei documenti polizieschi ma anche numerose pagine fotocopiate di quelli che credo essere appunti scritti a mano, su di un quaderno dalla rilegatura giapponese.

«Un caso su cui sto lavorando da anni.»

«Vuoi un aiuto da me?»

«Non proprio, voglio che lo conservi innanzitutto e lo porti lontano da qui.»

Arresto le mani dall'azione data dal ruotare quei pochi fogli per notare come Francis stia facendo scudo a quei documenti con il proprio corpo, nascondendoli alla vista del terzo spettatore della scena.

«Che cosa succede?»

Sì, parte dell'anima delle persone del South Side si rileva non appena sono loro stessi a decidere di far cadere ciò che la celava ma mai prima d'ora avevo assistito a tale mutamento mentre stava per compiersi, né mai vi avevo scorto così tanta apprensione o turbamento.

«Avevi ragione, Gareth. William non è l'uomo che credevamo, per questo non posso tenere alla centrale materiale simile. In questo modo, se tutto andrà male, saprò che queste prove sono al sicuro.»

«Mi consideri il tuo contatto di emergenza» noto, riuscendo a farlo sorridere in modo triste. «Quanto è grave?»

«Molto.»

«Anche Ryan è coinvolto?»

La sua testa si volta appena, nuovamente, nella direzione del chiamato in causa. Questi lo nota e solo per un istante perde la rigidità della sua espressione maligna.
Anche la sua maschera sembra essere caduta. Pare... che possa cadere solo se è Francis ad ordinarlo.

«Sto tentando di fare in modo che non lo sia.»

Gli istanti di silenzio che susseguono poco dopo devono essere stati il fattore in grado di ridestare la sua curiosità. Eccolo tornato tra di noi, il poliziotto astuto ed invidiabile, tanto bravo da riuscire a muoversi con un anticipo non visibile a noi altri.

«Non mi chiederai spiegazioni di che cosa c'è all'interno?»

«Me le offriresti?» Domando di rimando, assistendo quindi alla battaglia che si genera in un attimo nel suo corpo.

Mai prima d'ora lo avevo visto tanto indeciso, come in bilico nel vivere le emozioni accaparrandosene il diritto per farlo. Qualunque altra persona che lo apprezzi per la sua intelligenza credo potrebbe risultare intimorita nel vedergli sfoggiare dell'insicurezza perché abituata a vivere nella sua idolatria ed infallibilità.

Per me è diverso. Vivere al suo fianco in questi ultimi due anni, giorno dopo giorno, notte schiarita da una piccola luce al di sopra del letto dopo notte, mi ha concesso di spiare nel suo animo ciò che l'apparenza aveva nascosto sotto uno spesso strato di intelligenza, facendomi accorgere che Francis non è infallibile affatto.
L'intelligenza non può cambiare tutto questo, perché Francis è umano, nonostante il suo carattere si presenti come quello di un mito o di un supereroe dei giorni nostri... ma in fondo, che cosa sono tali leggende senza la loro umanità?

Credo che sia per questa mia consapevolezza che Francis abbia scelto me come affidatario dei suoi segreti.
Ryan conta troppo su di lui, così come la polizia e la città che punta tanto a difendere. Io non gli ho mai chiesto niente, né mai ho preteso protezione perché cercavo altro: un amico. In una vita di solitudine ed affetti traditi volevo solo un rapporto stabile, caratterizzato dalla somiglianza.
Siamo sullo stesso piano ed è per questo motivo che quando la sua voce torna lenta tra di noi lo fa approcciandosi ad una scelta. Calata la maschera, altro non resta che la verità.

«William Davies in verità è William Lee, il figlio del mafioso al quale stiamo dando la caccia e dal quale proteggi Hasim. È tutto scritto qua dentro.» Solleva le carte tra di noi per dimostrarmelo ma i miei occhi sono già schizzati, preoccupati, all'entrata del distretto assieme ad un milione di altri pensieri. «Lui non c'è. Arriverà tra poco, per questo motivo devi andartene» mi torna a far presente.

L'importanza di quelle lancette d'orologio diviene palese ed accompagnata da un'insieme di altre supposizioni.

«Hai allegato assieme alle prove i tuoi appunti» constato, ricordandomi di quel diario che portava sempre con sé persino durante il servizio militare. «Potrai ancora farlo?»

«Stabiliremo un giorno ed un luogo dove incontrarci. Cercherò di non lasciare niente di scritto per evitare che William lo trovi e lo alteri ma avrò bisogno di riferirtelo in modo da non dimenticarlo. E tu, a quel punto, lo trascriverai per me e completerai questa cartella.»

«Dove e quando?»

«Ogni giovedì, dietro l'oratorio, alle sei. Adesso vai.»

Comandato da quell'ordine intimorito dalla paura, chiudo il dossier per poi nasconderlo all'interno della giacca, il solo modo che ho per evitare che si noti una volta rientrato nella centrale per prendere in custodia Hasim. La voce di Francis mi arresta prima che possa compiere i giusti passi verso l'edificio.

«Gareth... grazie.»

La gratitudine di un supereroe può renderti parte della leggenda, ma quella di un grande uomo... ti nutre del vero sapore della giustizia.

P.O.V.
Dalia

Il liquido di questo stretto e piccolo lago è di una gradazione cromatica tanto scura da non garantirne la trasparenza.
Potrebbero esservi nascosti molti segreti ma da dei lunghi minuti ormai la superficie non assorbe che i miei silenzi.
Attorno a noi il mondo è caotico, disordinato e quasi caratterizzato da assordanti sovrapposizioni di suono che creano solo una confusione niente affatto apparente.

La circonferenza di nero splendore è la bocca di questo calice sul balcone che urla disperata la vicinanza alla mia bocca ed i silenzi generati semplici presenze attorno ad essa, simili a risultati di un auto isolamento in grado di estraniarmi dal resto della sala.
Ricerco la mia solitudine ma è solo apparenza perché nell'oscurità di questo liquore non trovo altri che la gradazione degli occhi di lui, quei traditori che tanto bene sanno fingere di amarmi.

Crudele, una mia unghia passa ad accarezzarli, quasi nell'intento di ucciderli con lente rotazioni nel loro riflesso, ma niente da fare. Samuel ancora mi destabilizza nell'accarezzarmi con quel suo sguardo di riflesso, tanto da farmi chiedere quanto spazio debba mettere fra di noi allo scopo di non provare tutto questo male.

«Se avessi saputo che avresti iniziato da sola sarei passata prima. Riesci sempre a deprimerti quando non hai nessun compagno con cui bere.»

La bocca mi si storce in un sorriso triste nell'udire la voce di lei, incapace di cambiare nel corso di questi anni. Rimprovero ed ironia mescolate insieme tanto a fondo da provocare della rassegnazione. Se solo non mi avesse dato della depressa avrei ordinato un altro drink dai vividi colori accesi di un estate tropicale, qualsiasi cosa pur di allontanare l'oscurità di quelle iridi che mi avevano assorbita.

«Sono contenta di rivederti» le dico, captando con la coda dell'occhio le sue movenze eleganti ed i corti capelli ricci.

«Pensavi forse che non mi sarei presentata?»

Questa domanda porrebbe su un piatto d'argento una mia risposta secca riguardo le sue abitudini ma ha ragione, a stare qui mi sono depressa.

«Credevo avresti avuto da fare.»

Compie il veloce e consumato gesto di accendersi una delle sue lingue sigarette dal sapore di fragola per poi aspirarne un'avara boccata e gettare la testa indietro, mossa che per altro le ho visto compiere un'infinità di volte e che al momento mette in luce l'incrollabile amicizia nata tra di noi nel corso di tutti questi anni.

«Conosci il mio genere di affari. Considerati il migliore dei miei appuntamenti.»

Nell'istante stesso in cui la sua frase termina, un uomo sulla trentina passa vicino a noi e rivolge uno sguardo troppo privo di pudore al profondo taglio dello spacco laterale del suo vestito. La mia amica sorride, avvicina smaccata alla bocca la sigaretta ricambiando l'attenzione dell'uomo e facendomi ricordare una delle sue considerazioni più sconsiderate.
"Il mio lavoro non ha orari né età".

«Se è davvero così allora dovresti concentrarti solo su di me, non pensi?» La riprendo, catturando immediatamente i suoi occhi.

«Come la piccola fata desidera» sussurra, facendo riferimento a quella fiaba della buonanotte del principe cinese che avevo raccontato a Tommy ed iniziando ad avvicinarsi tanto da posare una sua fredda e liscia mano sulle mie gambe nude.

«Non era questo che intendevo» le dico ma non si da per vinta. Procede nell'accarezzarmi con la stessa gentilezza avuta da quando eravamo piccole e le mie ferite, provocate dalla disattenzione, richiedevano un suo contatto.

«Ed io che mi ero illusa che dopo tutti questi anni finalmente avresti ceduto...»

Il divertimento, nascondiglio della reale tristezza, le assottiglia gli occhi rendendoglieli tanto luminosi da rischiarare l'intero locale buio e triste nel quale vengono racchiusi desideri infranti.

«Utilizzi il mio vero nome per le tue sporche faccende», sussurra mentre con gli occhi segue le dita che ancora stanno accarezzando la nuda pelle solcata dai graffi di quella voce smorzata, «mi richiami in questo locale dopo anni e non vuoi darmi nemmeno una soddisfazione?»

«Nathalia...»

«Lo vedi? Utilizzi il mio nome solo per delle richieste...»

«Natalie...»

A quel richiamo generato dall'utilizzo del suo soprannome, solleva gli occhi e rimane concentrata su di me, ferita da come, in poco meno di un attimo, abbia ricordato a entrambe il cambiamento innescato nelle nostre vite da quando l'innocenza è andata perduta per sempre.

In risposta, la sua fredda mano si allontana e la compostezza raggiunge la mente della mia amica prostituta che adesso pare maledirsi di essere arrivata fin qui.

«Che cosa accidenti vuoi? Avanti, dimmelo.»

«Uso il tuo vero nome solo per preservarne il ricordo. Fingo di essere una giornalista unicamente perché era il tuo sogno, non c'è alcun secondo fine, tantomeno il desiderio di macchiarlo dei miei affari sporchi.»

«Ho saputo che sei tornata con il tuo quasi marito» sibila, lasciando uscire il fumo della sigaretta dall'angolo delle labbra come una locomotiva sfrecciante sulle sue rotaie. «Ho pensato che mi avessi cercata in preda ad un ripensamento.»

«Lo sai che lo amo» sussurro con la consapevolezza di quanto questo possa ferirla, e lo fa infatti. Nathalia si esibisce in una mezza risata strozzata priva di qualsiasi sorta di forza e tenta di non incontrare in alcun modo il mio sguardo.

«E sai quanto io ami te...» la avverto a malapena dire, con quel poco coraggio che le resta per mormorare. Le sue fragili spalle ossute, ampie nella loro estensione ma costantemente spoglie di stoffa, ora appaiono come afflitte, incapaci di sostenere quel carico che per molto tempo erano riuscite a erigere. Tale pesantezza le trascina fino a terra, rendendola incapace di rivestire quella grinta con cui aveva ricambiato l'indesiderata occhiata dell'uomo che l'aveva presa di mira.

«Sono venuta qui per vederti, Nathalia, e per chiederti un favore. So di non averne il diritto, ma...»

«Puoi chiedermi ciò che vuoi. Mio malgrado starò a sentire...»

La sua resa è tanto forte da provocare un ritardo alle mie parole.

«Ho bisogno che tu tenga sotto controllo William, il figlio di Richard Lee, perché io non potrò più farlo. Devo tenermi alla larga da quella famiglia per mettermi al sicuro, è la cosa migliore.»

La verità, però, è che a Nathalia non posso dire molto altro. Non posso raccontarle del piano di vendetta contro Attila, né dirle della mia paura verso ciò a cui questo mi condurrà, il desiderio di mettere in sicurezza i Lee prima che le mie azioni possano danneggiarli.
Sto tentando di mettere apposto le cose, in maniera lavorativa o umana che sia. Altro non è rimasto che garantirmi il benessere di William.

«Il figlio di Sarah Davies, la maitresse del SaPlaya?» Annuisco, costatando la sua confusione. «Che cosa ti aspetti che faccia?»

«Per quanto possa apparire insensibile, William ha un carattere molto insicuro ed incline alle ricadute. Ho bisogno di sapere che tu sarai lì a confortarlo e a tenerlo sotto controllo ogni volta che ne avrà bisogno.»

«Questo è quanto?» Annuisco per la seconda volta, vedendo insorgere la sua rabbia latente nell'esposizione di un piccolo sbuffo di nicotina. «Immagino tu me lo stia chiedendo in modo tale da potertene vivere felice e lontana da tutti noi con il tuo futuro marito ed un'infinità di figli.»

«Nathalia...» la rimprovero con dolcezza e rassegnazione, ma la mia piccola beffa non basta. «Ti ho confessato di amarlo ma non ho ammesso di essere ricambiata...»

«Ed è un emozione amara, non è vero?»

Il veleno con cui pronuncia una simile affermazione mi fa sorridere in maniera sincera, per la prima volta in tutti questi mesi.

«Più della morte stessa» confesso, rilegando in un angolo oscuro della mente il pensiero di ciò che accadrà una volta che avrò messo a punto il mio riscatto. «Che cosa mi dici, allora? Accetterai?»

«Sì, Dalia, lo farò. Mi prenderò cura del tuo protetto, non hai di che preoccuparti.»

«Grazie...»

Tolta la preoccupazione, il resto dei problemi torna con tanta prepotenza da costringermi a sollevarmi da questa seduta con diffidenza. Mente altrove, bocca serrata e la visione periferica che registra la vista del vuoto calice scintillante abbandonato sul bancone dopo averne inghiottito il liquido scuro e amaro.

«Già te ne vai?»

«Devo, Nathalia. Vorrei poter restare, lo sai.»

«Ma te ne vai. E mi lasci con il mio lavoro, come sempre» commenta, lanciando un'occhiata a quello stesso uomo di poco fa che, dall'altra parte di questo circolare bancone, la fissa in una richiesta fin troppo esplicita e maligna.

Si tratta di un bell'uomo, ma a Nathalia non interessa, specie quando la cattiveria risulta tanto visibile attraverso gli occhi. Mi domando, con giorni di anticipo vista l'imminenza della mia futura azione, cosa penserà di William la prima volta che lo vedrà e se avrà, proprio come me, l'impressione che la mente di quel ragazzo ferito sia stata forgiata da ben altre mani. Le stesse che avrebbero dovuto accudirlo ma che non gli hanno riservato altro che sofferenza e dolore.

La raggiungo in modo tale da fronteggiarla e la mia vicinanza cattura quella fragilità che aveva tentato in tutti i modi di nascondermi. Riesco ad afferrare il suo bellissimo viso tra le mie mani e a costringerla a prestarmi l'attenzione che richiedo. Non esiste altro, nel mondo, oltre a noi quando la accarezzo così. Glielo ripetevo sempre, nei momenti difficili, "non esistiamo che noi". Forse è stato questo a farle scorgere, attraverso il dolore, la profondità dell'amore che da tempo ha covato per me ed io, in risposta, posso dire di non conoscere niente di più puro di questo suo affetto: il resto di ciò che mi circonda è sporcato da infamia e malignità, segreti a cui non vorrei dare una voce o situazioni che sono arrivata a tradire. Paul, Attila e forse in futuro anche Tabansi se mi tradirà. Gli uomini sono una delusione ma Nathalia... lei è stata un'amica a cui aggrapparmi nei momenti di sconforto, quell'ulteriore identità che vestivo come una difesa, ritenendola invincibile non appena desideravo non trasparisse anche la mia di cattiveria.

«Tu sei una donna forte, Natalie, puoi ottenere tutto ciò che vuoi, non importa quanto la vita te lo renda difficile. Sei indipendente e non ti lasci comandare da nessun uomo, questa è la tua forza. Tra tutte le persone che si credono superiori è te che io ammiro, perché hai ancora la possibilità di scegliere. Puoi farlo sempre e questo ti spinge a vincere, ad ottenere tutto ciò che vuoi...»

Il fervore delle mie parole non convince del tutto la sua rassegnazione e dunque è così che permetto alle mie labbra il compito di poterci riuscire.
Poso la mia bocca sulla sua in maniera lenta, l'accarezzo morbidamente e le cedo quel bacio per il quale da molto tempo ha fatto richiesta. Rimango sorpresa dall'innocenza che cela, dal modo con cui questa donna grintosa sembra percorsa da brividi, apparendo timorosa nell'accarezzarmi in risposta.

L'erotica carezza che poco prima mi aveva riservato perde del tutto di credibilità, lasciando il giusto spazio a quell'esitazione con cui, adesso che la mia lingua sta accarezzando la sua, Natalie si concede. Le lascio prendersi tutto ciò che desidera. Concedo all'uomo oltre questo bancone di godersi lo spettacolo, ringraziandola in una sorta di addio per tutto ciò che ha fatto per me.

William sarà al sicuro con lei perché sono certa che non gli permetterà mai di sfuggire dal suo controllo. Questa è la sola cosa di cui ha bisogno, essendo da troppo tempo un cane rabbioso pronto ad essere sguinzagliato contro il nemico.
Suo padre ha fatto di lui un'arma, ma temo che lo capirà troppo tardi, mi auguro... che possa conoscere una sfaccettatura d'amore tramite il contatto con lei. Il mio ultimo lascito, in funzione del nostro reale addio.

In una mossa lenta, lascio per prima questo bacio consentendole di gustarsi il finale, svoltosi ad occhi chiusi.
Dolce Natalie...

«Dalia, ti amo.»

Ha desiderato dirmelo con una voce del tutto priva di fiato e nella paura di aver compreso l'importanza di questo nostro ultimo incontro. Non le importa del lavoro, dell'uomo che ci sta fissando. Desidera solo farmi sapere quanto la sua fedeltà sia rimasta intatta nonostante i miei tradimenti.

«Ti amo anche io, Natalie. Ricordatelo sempre.»

Nel mio cuore può non preservare lo stesso significato che conserva quello di lei ma è pur sempre qualcosa di forte, una certezza incrollabile, per cui ho bisogno che ne sia cosciente per tutto il tempo che staremo lontane.

Ho svolto così tante ricerche sul conto di Francis Dowson da capire quanto un simile momento renda noi due eguali, per quanto opposti sul fronte di battaglia: lui l'incarnazione del bene, io del male ma entrambi uniti dal desiderio di far sapere a chi ci è più vicino quanto di noi sia davvero salvabile, vittime dell'idolatria e dell'aspettativa delle persone più deboli intorno a noi.
Sarebbe stato un'ottima guida al fianco di William, se solo si fosse schierato sul giusto fronte, sarebbe stato incrollabile e tutto questo forse non sarebbe successo. La mia vendetta contro Samuel, contro la polizia, tutto annullato tramite un tradimento di divisa che avrebbe portato Attila al pensiero di poter vivere con me, per sempre.

Eppure ogni storia ha bisogno del proprio bene e del proprio male per poter controbilanciare. Mai prima d'ora però, ragiono abbandonando la presa attorno al volto di Natalie e accarezzandole in un'ultima stretta la mano, quelle due realtà erano arrivate a mescolarsi tanto.

P.O.V.
Francis

Di fronte a me il mare si dibatte in un ballo lento, arginato alla vista dalla conformazione a rombo delle piccole feritoie di queste rete metallica posta a confine di un luogo totalmente vuoto.
Avevo immaginato di aver ben decifrato il messaggio ma forse non è stato così.

Sfioro la recinzione ed ad essa mi appoggio con tutto il peso del corpo caricato sulle spalle, tentando di cercare in questo silenzio una motivazione che possa essere utilizzabile come un'alternativa. Ricevo il silenzio di rimando, accompagnato dallo sciabordio delle onde in grado di farmi riflettere su quanto le correnti siano in grado di portare via ogni cosa.
Era stata scoperta, Nerissa? Per questo motivo avevano portato via da questo rifugio tutti quei bambini?

Temo l'affermazione in risposta a questa mia domanda ed è da lei che fuggo via non appena mi allontano a passo stanco da questo posto per ripercorrere la strada dove era presente quel segnale che tanto aveva generato scalpore alla centrale.
Sollevo gli occhi al cielo ed ecco che poco dopo lo ritrovo: le scarpe di lei e quelle di un piccolo bambino penzolanti nel vuoto, con riportato sulla suola il rosso numero di un incubo che mi tormenta.

Dove sono finiti quei bambini e dove è lei?
Rigiro tra le mani lo scarlatto pennarello trovato vicino a quel piccolo giardino a pochi passi da qui, tentando di trovare un modo per riflettere.

Non era stato facile arrivare fin qui senza generare l'interesse di William. Avevo dovuto fingere distacco, affermare di essere ancora sulle tracce di quei teppistelli che il figlio di Lee aveva pestato a sangue, senza poter rivelare niente sulla possibile connessione della banda con Tabansi. Reggere il confine tra bugie e verità sta divenendo sempre più complicato ma è l'odio che nutro nei confronti di quel Lee che mi ha tradito a permettermi di tenere sotto controllo tutto.

Procedo lungo la ripida salita, passando al di sotto dello striscione cerimoniale rappresentato da queste suole, a caccia di nuove informazioni su questa città al di sopra della quale vige il controllo di Dalia Ester mentre continuo a pensare a William, alle sue bugie, al rischio che Rais corre ogni giorno, ogni ora durante la quale sono costretto a lasciarlo da solo nelle grinfie di quel mafioso.

Nel petto avverto un preoccupante batticuore. I passi si arrestano ed è nell'immobilità di questa nuova preoccupazione che mi rendo conto di essere privo di fiato. La vista appare come offuscata e nella mia mente si genera istintivamente l'idea di un infarto. Tento di capire se il braccio sinistro scarichi del dolore ma è difficile farlo perché un formicolio mi corre lungo tutto il corpo ed è impossibile evitarlo.

Tento di muovermi in avanti, ma non riesco a farlo. Le gambe sono congelate, dura alla stregua della pietra e non rispondono ai miei impulsi, bloccandomi come un piedistallo di cemento lungo questa pericolosa discesa.
Il panico mi raggiunge, assieme all'incapacità di sapere che cosa fare. Vorrei chiedere aiuto ma in un primo momento non riesco a ricordare nemmeno il motivo per il quale mi trovo qui.

Ad un tratto gli occhi registrano la mia mano che si solleva verso il vuoto dinanzi, senza che sia stato io a comandarglielo con coscienza. Noto le dita che tremano e poi, di colpo, mi rendo conto di stare cadendo.
Un passo falso all'indietro ha costretto il mio corpo a venire intrappolato nella circolare ritmica di un'insieme di pericolose capriole lungo la discesa, intrecciando il mio corpo al cappotto e le mie mani alle gambe in un caos al quale non riesco a dare una fine.
Vorrei bloccarmi, far smettere di ruotare terra e cielo ma non riesco a farlo. Cerco di salvaguardare la nuca e riesco ad incassarla maggiormente nelle spalle. Solo questo.

Quando raggiungo il termine della discesa lo faccio in uno schianto duro della mia schiena contro l'asfalto e poco dopo avvertendo il sapore del sangue. Di fronte ai miei occhi vedo solo il cielo, il volo di quale gabbiano.

Voglio alzarmi. Provo a farlo, ma ancora una volta il mio corpo non mi risponde. Non mi do per vinto e lotto, lotto per avere la meglio con il mio stesso corpo. Mi sforzo di tramutare ciò che adesso è rigida corazza in qualcosa di flessibile e morbido. Desidero oscurare la vista di quel cielo, tornare in piedi a svolgere le mie indagini...

Dopo un tempo che pare eterno mi rendo conto che la mano sta sfiorando la bocca e si sta macchiando sui polpastrelli del sangue che ne cola, ma questa volta sono stato io a chiederle di farlo.

Disteso lungo questo cemento torno ad essere proprietario di un corpo che fino ad adesso ho dato per scontato.

******

«Deve essersi trattato dei nervi. Cadere nel modo di cui mi hai racconto non è da tutti e non deve essere stata affatto una sensazione piacevole. Raccontami, stai vivendo un periodo particolarmente stressante? Lo studio? Il lavoro?»

Il mio medico procede con la sua ispezione articolata in una serie di lunghe domande mentre è intento a spegnere quella piccola torcia tramite la quale ha studiato la reazione delle mie pupille, riponendo un insieme di altri oggetti in un piccolo scaffale.
Per la maggior parte dei quesiti non so che cosa rispondere, probabilmente avendo difficoltà di esprimere ad alta voce io stesso ciò che mi sta accadendo.

«Non è niente dottore, non si preoccupi, solo una brutta caduta» rassicuro entrambi, tentando di non passare le unghie nelle zone tappezzate di cerotti. Quella ripida discesa, mescolata ai detriti di strada e dall'incontro con schegge di bottiglie rotte, ha causato non pochi segnali sulla mia pelle ma niente di rotto. Solo una sensazione insopportabile di irritazione.

All'udire le mie parole, il medico solleva pensieroso un sopracciglio per poi aggiornarmi sulle considerazioni rimaste nella sua testa.

«Può darsi, ma preferirei comunque tu facessi degli ulteriori esami. Non è nulla, davvero, ma voglio accertarmi che vada tutto bene e tu non abbia subito alcuna sorta di trauma. Questione di pochi minuti, lo prometto ed inoltre... dovrai comunque passare dall'ospedale per le trasfusioni di sangue del prossimo mese, non è vero? Potresti ritirare anche i risultati.»

Rimango in silenzio al solo scopo di non dargliela vinta su questa ulteriore considerazione ma la cosa finisce solo per farlo sorridere. Probabilmente perché la mia espressione è fin troppo leggibile attraverso la parola chiave della preoccupazione.

«Francis... qualsiasi cosa sia devi sapere che il sangue che hai donato per le trasfusioni viene trattato e ripulito. Non puoi aver recato alcun danno, pur trattandosi di qualcosa di eventualmente genetico, non devi preoccuparti.»

All'udire queste sue parole, il petto si sgonfia d'aria quasi fosse un palloncino di lattice appena punzecchiato dalla puntura di un ago. Deve essere stato per la sua caparbietà che questo dottore è riuscito ad ottenere tutti quei successi incorniciati lungo questa parete bianca, in lunghe scritte latine poste ad elogio. Immagino non abbia mai deciso di arrendersi, innamorato della sua professione e della sua capacità di capire al meglio le persone.

«Tutto ciò è davvero assurdo, potevi anche morire lungo quella discesa ma non hai un solo osso rotto e sembri rispondere anche bene alle sollecitazioni. Devi essere grato della tua fortuna, Francis, e non pensare a nient'altro. Dovresti imparare a pensare più a te stesso che agli altri...»

Peccato che non possa riuscirci, perché in fondo questa è la mia natura che mi ha spinto a non comandare il pensiero verso il terrore. Fino ad ora mi sono sottoposto ad ogni tipo di test che potesse rintracciare l'infezione da qualsiasi sorta di malattia, mi sono tenuto sotto controllo, per la mia salute sì ma anche preso dal terrore di compiere uno passo falso dentro quelle provette e condannare per sempre la vita degli altri.
Magari il dottore sta solo tentando di rassicurarmi. In certi casi non vengono accettati i donatori di sangue, proprio perché questo può essere trattato fino ad un certo limite. Non posso saperlo, non sono un esperto...

«Avanti, solo pochi esami e poi ti permetterò di tornare a casa, promesso.»

******

Percorrere le strade del South Side aveva sempre significato procedere al di sotto di una schiera di sguardi ma stanotte le imposte delle case sono chiuse ed il mutismo fa eco a quella città che ho abbandonato a bordo di un'ambulanza.

Vorrei ridere di me e della postura patetica che devo assumere agli occhi di uno sguardo esterno mentre alterno il passeggiare ad uno zoppicare veloce, incauto, pieno di imprecazioni e fitte di dolore. Avanzo e penso solo a dove possa trovarsi Rais, a chi lo abbia sotto custodia adesso e se possa essere la scelta più giusta lasciarlo in altre mani, ora.
Il turno di William deve essere finito da un pezzo e a dargli il cambio deve essere stata la vecchia guardia non ancora del tutto assolta dalle passate mansioni.
Rais è al sicuro ed io in questo stato non posso essergli di alcun aiuto.
La cosa migliore sarebbe tornare a casa mia, fermarmi e riflettere, prendermi cura di me stesso come mi aveva consigliato il dottore... ma non posso ancora farlo.
Cadendo, lungo quel declino, avevo scorto un negozio di giocattoli lungo la via. Mi aveva fatto pensare ai quei bambini che non sono stato in grado di salvare, che in un numero rosso riportato sotto la suola di una vecchia scarpa mi ricordano di essere ancora vivi, così come molto altro... mi avevano ricordato il centro di accoglienza dove lavora Marcus.

L'associazione dei due fatti non era durata molto, solo il tempo di una rotazione in grado di far tornare la testa contro l'asfalto, eppure in quel breve momento avevo rivisto da dietro gli occhi la rievocazione di una giornata passata all'interno di quell'immenso salone dove il personale aveva adibito letti per i più ammalati di dolore. Anche Gyasi aveva riposato su quei materassi ed insieme a lui anche intere famiglie, per mia immensa sorpresa. Avevo dato per scontato che dei genitori con dei piccoli a carico si dimenticassero del loro egoismo, del bisogno di una dose e dirottassero il consumo di denaro verso ben altre esigenze ma avevo sottovalutato la dipendenza, così come la disintossicazione.

Donne, uomini, bambini, vecchi... tutti radunati allora sotto un disdicevole odore di sudore e urina lungo i letti di quella sala, ma chi si salvava da tale supplizio veniva pregato, dai membri volontari dello staff, di farlo persino con il pensiero. Tentavano di distrarre i reduci con tutte le loro forze. Una tazza calda di camomilla, un buon piatto ricolmo di cibo, un sorriso di troppo, persino qualche battuta eppure erano i più piccoli a ricevere il meglio. I bambini, figli di quegli incauti tossici che avevano percorso la via dell'autodistruzione, venivano incantati dalla vista di amabili peluche donati all'associazione. Si trattava, per la maggior parte, di orsetti bianchi con un cuore rosso ricamato sul petto. Non li trovavi ovunque, te li affidavano quegli angeli concedendo un senso di purezza e di amore che forse non era mai stato sperimentato.

Mi domando se Rais sia mai stato uno di quei bambini, se l'orfanotrofio l'avesse trovato tramite i servizi sociali proprio in un posto del genere e se fosse questo il motivo del suo amore per il bianco, ma nessuno di noi potrebbe saperlo per certo. Simili situazioni si dimenticano e non resta altro che l'oggetto affidato in memoria di quel ricordo. Un semplice peluche dall'aspetto tenero e caratterizzato da un morbido sorriso.

Devio il percorso della mia strada per raggiungere l'associazione, rendendomi conto di stare zoppicando più del solito.

Una volta lessi che il maggior tasso di mortalità della nostra città si caratterizzava per l'abuso di droghe e di stupefacenti. Chiunque altro, esterno al nostro vissuto, avrebbe potuto pensare che la causa fosse la criminalità ed invece ecco scoperto che a ucciderci è la tristezza, una profonda tristezza dalla quale Rais si è salvato solo per un soffio.

Dati gli alti livelli di abuso, sfioriamo in un eccellenza non invidiabile la media nazionale di accoglienza di persone nei centri sociali; nessuno come noi, dunque, conosce le dinamiche di quel volontariato e probabilmente nessun altro si caratterizza per l'immancabile cura amorevole. Forse sono solo nostri quei peluche donati, forse no, ma non è importante perché ciò che conta è che siano unici agli occhi di chi li vedrà: lascerò uno di quei pupazzi vicino al negozio di giocattoli di quella città di mare, vi allegherò un biglietto all'interno e pregherò affinché sia Nerissa a trovarlo.
Non potrebbe catturare attenzione maggiore nel resto delle persone, trattandosi solo di un semplice giocattolo vicino ad una vetrina ospitante di più belli, ma Nerissa né capirà il valore, saprà farlo... avendolo appreso dal lavoro di suo fratello.

Manca poco, non devo fare altro, ora che sono entrato all'interno di questa struttura, che allungare la mano per afferrare uno di quei morbidi doni.

Le dita della mano destra, ancora una volta, si tendono nel vuoto tentando di afferrare qualcosa oltre la barriera dell'aria ma a differenza di questo pomeriggio stanno tremando violentemente e risultano sporche di sangue rappreso. Non è capace di sporcare ma l'esitazione non mi fa raggiungere quel candore. Rimango immobile nell'incapacità della non riuscita e mi accorgo che qualcuno si è avvicinato notevolmente al mio campo visivo.

Per la prima volta in questa giornata, il cuore mi rallenta. Più nessun battito accelerato ma solo una notevole calma raggiunta alla vista di lei, immobile quanto elegante, che mi fissa senza fiato, rivestendo del dolore.

Credo che non immaginasse di trovarmi qui, in un luogo che tanto le appartiene. Specie con abiti giunti in questo stato e con il sangue a sporcarmi la pelle da sempre immacolata.
Appaio come un reduce di un immensa battaglia e forse anche il mio sguardo lo lascia trasparire. Per questo, a sostituire il rancore negli occhi di Halima è come un principio di pianto. Ancora non mi parla... ma serra le labbra per poter reggere tutto quel dolore che ci siamo trasmessi.
Halima, non volevo amare davvero tuo fratello ma è successo... avrei dovuto proteggerlo...

Vorrei riuscire a pregarla, proprio come riuscivo a fare all'inizio di tutta questa storia, affinché possa darmi ascolto e farmi pronunciare una realtà che possa essere accettata ma capisco come, all'apparenza, siamo potuti arrivare alla fine di tutta questa storia senza accorgercene. La sofferenza mi appesantisce gli arti e mi sfinisce nell'impedirmi di avanzare un'ulteriore richiesta. Anche il suo silenzio, però, è differente e pare non nascondere in sé stesso niente.

Le parole che erano veleno di Hasim sono state sostituite da questi nostri sguardi. Questa mattina accompagnando suo fratello in centrale, all'arrivo di Gareth, non ero stato perdonato, né tanto meno assolto. Hasim non mi aveva rispettato ed era rimasto a fissarmi. Per questo sono cosciente di come i loro due sguardi appaiano totalmente differenti, così come è diverso anche il mio tipo di richiesta.
Non ho mai domandato perdono a Hasim perché l'ho sempre detestato, odiando il modo con cui disprezzava l'amore tra me e Gyasi ma ho richiesto come un disperato l'assoluzione di Halima perché mi è sempre stata amica e perché le ho sempre voluto bene, così come lei ne voleva a me e a suo fratello. Ci avrebbe perdonati se solo il nostro amore non avesse portato quella frammentazione nella sua vita. Ci avrebbe accettati se solo non avesse vissuto nella proiezione della rabbbia data da suo padre e da suo fratello.

«S-sei....» mormora tremante, ricacciando indietro le lacrime e tentando di guardarmi con più sicurezza. Raddrizza la schiena, tenta di farsi forza e mi domando se questo passaggio sia stato ripetuto anche il giorno in cui, venendo alla centrale, aveva deciso di assumere il giusto coraggio per parlarmi ma aveva trovato Rais. «Sei ferito.»

La sua gentile constatazione spinge le mie labbra a separarsi tra loro, abbandonando il sapore sanguineo che ospitano.

«Sono caduto e mi sono fatto male.»

«Pensavo fossi più cauto.»

«Non riuscivo più a muovermi» confesso, reggendo il confronto con i suoi scuri occhi.
Da sempre ho pensato che fosse una bella ragazza ma non mi ero accorto di come, nel periodo in cui ci siamo separati, sia divenuta una donna.

Halima è bellissima ma ancora di più: è grintosa, agguerrita ed ha avuto l'iniziativa, prima di chiunuque altro, di accettare parte del passato per poter imparare a conviverci.

Halima... mi hai perdonato? Sei ancora parte della schiera delle mie amicizie? Io non smetterò mai di proteggerti, te lo prometto, mai.

«E che cosa stai facendo qui?»

Deglutisco, tentando di sopprimere un brivido di dolore che mi corre lungo la schiena.

«Devo prendere uno di questi.»

«Perché?»

Appoggiando la mano sul freddo alluminio del cestino contenente quella moltitudine di doni di peluche, svuotato come è stato dai palloni sgonfi provenienti da una vecchia palestra, tento di dimostrarmi ancora parte integrante di un indagine che mi sta privando del respiro.

«Ne ho bisogno per lavoro. Non sono venuto qui per nessun altro motivo.»

Halima, ti fidi ancora? Mi credi ancora? Quanto è rimasto della bambina in questa donna che mi è di fronte?

«Non mi aspettavo di trovarti qui.»

«Mi dispiace...» sussurro, non avendo mai voluto metterle pressione, nemmeno le volte in cui la cercavo a seguito della morte di Gyasi per raccontarle davvero i fatti. Solo il mio effettivo allontanamento però, questa necessaria distanza tra di noi al momento, ammette sinceramente la mia onestà.

Non avrei mai voluto essere parte di quelle persone che la braccano, mai.

«Puoi prenderlo a patto che aspetti di parlare con Marcus. Ti cerca da molto, ma sembravi essere sparito.»

«Sono sempre stato a lavorare» affermo. Non ho mai abbandonato la città, mai lasciato Halima...

Tento di farglielo capire con lo sguardo ed è possibile che ci riesca perché di colpo qualcosa in lei cambia, dandole la forza di decidere come ottenere qualcosa solo per se stessa.

«Seguimi, farò in modo che ci raggiunga al più presto. Hai bisogno di sederti, stai tremando.»

Il dottore aveva detto che per il momento, dalle prime analisi, non pareva niente di grave ma mescolato quello che mi è capitato con la stanchezza è probabile che stia creando una reazione a suo modo devastane.

«Sai dove andare?» Le chiedo in un mezzo sorriso, non avendola vista spesso girare da queste parti. Se ricordo bene, i suoi odiavano che aiutasse in un posto simile o che, peggio ancora, si dimostrasse indipendente, ma da quel poco che ho saputo di lei sono cambiate molte cose.

«Sono tornata spesso qui, a dare una mano» mi fa sapere infatti, lasciandomi sorridente in una forma di orgoglio.

Stiamo andando verso il corridoio che precede l'accettazione dei malati, il che significa che Marcus si sta prendendo carico di nuove anime. Provo una forma di disagio nei suoi confronti, data dalla differenza di età e dall'idea di non avere mai fatto abbastanza per salvare Gyasi che lui stesso stava accudendo, anzi di essere forse stato parte degli stessi mali che hanno aggravato la sua malattia, ma accetto di buon grado l'idea di vederlo dal momento che significa restare da solo con lei.

Osservo immobile le sue movenze mentre volteggia per questa piccola sala, rivolgendomi le spalle mentre me ne resto seduto su una di queste panchine d'attesa. Si occupa di catalogare i moduli compilati dai nuovi arrivati e noto che li divide per colore e secondo determinate categorie, segnalandoli con delle linguette adesive al bordo esterno della pagina. L'ho visto fare molte volte anche ad Amy, nei pomeriggi in cui studiavamo insieme, e la prendevo sempre in giro dal momento che la costola esterna del suo libro, dove erano evidenti gli spessori delle pagine, finiva per essere un tripudi di colori incomprensibile ed in collegabile. Certe volte nemmeno riusciva ad afferrare con precisione le linguette e finiva per staccarle ma fingeva, con ogni astuta opzione possibile, di avere ancora il completo controllo e stappava, sotto i miei occhi assorti, infiniti tappi di infiniti indelebili sottili per attribuire un titolo per ogni colore che poneva in evidenza il post-it.

«Anche una mia amica lo faceva spesso, allo stesso modo» dico ad Halima, notandola arrestarsi solo per un breve istante.

«L'ho imparato da una delle mie.»

«Sono contento che tu abbia fatto nuove amicizie.»

«Come sai che sono nuove?»

«Perché sei cambiata molto e perché prima non lo facevi.»

«Pensi sempre di capire tutto tu, non è vero?»

«La verità è che non so niente e che sono immobile da un po'.»

La mia risposta crea nella mia mente il ricordo delle mie gambe bloccate nell'asfalto ed irrigidite da un sentimento estraneo. Cadere era stata come una frattura, un desiderio di lasciarsi andare...

Halima si volta, confusa da questa mia sorta di resa.

«Hai problemi con le idagini?»

«Credo che sia la paura a bloccarmi.»

Il volto di Rais si posiziona di fronte a me, dinanzi a noi, con una dolcezza che pare supplicare la mia pietà. "Non farti così male", sembra dirmi, ma è inutile perché sono fatto così e non riesco a fare altro, guardandolo, che concentrarmi sulla dolcezza trasudante dai suoi occhi che non voglio trovarmi ad annullare.

«Paura di che cosa?»

«Di non essere abbastanza.»

Halima tace, bloccandosi con quei fogli con presenti le etichette colorate in una mano mentre attorno le altre persone continuano a passeggiare indifferenti ai nostri problemi, che codardi si celano sempre al di sotto della superficie di discorsi semplici.

«Non è facile per me perdonarti» mi dice.

«Non ti sto chiedendo di farlo...»

«Ma sento che dovrei, perché sarebbe ora, no?»

«Non c'è un giusto tempo» sussurro.

«Da quando hai deciso di arrenderti così? Prima mi supplicavi affinché ti stessi a sentire, perché ascoltassi la dannata ragione del tuo bellissimo amore per mio fratello. In questo modo mi avresti convinta, perché non vuoi più farlo?»

«Desidero non esserti più di alcun fastidio, Halima. Ti sei rifatta una vita ed io e Gyasi non ne facciamo parte...»

«Questo è davvero ridicolo... quasi nemmeno ti riconosco.»

Sorrido, tentando di stringermi un braccio al petto, tenendolo forzatamente contro il maglione con la presa di una mano, avendo avvertito un dolore corrermi lungo i nervi. «Perché ho smesso di essere persuasivo?»

«Tu non sei solo persuasivo, né solo insistente, né solo ferito! Tu, Francis, sei diverso... ed è questo che ha fatto tanta paura ai miei genitori.»

Abbasso gli occhi verso terra, intimidito e ferito dal modo con cui la mia "diversità" mi abbia reso ostile nei confronti dei suoi parenti.

«Non mi riferisco al tuo modo di amare» mi dice, in una rassicurazione a suo modo ostile.

«Allora a cosa?»

«A semplicemente quello che sei, perché ho capito che se ti perdonassi significherebbe ammettere a me stessa che hai sbagliato, che non sei stato in grado di difendere mio fratello. Vorrebbe dire che la tua diversità non ti lascerebbe solo vincere ma anche perdere e che per questo motivo non posso contare unicamente su di te, quando ho un insensato bisogno di farlo. Non riesco ad accettare che tu possa fallire.»

Le ultime parole, emesse tra le lacrime, frantumano il mio cuore già a pezzi e costringono Halima ad allontanarsi in fretta. I fogli vengono abbandonati con violenza esausta su uno dei scaffali e nella confusione delle persone presenti vedo allontanarsi la sua schiena coperta da quel tessuto verde e arancio che ama.
Marcus sostituisce il suo ritiro. La guarda con compianto e poi si avvicina verso di me.

«Volevo parlarti, Francis, per farti sapere che cosa ha intenzione di fare Halima. Può essere pericoloso, per cui ho bisogno che tu mi prometta che mi aiuterai a proteggerla.»

Sempre, penso, con le lacrime agli occhi osservando la superficie di pavimento dove si è attardato il suo addio. La proteggerò per sempre.

******

Esistono pendii che non possono essere saliti. Rampe, declini, che possono essere valicati con insostenibile sforzo, lasciando come unica sfida il compito di comprendere fin dove il nostro corpo possa spingersi. Da sempre mi sono chiesto che cosa provassero gli scalatori, raggiungendo il termine del mondo su una punta distante mille metri dal mare, quale gioia o euforia scorresse lungo le sinapsi del loro cervello mescolata ad un meccanismo di assenza di aria.
Probabilmente si tratta solo della gioia di una riuscita impossibile, dettata dalla sorpresa di aver raggiunto il traguardo ad altri inaccessibile. Potremmo definirlo in milioni di modi, anche secondo la sfumatura di mero egoismo, ma l'importante sarebbe comprendere l'essenza vitale della loro forza.
Nutrirsi da quella stessa sorgente sarebbe come una benedizione in queste sere dove i passi divengono immensamente stanchi e privi di supporto.

Il corpo ha cessato di tremare ed al posto del dolore ospita una stanchezza che sfinisce i nervi, conducendo le mani non più a tendersi nel vuoto ma a sollevarsi con pesantezza per potersi aggrappare alla ringhiera di queste scale.
Pochi passi e avrò raggiunto casa mia. Potrò riabbracciare mio fratello, baciare mia madre, passare sotto il rigido controllo di mio padre e nel buio della mia stanza, al centro di una notte in cui non riuscirò a prendere sonno per i molti pensieri, accendermi una sigaretta senza che nessuno possa notarlo o rimproverarmi per il malanno che mi arreco.

Sarebbe piacevole questa sorta di ricompensa ma delle voci, non appena rigiro la chiave nella toppa ed apro la porta di casa, mi raggiungono in un concitato sussurro che affievolisce il mio udito, nella speranza di comprendere ogni frase.

«Che cosa accidenti ci fai qui?» Sento dire a mia madre e nella sua voce rotta la immagino gesticolare dalla cucina, il luogo da cui sembrano provenire questi suoni, vestita del suo grembiule e con le dita sporcate dal sapone. Sono le dieci e mezza di sera, di solito l'orario in cui risulta incline a tale attività.

«Dovevo vederlo, che cosa c'è di male?» Questa risposta... è arrabbiata e sembra appartenere a mio zio Damien. Entro all'interno dell'atrio e chiudo alle mie spalle il portone con circospetto e tentando di non produrre alcun suono.
Vedo, proiettato a terra lungo la moquette, il riporto delle loro ombre vicine, gesticolanti ed inflesse l'una verso l'altra.

«Che cosa c'è di male? Mio marito sta per tornare e ti avevo detto di non essere qui quando termina il turno.»

«Sono preoccupato per Francis, Nora. Ha bisogno del nostro sostegno.»

«Perché? Perché è innamorato di un uomo?»

Arresto i passi lungo il corridoio e a seguito anche un immenso silenzio sale, appesantendo l'aria. Avverto il tradimento raggiungermi come un coltello affilato da un dente avvelenato all'idea che mio zio le abbia raccontato tutto, ma la voce di mia madre torna a smentire una simile supposizione, vestendo una presa in giro.

«Che cosa c'è? Perché ti mostri tanto sorpreso? Credevi che non lo avessi capito?»

«Nora...»

«Lo ha portato in casa. Ho subito pensato che fosse un bravo ragazzo quel Ryan e anche Francis lo è... ma non poteva sfuggire al nostro peccato.»

«Questo è diverso.»

«Lo pensi sul serio?» Le sento dire, mentre riprendo a camminare avvicinandomi alla cucina. «Perché dovrebbe? Abbiamo provato a tenerlo lontano da qualsiasi cosa gli potesse provocare dolore, abbiamo tentato di dargli una visione più giusta dell'amore... credevo che si sarebbe fidanzato con quella Amelie un giorno.»

All'avvertire la nota di delusione che celano le sue parole, un feroce dolore si abbatte sul mio corpo con tutta la sua potenza, facendomi inghiottire amari respiri d'aria.

«Non accetti che possa amare un uomo?»

«Non accetto che ancora una volta in questa dannata famiglia l'amore possa essere vissuto in maniera diversa! Non accetto... che un parente del nostro errore si ripeta.»

«Nora...»

«Lui è così debole, per causa nostra...»

«Nora...»

«No, lasciami. Tornerà presto, non puoi toccarmi.»

«Nora, ti prego.»

«Non saresti mai dovuto tornare qui...»

Adesso vedo le lacrime sul volto di mia madre, i suoi occhi chiusi, le mani di mio zio che la afferrano per le braccia. Suo fratello la guarda in un modo tanto afflitto da essermi estraneo ed a pochi passi da me, centrali a questa cucina, tentando di procedere in una loro personale lotta che richiede di essere più vicini e più lontani al tempo stesso.
Mio zio ne esce esausto. Non sopporta che sia proprio lei a dimenarsi così ed è per questo motivo che quando i suoi occhi si illuminano di un accecante lampo e le sue mani, essendosi allontanate per liberarla, riacquistano una loro forza tornandola a stringere mi aspetto che tutto il coraggio sufficiente a spiegarmi questa situazione possa provenire solo da lui.
Da sempre è stato il più onesto, la mia roccia, uno dei miei punti fissi. Vedo mio zio tremare, stringendo tra le mani mia madre e non posso credere all'intensità del dolore che sembra spezzarlo.

«Francis è mio figlio, nostro figlio, come posso non tornare?»

Certi pendii sono invalicabili. Certi misteri avrebbero dovuto avere il coraggio di rimanere segreti, perché quando si arriva allo scoperta del nuovo l'inaspettato ti raggiunge come un pugno e ti manda al suolo.

La mia presenza ormai è evidente, sulla cima di questa vetta non sono più da soli ed è con timore che ruotano la testa per potermi fissare. Il terrore rischiara le lacrime di mia madre e ne arresta il pianto. La sorpresa, invece, affievolisce quelli di mio zio e lo conduce a concentrarsi solo su di me. Suo figlio.

«Francis... non sapevamo che saresti tornato» mormora.

La paura certe volte ti fa dire cose senza senso, ed immagino per mio zio sia una di quelle volte. Posso ancora chiamarlo zio? Di fronte ai miei occhi si sta svolgendo una scena spaventosa, inverosimile e tanto irreale da far crollare ogni mia certezza. Possibile che mi venga da ridere e da piangere allo stesso tempo? Vorrei solo crollare a terra, un istante dopo. Dichiarare il timeout per questo gioco al massacro perché da tempo la pressione si è fatta così ardua da sopportare che proclamarne, sconfitto, il termine potrebbe apparire quasi da codardi.

Halima aveva ragione. Sono diverso. Ed a quanto pare "debole" per un motivo.
Un amore, tra consanguinei.

«Sei mio padre?»

La mia voce non ha alcuna intonazione se non una lieve frattura al termine della sua esposizione. Ecco che gli occhi di Damien si riempiono di pianto, facendomi immaginare quante volte possa avere immaginato una scena simile sotto tutt'altra fantasia. Magari aveva sognato noi due su un campetto da basket sorridenti ed uniti più che mai prima che, afflitto dalla stanchezza, mi rivelasse lui stesso la più sincera verità, o forse eravamo sul mio tappeto di sassi al fianco del lago.
Sicuramente in nessuna di queste opzioni sarebbe stata presente mia madre perché lo vedo dai suoi occhi... lei non me lo avrebbe mai rivelato.

«Non avrei voluto che lo venissi a sapere così, è da molto tempo che io-» parte in fatti con il dire Damien e mi disgusta l'idea di capire tanto bene ogni espressione che cela. Merito del nostro rapporto padre-figlio? O di una semplcie abitudine alla nostra quotidianità?

Mia madre era disgustata da me. Mi catalogava come un errore...

Sto retrocedendo, ma non cadendo. Alle mie spalle non c'è alcun dirupo ad accogliere il mio declino. Semplicemente sto precipitando in me stesso, su una superficie piana, ed altro non chiedo che uscire da questa dimensione per avere una spazialità che mi renda intangibile.

«Francis, aspetta» mi supplica mio zio, ma non lo sto a sentire.

«Sono vostro figlio» mormoro, continuando a retrocedere dinanzi la spietatezza di queste parole.
Mio zio tenta di imitare in contrapposizione i miei passi, ma non riesce a raggiungermi tanto è il dolore che è caricato sulla sua schiena. Povero uomo, deve avermi amato con distanza per tutto questo tempo, essersi imposto di non fare di me il figlio che tanto desiderava avere ma eccoci arrivati alla stregua di tutte le bugie.
Essere diversi non significa altro che soffrire?

«Ti prego, parliamone» mi chiede, ma io non voglio parlare. Esco semplicemente retrocedendo da questa casa, allontanando per sempre tutti i dolori che conserva in essa nel tentativo di recidere per sempre questo dolore.
In me non conservo altro che la speranza di poter riprendere a respirare.

Mi manca il fiato. Sto correndo lungo l'asfalto senza respiro, in una protesta con il mio corpo ferito che urla quanto sia impossibile, per lui, anche il gesto più spontaneo. Sono sempre stato debole, fragile in una diversità di consistenza della mia anima e del mio corpo rispetto a tutti gli altri e mai prima d'ora l'avevo vissuta come un qualcosa in grado di farmi a pezzi. Eppure... eppure....

Sto correndo lungo l'asfalto, senza alternativa, con la sola speranza di raggiungere l'unica persona che davvero è in grado di farmi del bene perché ho bisogno di tornare a respirare, ho bisogno... che qualcuno mi dica che tutto questo non è solo un incubo.

La guardia mi osserva preoccupata ma gli ordino di andarsene via senza respiro, rassicurandogli di stare bene, dopodiché entro all'interno della casa e chiudo la porta a chiave.

Abbandono tutti i miei mostri oltre questo legno di infisso. Dimentico il dolore, svuotandomi così come mi svuotavo dei sentimenti ogni mattina durante la sua prigionia per poter evitare di mettere in campo il cuore, che ora batte feroce.

Non voglio dimenticare di essere vivo. Non voglio smettere di amare. Desidero come un disperato sapere che tutto ciò che ho fatto non è stato uno sbaglio, essere certo che sentirmi diverso non possa essere solo un errore. Capire che non è colpa mia la morte di Gyasi così come da tempo ho capito che non è sua. Concepire di poter crollare e farlo nel solo luogo in cui desidero davvero.

Scosto le lenzuola che lo coprono e mi siedo sulle sue gambe, sporgendomi in avanti per poter fissare da vicino il suo viso che afferro tra le mani, per poter respirare la sua stessa aria e tornare a vivere.

La sua bocca si apre leggera in un flebile tremolio, venendo poi accompagnata dai suoi occhi rotondi che fissandosi su di me non riescono a mascherare l'addio all'angoscia che il mio arrivo gli provoca.

«Sei qui...» sussurra e nella semioscurità le sue mani mi cercano, mi sfiorano, in un desiderio di avermi più vicino in un primo istante per poi accorgersi dello stato delle mie vesti, assieme alla presenza delle bende in alcuni tratti. Non avrei mai voluto far scomparire il suo sorriso o la soddisfazione che lo aveva colto, specie se significava barattarla con questa preoccupazione ma Rais mi ama in un modo assoluto, così come io amo lui. Che cosa può esserci di sbagliato?

«Che cosa hai fatto? Stai bene? Dimmi che non sei ferito.»

È un esperto, lui. Sa dove i proiettili di quei nemici potrebbero ferirmi per garantirmi la morte ed è in quegli anfratti che le sue dita scavano con impazienza, riemergendo con apprensione dinanzi a sempre nuove ipotesi.

«Rais...» sussurro, affinché mi guardi. Potrei dirgli "ti amo" per arrestare le sue mosse. Non gliel'ho ancora detto e forse lo sconvolgerebbe. Lo immobilizzerebbe senza ombra di dubbio e lo costringerebbe a guardarmi con quei suoi rotondi occhi finalmente ricompensati per tutto quell'abbandono che ha dovuto sostenere per poter appartenere a qualcuno.
La mia reazione, invece, sarebbe immensamente diversa ed è per questo che gradirei come non mai che la sua voce trovasse il coraggio per dirmelo. Ho sempre ritenuto fosse inutile affermare con parole sentimenti di cui si è certi, ma nella mia casa, pochi minuti prima di quella mia forsennata corsa, ho compreso quanta distruzione potessero portare e di conseguenza ho pensato anche alla possibilità di una rinascita offerta.

Voglio che Rais mi guardi, per questo gli arresto le mani non appena la sua indagine lungo il mio corpo sembra terminare. Prima non me lo avrebbe concesso, testardo e cocciuto come è, ma ecco fatto. Riusciamo a fissarci negli occhi e finalmente ritrovo il mio ossigeno.

«Tu sei tutto ciò che ho... lo sai, non è vero?» Sussurro con una disperazione che il mio cuore non gli risparmia.
Comprendendone la portata, Rais si fa serio nel rispondermi.

«Anche tu sei tutto ciò che ho... lo sai meglio di me.»

Ho bisogno di toccarlo. Nel buio di questa notte, con probabilmente ancora la guardia oltre la porta di casa, affatto andatasene nel constatare la mia preoccupazione, ho bisogno delle mie certezze, di sentire il mio amore cullato. Di nascondermi nel cuore della sola persona che può ospitarmi.

«Sei tutto ciò che ho» sussurro sulla sua bocca, accarezzando le sue labbra in quella che deve apparirgli come atroce tortura. Detesta la lentezza. Quando mi ama vuole amarmi e basta, affrontando i suoi sentimenti. Detesta l'agonia ma è nel supplizio che il mio cuore galoppa, all'idea... di avere avuto tutto questo quando nemmeno sembravo cercarlo.

«Non c'è niente di sbagliato» sussurro, socchiudendo gli occhi e godendomi la carezza del suo respiro, del corpo morbido e al contempo spigoloso, d'uomo, che al di sotto mi abbraccia.

«No, non c'è niente di sbagliato.»

Era la sola sicurezza che desiderassi avere dentro questa giornata da incubo in cui la diversità mi ha ucciso con la sua durezza, spingendomi vicino al delirio ma al contempo accostandomi all'unico riferimento che ho da sempre nel cuore.

Con lui al mio fianco posso affrontare qualsiasi cosa, paura e dolore, perché è questo che garantisce l'amore: crollare ma sapere di rimanere comunque uniti.

P.O.V.
Rais

La sua schiena nuda è come uno scoglio bianco contro cui, al posto del mare, si infrange la brezza della notte. Rimango a fissarla come se fosse un ancoraggio, pensando al modo con cui, nella disperazione di questi minuti, ci siamo amati.
Avevo creduto ad una bugia. All'idea che il lavoro lo avrebbe allontanato da me per sempre a causa della paura, dello stress o di tutto ciò che può intervenire nel rovinare un rapporto d'amore. Non ne avevo mai avuto uno prima d'ora, non tanto sincero o reale, per cui non potevo sapere con certezza quali fossero i veri nemici pur provandone una paura immensa.

Li aveva scacciati via tutti quanti, perfidi demoni che avevano abbandonato la stanza assieme ai suoi. Sì... perché anche lui ne possedeva, l'ho visto riaprendo gli occhi e accorgendomi che era tornato da me. Aveva bisogno di noi almeno quanto ne avevo io, anche solo da questa mattina in cui lo avevo visto parlare segretamente con Gareth.

Ricordarlo risucchia in una stretta perfida il cuore e mi spinge ad abbracciare la sua schiena nuda ed il suo corpo al mio, per poterlo avere vicino.

Dannazione, Francis, non lasciarmi. Detesto quando lo fai.
Detesto essere lasciato in mani di altri, fingere che le parole di William possano non avere su di me alcun effetto. Detesto immaginare ogni minima cosa che possa introdursi nel nostro rapporto e rovinarlo tutto.

Osservo la sua schiena nuda e respiro il profumo della sua pelle ad occhi chiusi, pensando poco dopo a quanto possa essere infantile ed egoista da parte mia occuparmi semplicemente del mio amore quando c'è molto altro in gioco.
Per me non vale quanto Francis. Annullare il male dal mondo intero non vale la bellezza di averlo tra le braccia, nudo e nella sua fragilità. Certe volte pare quasi che sia lo stesso anche per lui, o forse lo è sempre stato, solo che non desidera lasciarlo trasparire tanto. Mi ama con disperazione e folle accecamento da quando ci siamo ricongiunti ed io non posso che accettare tutto ciò che mi offre con gratitudine ed una costante insoddisfazione, perché non basta tutta la passione che può offrirmi, cercando sempre di più. Per prime le sue risposte.

Esortato dalla mia voce interiore, si volta nella mia direzione rimanendo a guardarmi. Sapevo che era sveglio. Ho imparato a capirlo dal suo modo più lento di respirare.

«Che cosa è successo?» Gli domando, afflitto dal desiderio di sfiorare il suo viso non appena lui posa una mano su un mio nudo fianco, attirandomi a se al di sotto delle lenzuola. In un primo momento tace e nello scorrere del tempo i suoi occhi verdi accarezzano ogni parte del mio viso.

Osservo in adorazione ogni sua forma di amore, rimanendo in attesa della sua voce.

«Ho scoperto che mia madre e mio zio hanno avuto una relazione e che da essa sono nato io. Sono figlio di un amore nato dall'incesto.»

Dunque era questo il grande segreto dell'incrollabile Damien. Mi ero sempre chiesto a che cosa pensasse durante i pomeriggi in cui rimaneva assorto, eppure una parte di me crede di averlo sempre immaginato... si assomigliano così tanto da non poter essere semplici parenti. Forse posso dirlo essendo cresciuto senza regole e avendo avuto la fortuna di non criticare involontariamente o meno alcuna forma di amore, rispettandola nella sua complessità. Si era trattato di semplice istinto, niente di più, un altro dei segreti che non avrei voluto avere con lui.

«E come ti senti?» Sussurro, cedendo al desiderio di lasciare quella piccola carezza sulla sua tempia.

«Sono confuso. Penso di essere stato il risultato di uno sbaglio.»

«Non lo sei» mormoro con tono orripilato, perché Francis potrebbe essere tutto tranne che questo. Lui è l'uomo migliore che possa esistere e non può credere questo di sé.

«Li ho sentiti dire che è per questo motivo che sono debole» arriva a confessare, lasciandomi attendere il resto della sua storia. «L'amore tra consanguinei non offre l'opportunità di partorire un figlio completamente sano.»

«Puoi essere più fragile fisicamente per questo motivo, ma non è una colpa.»

«Oggi sono stato male. Può non trattarsi di niente, ma sono stato dal dottore. Ha parlato di un problema di nervi...»

«Non stai affrontando un periodo semplice, questo lo sappiamo entrambi...»

Abbasso la fronte, non reggendo il confronto con i suoi occhi. Molti darebbero la colpa alla trasparenza di quel verde ma in realtà a mettere in crisi è il controllo statico che sancisce in contrapposizione la pupilla, restando immobile ad osservarti.

«Per questo motivo non mi stai dicendo la verità?»

La testa si rialza di colpo, trafitta dalle sue parole.
Mi scontro con l'imperscrutabilità di Francis, notando meglio di tutti la dolcezza che cela questo tono affranto dall'amaro.

«Non mentirmi...» mi sussurra poco dopo, a conferma di quanto il mio amore sappia renderlo forte e fragile.

«Non intendo più farlo.»

«So tutto. Di William, di "Richard" scritto tra le pagine del mio diario... so che stai provando a proteggermi, dimmi perché.»

«Ha minacciato di ucciderti, se ti avessi rivelato tutto» confesso nel timore che le orecchie di William possano giungere fino a qui. Non deve toccare l'uomo che amo. Non può farlo. Ho mantenuto la mia promessa, non deve sfiorarlo...

«Dovevi parlarmene. Provare paura per lui non fa che incrementare il suo controllo su di noi.»

«Come lo hai scoperto?»

«Sapevo che prima di me avevi avuto un amante. Che questo era ricco e probabilmente inserito nel tuo stesso circolo della droga. Non mi avevi mai confessato che fosse il figlio dei Lee ma vi ho visti, in centrale.»

I miei occhi sgranano in questa confessione a cuori scoperti, dinanzi al terrore che le sue parole mi provocano associati al pensiero di quando William saprà raggiungerci, arrivando fino a noi.

«Ti ha toccato sulla nuca, nel modo in cui ti piace essere sfiorato» ammette a voce bassa, dandomene una dimostrazione sollevando i polpastrelli e sfiorando quel preciso punto che le sue labbra, la sua bocca, hanno baciato più volte. «Ho capito da quello e dalla tua reazione che eravate amanti, dopodiché ho ricollegato tutto il resto.»

«Non volevo mentierti.»

«So che non lo hai fatto.»

«Ma tu sì?»

«Ti riferisci a Gareth?»

«Sapevo che c'era sotto qualcosa...» Ma non avrei immaginato che facesse tanto male e che mi spingesse ad allontanarmi da lui. Afferra il mio polso prima che possa sfuggirgli, costringendomi con angoscia a non allontanarmi da lui.

«L'ho chiesto solo perché ho notato il modo con cui stamattina lo squadravi.»

«Mi hai tenuto all'oscuro di quello che vi siete detti.»

«Non volevo comprometterti, si trattava di lavoro.»

Non riesco del tutto a crederci ed è per questo che Francis arriva a sospirare, sciogliendo la presa attorno al mio polso per potermi stringere con più certezza, tramite la morsa di un braccio, l'intero corpo.

«Non mi hai sentito quando ti ho detto che non ho che te al mondo?» Cantilena in tono sfacciatamente romantico, senza alcuna nota di divertimento.

«Ti ho sentito e ti ho anche risposto, ma la mia frase era sincera.»

«Anche la mia lo era. Non c'è stato niente tra me e Gareth e non ci sarà. Faccio affidabilità su di lui perché come me è un cadetto all'interno della centrale e non può essere stato corrotto come il resto del personale, già presente durante le azioni messe a tacere dei Lee. Perché lo conosco e perché abbiamo vissuto a fianco in quei due anni di addestramento. C'è un rapporto di fiducia, niente di più, dal momento che è un uomo che rispetto molto. Inoltre, nemmeno so se possa essergli di interesse una relazione di tutt'altro tipo...»

«Questo non lo hai capito in quei due anni?» Lo riprendo con malignità, facendolo sorridere.

«Non è un uomo tanto facile da comprendere.»

«Per questo ti sei avvicinato a lui? Perché ti somiglia?»

Gli occhi di Francis mi accarezzano ed il suo braccio non cede nella propria stretta.

«In verità mi sono avvicinato perché mi ricordava te.»

Le parole di William divengono polvere, distrutte dalla voce di Francis nel cuore della notte. La sua costante sincerità nei miei riguardi mi spiazza come mi spiazza, giorno dopo giorno, la sua intelligenza. In fondo, mi aveva tenuto lontano proprio per non mentirmi mentre io ero stato costretto a farlo dinanzi ogni occhiata di William che ci osservava rapace.

«Avevo bisogno di saperti con me, quando non c'eri, così sono arrivato a cercarti in altri. Ho fatto lo stesso per Ercole, Oliver ed Issa. Avevo bisogno di avere i miei sostegni ma più di tutto avevo bisogno di te. Non c'era alcuna attrazione sessuale, niente di niente, solo il tuo ricordo di cui anche lui era cosciente.»

Dovrei provare della rabbia, evitare di vedere il lato romantico della faccenda e dibattermi, come sono solito fare. Ci riesco in modo misero, quasi patetico ma ancora combattivo.

«Io non potevo avere niente di tutto questo, sai? Per me, tu non c'eri e basta. Inoltre hai deciso di sparire per un ulteriore anno.»

«Se lo avessi saputo, probabilmente non mi sarei arruolato. Due anni sono troppi.» Inclina la testa verso la mia, posando la sua fronte nello spazio tra le mie sopracciglia. «L'accademia era importante, ma non quanto te. Non voglio più sprecare un secondo del nostro tempo. Basta bugie, basta ostacoli.»

Essere diversi.

Francis aveva usato queste parole per esprimere ciò che si sentiva essere. Diverso. Infondo non è una parola tanto temibile. La mia mente la classifica come sinonimo di unicità ed eccezionalità. Non importa cosa lui possa pensare di se stesso, finché saprà guardare verso di me e ricercare ciò che il mio cuore, in silenzio, è in grado di esprimere.

Rimarremo uniti contro il resto, amando un mondo che ci sta mettendo alla prova con tutte le sue bugie ed i suoi ostacoli.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro