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9- Rais

P.O.V.
Francis

Le raccomandazioni di Carlail continuano a vorticare nella mia mente ebbra in un accostamento disorganico, privo di senso. Ricordo il suo consiglio di tenere un profilo basso perché, per il momento, dovrò agire da solo. Si tratta di una prima azione di circospezione e la centrale non ha abbastanza personale per occuparsi anche di una simile questione, fuori dalla burocrazia di dettate carte. In parte me ne compiaccio perché sarebbe stato più difficile agire con, alle spalle, decine di agenti, per quanto privi di divisa.
Muovermi da solo é molto più semplice e fa accordi con il suo consiglio di non farmi notare.
Dopo di che, ero stato indirizzato verso una sensazione di calma: non dovevo farmi prendere dall'ansia, o dalla rabbia, o da qualsiasi cosa in grado di farmi scattare.

Il resto l'ho tutto dimenticato ma sto passeggiando per la via vecchia e non mi importa più di niente. Nonostante la pesantezza dei pensieri e la testa che vortica in un dopo sbornia so benissimo cosa fare o da chi andare.

Discendo lungo questa strada, tentando di ignorare il paio di scarpe appese sopra la mia testa.

Il ragazzo è ancora lì, appoggiato al muro e infreddolito per la leggerezza dei propri abiti. In un primo momento non mi nota, poi sente i miei passi avvicinarsi.

Ancora non mi sorride, ha paura di me, e quei denti marci a causa della droga non si rivelano solo per un istinto di conservazione che lo mette in guardia.
Deve avere la mente più confusa della mia al momento e spero che questo possa andare a mio vantaggio.

«Ehi, io ti conosco! Sei il ragazzo che è passato di qui l'altro giorno» esordisce e per poco non mi maledico.

Non abbastanza confusa, la mente, a quanto pare.

Annuisco distrattamente e mi faccio più vicino, venendo ricompensato dal suo squallido sorrido. Dannazione, non vorrei fissare con tanto ribrezzo quei denti ed è per questo che mi focalizzo sulla giovinezza che sembra mostrare la sua pelle.
Continuo a sostenere che sia più giovane di me, il che è terribile da immaginare, visto lo stato di profonda astinenza in cui si trova.

Le unghie hanno raschiato via lo strato superficiale della pelle dell'avambraccio destro, lasciando molti segni rossi accompagnati a degli sfoghi. Inoltre, nell'agitazione della sua condizione psicofisica risulta costretto ad alternare il carico del proprio peso da un piede all'altro, in una specie di danza piena di piccoli salti capaci anche di riscaldarlo. Il tempo è gelido e questi stracci che indossa non sono nemmeno vagamente sufficienti.

«C'è un vicoletto, qua dietro, se vuoi possiamo andare lì.» Me lo dice senza dare troppo peso alla cosa, gettando l'idea come fosse uno grumo di saliva fatto cadere lungo questa strada marcia, piena di pietre rotte.

«Non sono interessato» ribadisco, e la ruvidezza delle mie parole lo fa fermare. Una simile reazione mi porta a maledirmi l'attimo dopo, capendo subito di aver sbagliato approccio. «Scusami, non intendevo impauriti.»

«Se non sei interessato a un rapporto o al sesso in generale vattene, non ho niente da darti» mi dice, per poi tornare con la testa dritta e lo sguardo inchiodato lontano, come a mettere una rigida distanza tra di noi.

Rimango stupito dalla velocità con la quale ha sfoggiato una simile diffidenza ma forse, mi dico, la menzogna era l'avventatezza. Capendo di non aver a che fare con un papabile consumatore ecco la gentilezza e la provocazione andarsene. Vorrei rimanesse per tutto il tempo con questa, di faccia: gli permetterebbe di rimanere sincero.

«In verità, sono io che voglio darti qualcosa.» Comunico, e i suoi occhi si sgranano portandogli a dirigere il suo sguardo dalla punta dei miei piedi fino alla testa.

Storce la bocca, quindi, mentre si stringe il corpo tra le braccia conserte.

«Sei un bel ragazzo ma non sono interessato nemmeno a quello. Non sono gay.»

Stavolta è il mio turno di rimanere stupito ma niente è paragonabile a quello che sento, a seguito della fragilità della sua successiva domanda.
Il ragazzo, di cui ancora non conosco il nome, si stringe ancora tra le braccia il proprio corpo freddo e magro e mi analizza cercando una verità in grado di tranquillizzarlo un poco.
Osservo quelle nocche bianche che sbiadiscono, ulteriormente, nello stringere la giacca in jeans piena di fori, per poi risalire fino al chiarore rossastro dei suoi capelli. Non avevo ancora notato la sfumatura da vicino.

«Sei uno di quelli violenti?»

È questo che mi chiede.
E la disperazione che vedo nei suoi occhi, mentre si nasconde ancora di più in se stesso, mi fa venire voglia di urlare e di scuoterlo, con tutta la forza possibile.
Come può domandarmelo?

«Credi che te lo direi, se così fosse?»

«Non importa, puoi anche mentirmi. Mi basterebbe una rassicurazione.»

Ecco a cosa può arrivare a fare una persona pur di annullarsi del tutto dentro una siringa.
E questo mi porta a temere molte cose: il veloce commercio dato dal basso prezzo della merda che gira, il costante procedere di vagabondi su questo lungo viale in grado, sul serio, di essere violenti, e la veloce resa che ha avuto il ragazzo persino con me, un perfetto estraneo.

«Non voglio nemmeno andare a letto con te» tento di rassicurarlo, generando però di nuovo il suo sospetto.

«Sono molte le cose che non vuoi fare.»

«A te, invece, va bene tutto» replico, risentito dalla debolezza che ha avuto nel lasciarsi presto andare.

«Già, e c'è proprio da domandarsi il perché lo faccia, eh?» Arriva a prendermi in giro, dandomi le spalle in un gesto di sdegno che mi permette di scorrere lo sguardo sul resto dei suoi abiti.

Alle gambe non ha che degli short sfibrati all'orlo e sbiancati dall'usura, con tasche che proseguono oltre il termine della stoffa e posano in maniera ridicola sulle sue cosce nude e toniche, piene di peluria. Sopra, invece, solo una maglietta a maniche corte e bianca, tanto trasparente da mettere in mostra i capezzoli, per quanto sovrastata da quella minuscola giacca in jeans che ho avuto già modo di notare.

Nonostante il bisogno di una dose, che non sembra capace o desideroso di nascondere, possiede una prontezza di risposta che si avvicina alla lucidità e lo sguardo attento di una mente vispa.

Forse troppo.
Mi lancia un'occhiata, ruotando appena la testa, per far fronte al mio silenzio.

«Ci stai ripensando? Il vicolo è proprio qua dietro.»

Stavo osservando la pelle d'oca sulla sua epidermide, non cercavo altro.

«No, voglio offrirti un pranzo» dico, e gli occhi del ragazzo sgranano. Non credo si aspettasse una proposta simile e la diffidenza non tarda ad arrivare.

«In cambio di...?»

«Niente» rispondo, anche se non é totalmente vero ma ci arriveremo con il tempo.

«E dove sta la fregatura?»

«Nessuna fregatura.»

«Chi ti ha mandato qui?»

«Chi avrebbe dovuto mandarmi?» Indago. Un suo sopracciglio si solleva.

«Sei della polizia?»

Sospiro, pensando davvero di non esserne in grado.

«Senti, ti ho visto l'altro giorno, passando» provo ad aggiustare il tiro e recuperare il terreno perso da quei molti errori compiuti in maniera involontaria. «Mi sei sembrato affamato e infreddolito per questo ho voluto passare di nuovo e offrirti il mio aiuto.»

«D'accordo, allora lasciami i soldi.»

Stavolta è il mio turno di sorridere. «No.»

«Immaginavo fossi uno stronzo.»

«Sappiamo entrambi che ci faresti.»

«E...? Sarebbero affari miei, giusto? Tu volevi solo aiutare.»

A quanto pare ho preso un soggetto difficile ma è meglio così, l'essere messo alla prova mi stuzzica.

«D'accordo, ti parlerò sinceramente allora. Passo di qui molto di rado. Sono capitato lo scorso giorno perché desideravo ripercorrere la strada che faceva l'uomo di cui mi ero innamorato, mentre elemosinava qualche pasticca di ecstasy o qualche schifezza da iniettarsi in vena. Ora, puoi credermi o no, ma è morto di overdose. L'hanno ritrovato con l'ago ancora in corpo ed è una cosa che mi ha sconvolto non poco, tanto da farmi desiderare di donare molti soldi al centro di sostegno che si è preso cura di lui, motivo per il quale non avrei denaro a sufficienza per farti comprare nemmeno mezza dose ma quanto basta per riempirti la pancia. Lo faccio sia per te che per me, così mi metto in pari con la coscienza. Accetti o no di venire?»

Ho parlato con molto scetticismo ma non voglio esternare i miei sentimenti a uno sconosciuto, né tantomeno voglio farlo con questo mal di testa.
Lui mi guarda, e continua a farlo per lungo tempo, finché non raddrizza la schiena.

«D'accordo, ti credo. Nella migliore delle ipotesi ci guadagno un pasto, nella peggiore, girato l'angolo, mi riempirai di botte fino ad ammazzarmi ma andrebbe bene comunque, tanto non ho niente da perdere.»

Le sue parole mi fanno tremare leggermente, ma tento di nasconderlo quando gli tendo la mano.

«Io mi chiamo Francis» mi presento, ed il ragazzo, dopo aver strusciato il palmo lungo la maglietta come per pulirsi dal tremore e dal sudore, ricambia la mia stretta, con vibrante decisione.

«Piacere, Francis. Io sono Oliver.»

Sorrido alla sua fermezza e faccio strada, precedendolo per dargli un principio di sicurezza. Non sono ancora un poliziotto ma gli permetto di proteggermi le spalle perché, senza fiducia, non può esserci alcun tipo di connessione e io ho bisogno dell'aiuto di Oliver.

Grazie a lui riuscirò a ricavare i nomi dei principali spacciatori del South Side e, forse, riuscirò a donare ad Oliver una seconda scelta, lontana dall'orrore di una costretta prostituzione.

******

Giunti in una tavola calda, gli occhi di Oliver non si sollevano nemmeno a fissare il cartellone riportante il menù; si dirige verso uno dei divanetti rosso imbottiti, piuttosto, a passo stanco, trascinando appena i piedi, e prossimo alla cassa non gli stacco gli occhi di dosso per vedere con distacco le sue azioni come il posto che si appresta a scegliere.

Un tavolo per due leggermente distante dagli altri già occupati, e dentro di me lo ringrazio. La nostra conversazione non può certo essere concepita tanto facilmente, dovrò andare per gradi ma sarò diretto. Ho bisogno di informazioni e desidero portare a Carlail qualcosa sulla quale lavorare.

«Prego, cosa desidera?»

La ragazza dietro il bancone delle ordinazioni mi sorride con cordialità, riparata dal suo berretto verde riportante il logo del locale. Prima di risponderle, controllo i soldi che sono rimasti nel portafoglio e procedo con l'ordinazione: un panino per Oliver e due bottiglie d'acqua. Questo è ciò che si può permettere di comprare uno studente nel South Side. Ma la vergogna ha un tempo d'attesa, la ragazza prende solo le ordinazioni quindi passerà a seguito del pranzo un suo collega a ritirare i soldi. Annuisco debolmente e lancio un'altra occhiata a Oliver, mentre scorro a ritirare quanto richiesto, e lo noto con uno sguardo interessato ma leggermente perso che analizza l'intorno.

Per quanto assurdo, il suo vestiario non stona in un simile ambiente né tanto meno dà nell'occhio. Forse è a causa dello squallore generale nel quale abitiamo: molti dei presenti, infatti, risultano indifferenti.

«Grazie» dico, rivolgendomi al ragazzo che mi sta porgendo panino e bibite, permettendomi così di ritornare da questo mio strambo ospite dai capelli rossastri che, solo adesso, sembra essersi ricordato di me e della mia inusuale offerta di un pasto.

«Sei elegante» mi dice, dopo che gli ho servito il cibo, e una simile considerazione mi fa alzare un sopracciglio. Generando anche una rabbia latente, lo confesso.

«Perché ci stia ancora provando? È perché ti ho confessato di essere gay?»

Come risposta, si limita a stringersi nelle spalle afferrando un panino e scartandone il contenuto.

«Stavo solo facendo una considerazione, per capire da dove vieni. Sei di una famiglia importante?»

Per poco non rido. «Come ti viene di chiedermelo? Una marchetta non dovrebbe notare gli abiti del cliente e il loro costo?»

La sua espressione si incupisce, e capisco di aver reso il senso di fastidio. Non è concorde affatto allo stile di vita che deve portare avanti eppure è consapevole di non potergli sfuggire, quale peggiore trappola.

«Sì, e infatti ci stavo ancora provando. È il mio mestiere, no? Magari cambi idea.» Risponde, rimangiandosi quanto detto in precedenza e tentando di sminuire, inutilmente, l'approccio della sua investigazione affatto passato inosservato.

Stappo con lentezza la chiusura della bottiglietta in plastica e ne verso il contenuto dividendolo tra i nostri due bicchieri, alla ricerca delle giuste parole da dire.

«Sono del South Side. Nessuna famiglia importante.»

«E allora perché mi hai guardato in quel modo, ieri?» Mi chiede subito dopo, prendendo la palla al balzo. Non capendo cosa intenda, aggrotto le sopracciglia e richiedo spiegazioni.

«In che modo ti ho fissato?»

«Come se provassi disgusto per me. Cosa c'è, damerino? Non ti sei ancora adeguato alla vita che viviamo qui?»

Richiudo la bottiglietta e, vergognandomi, non stacco gli occhi dall'etichetta nel rispondergli. «Non avrei voluto fissarti in nessun modo.»

«Ma lo hai fatto» mi dice, «e sei anche gay. Che disgusto puoi mai avere?»

Solo la nota di rimprovero nella sua voce mi costringe a sollevare lo sguardo e fissare dritto negli occhi marroni chiaro di Oliver, per poter dare prova della mia buona fede.

«Conosco questo posto proprio come te e lo abito ma la differenza, tra di noi, è che io lo combatto, mentre tu lo accetti.»

Il corpo di Oliver si inclina all'indietro, permettendogli di adeguarsi allo schienale della seduta in una posa di indifferente distacco.

«Nemmeno io sopporto questo posto ma, ehi? Cosa ci posso fare? Vivo qui, e questa è la mia vita.»

«Ed è per questo che hai iniziato con la droga? Per nascondere la tua resa?»

Ha decisamente uno sguardo vispo. Lo stesso di chi, attento a qualunque parola di troppo, non si lascia sfuggire nemmeno un ridicolo particolare. Quello che mi sorprende di più in lui, però, è la mancanza di femminile gestualità che aveva adottato per adescarmi. Come se tutti i gay si muovessero così, parlassero così, e gesticolassero tanto. Qualcuno, però, deve esserne rimasto interessato... perché temo che l'ultima dose di Oliver non sia stata troppo lontana e che, quelli che sto vedendo sulla sua pelle e nei suoi tic nervosi, siano i cenni di una prima insofferenza al proprio corpo.

«Dimmi un po', come hai detto che lo combatti tu?» Domanda, appoggiando i gomiti sul tavolo per farsi di nuovo vicino interessato dei miei errori e io sorrido, abbandonando per un attimo avanti il capo, perché la sua astuzia mi fa sorridere e concepire di essere al suo stesso pari.

È bello che anche Oliver sorrida, divertito complice di una triste ironia che ha lasciato intendere il mio gioco, e mi porta a sospirare profondamente, tornando dritto di fronte a lui, ma non riuscendo ancora a parlare.

Quali frasi lasciar trapelare e fino a che punto permettergli di intuire? Oliver è bravo... è divertente e maledettamente scaltro.

Si morde persino un labbro, per cercare di non far sfuggire il suo sorriso, mentre io dall'ansia sistemo il sopracciglio destro con l'unghia dell'indice e il polpastrello, in un movimento lento che è un abitudine in grado di farmi ragionare.

«Avanti, Francis, che cosa diavolo vuoi?»

Sfoggia un tono leggero, soggiogato dal mistero, ma è come se dentro quell'innocua richiesta ricca di ironia ci fosse una linea piatta di apatia che possono avere solo le persone già state ferite, in passato.

Non sono un bravo poliziotto da schierare in prima fila, il mio gioco si smaschera in meno di un attimo, ma so comprendere le persone e, per questo motivo, recepisco che l'assenza di filtri e bugie è la sola cosa in grado di farlo parlare.

«Chi ti vende la droga, Oliver?»

«Non sapevo fossi anche tu un accanito consumatore...» mi prende in giro, schivando facilmente la domanda.

«Sai già che non te lo chiedo per usarla.»

«Allora perché vuoi il nome del mio spacciatore, mi domando...»

L'ilarità abbandona del tutto il mio sguardo, satura di queste perdite di tempo che mi stanno allontanando sempre di più dal mio obbiettivo e gli occhi di Oliver, d'un tratto, brillano di un'inusuale arsura.

«Riguarda il tuo ex ragazzo, è una resa dei conti...»

«Dammi il nome, Oliver.»

«Non posso dartelo. A chi chiederei, poi?»

«Esistono fin troppi spacciatori, nel mondo. Quando sapranno che il South Side è rimasto scoperto, ricopriranno questo posto in un attimo. Ma, adesso, io voglio un nome. Di chi diavolo sono quelle scarpe nella via vecchia, Oliver

La pazienza che mi ha abbandonato del tutto lo spinge sempre di più a sorridere, e a non rispondermi. Il silenzio tra noi è carico di tensione e corrono come dei fili, impregnati di elettricità, tra di noi, lanciando scariche tutt'intorno.

Non tolgo gli occhi da lui nemmeno quando il cameriere porge sul tavolo il conto, andandosene. Recupero il portafogli e le banconote, le poso sopra lo scontrino... ma la sua mano è più veloce, e in un attimo me le strappa via. Corre fuori in un lampo e mi lascia solo con la visione del posto che ha abbandonato. Solo in pochi secondi.

Mi alzo di scatto e parto al suo inseguimento, con il cameriere alle spalle che minaccia di chiamare la polizia se non pago quanto richiesto ma lo ignoro, la chiamasse pure, Carlail sa cosa sta succedendo. E mi maledico mentalmente pensando al fallimento di questo primo approccio.

La nuca di Oliver è visibile a malapena, distante molti metri da me, ma mi permette di seguire la sua corsa e la meta verso la quale pare andare incontro.

Stringo le mani in due pugni, a causa della rabbia, mentre i piedi negli anfibi calpestano con forza il suolo e il cappotto mi vortica attorno, complice della velocità che il corpo mi sta ancora permettendo di sfoggiare, lasciandomi godere dell'espressione preoccupata di Oliver quando volta la testa e mi trova.

In un tentativo patetico, lascia cadere delle casse a terra per ostacolarmi, e nonostante la distanza che ho bruciato tra di noi e la vicinanza a quell'ostacolo lo supero e riesco ad afferrare Oliver per la calotta degli abiti prima che sfugga via di nuovo.

Una fitta lancinante al costato mi supplica di avere clemenza, di lasciarlo vincere pur di riposare ma non le do ascolto e riparto a correre, senza staccare gli occhi dalla sua nuca e dalle gambe nude che marciano veloci.

Sto per raggiungerlo dentro un edificio quando un uomo mi si piazza di fronte. Non è da solo e, con entrambe le mani, mi spinge all'indietro. Oliver mi sta fissando da dentro la casa con il fiato rotto, le mani posate sulle ginocchia e uno sguardo terrorizzato, quasi supplichevole di un perdono. Dove accidenti mi ha portato?

«Che succede, qui? Cerchi guai?» Mi dice il primo colosso del gruppo, facendomi stazionare davanti a un pettorale grande quanto la mia testa.

Sì, arretro, non volendo entrare in rissa con tipi del genere, grossi come montagne e tutti uguali nella calvizie e nei neri abiti. La situazione peggiora quando, da dietro i tre colossi, vedo comprare un uomo con un lungo cappotto in pelle nera, capelli lisci a metà schiena e un serramanico che si passa tra le dita.

Lancio uno sguardo di puro odio a Oliver, gesto che lo spinge a risalire veloce le scale mentre l'ultima figura, decisamente più piccola delle altre, mi viene incontro.

Tento di ripristinare il respiro e sollevo il busto, pronto a fronteggiare questa specie di zingaro dai denti d'oro scricchiolanti che accarezza con la lingua, mentre pizzica la punta del coltello.

«Problemi con il nostro Olly, straniero?» Domanda nella mia direzione ed io, consapevole che anche il coraggio ha il suo prezzo, decido comunque di rispondergli.

«Mi ha derubato» affermo, e il sopracciglio destro di quello che ormai credo essere, a tutti gli effetti, il suo protettore, si solleva fino all'attaccatura dei capelli, preso in contropiede dalla mia audacia. Ma poi sorride, in maniera del tutto accennata, per non dimostrare la certezza che sa sfoggiare questa mia affermazione.

«Chi gode, poi paga» commenta quindi, portando avanti l'arcata inferiore dei denti in uno schiocco che sembra simboleggiare il tentativo di togliere qualcosa da essi.

Con disgusto, scivolo lungo la sua figura magra e sulla maglia rossa di lana tappezzata da buchi senza lasciarmi sfuggire nessuna sua strambalata mossa.

«Beh, io non ho goduto.»

«Noi ora sì, quindi gira a largo, bel bambolotto, almeno che tu non voglia prendere una stanza in affitto qui. Mi occupo dei pagamenti, accetto pure la gente come il piccolo Olly ma se il tuo scopo è avere problemi con noi... beh, ti consiglio di andartene prima di farti troppo male.»

In quest'ultima minaccia sono contenuti anche i passi in avanti dei tre scagnozzi pelati che gli fanno da scudo, sporti in avanti nella mia direzione solo per sentire quale delle due cose preferisca ottenere. Non sono interessato a nessuna delle due così continuo a retrocedere, generando una mezza risata sulla bocca dello zingaro, e a sollevare lo sguardo verso l'unica finestra priva di tende dietro la quale vedo Oliver intento ad osservare la scena.

Non è finita qui, tento di comunicargli con gli occhi, arrabbiato come non mai per il tiro mancino che mi ha giocato, e di risposta gli vedo appoggiare la schiena al cornicione, quasi non aspettasse altro.

Gli uomini, nel frattempo, avanzano e una volta imposta sufficiente distanza dall'ingresso di quell'orribile casa degli orrori, lo zingaro si volta di nuovo dandomi la schiena e un breve cenno di saluto.

«Alla prossima, belloccio.»

Vorrei replicare con una frase sferzante ma qualcosa attira il mio sguardo. Nonostante i passi lenti che lo zingaro compie, riesco a vedere a questa distanza il colore rosso delle suola e un ricordo, di colpo, viene alla luce. La voce di Gyasi sferza veloce da una parte all'altra del cervello e mi convince a retrocedere con più convinzione, perché finalmente ho una pista da seguire.

Non so perché non ci abbia pensato prima, forse il dolore per la sua perdita mi aveva costretto ad annegare nell'oblio la maggior parte dei nostri ricordi, ma convivere con la sua morte non è solo necessario ma è anche risolutivo. Conosco il luogo verso il quale andare e non è distante.

Tutto ciò che c'è di sbagliato è già in questa terra, e vive da sempre sopra le nostre teste.

Affretto il passo finché non ritorno al principio, tra una casa rossa dall'intonaco pericolate e una di un giallo sbiadito... e tra di loro, quel filo invisibile che sorregge le scarpe.

Devo trovare il modo di prenderle, senza reciderne l'appoggio. Solo così potranno tornare al loro posto.

Osservo la casa di sinistra e, con un veloce sguardo, capisco che è disabitata e scardinata, ormai. Facilmente accessibile dall'ingresso. Cammino verso di lei e risalgo la rampa di scale che si presenta, con l'interezza del piano terra, di fronte a me. Non ci sono stanze, solo questi gradini, per un avamposto affatto controllato che mi conduce presto fino al piano superiore.

La finestra è aperta e, oltre essa, vi è il filo con appese le scarpe. Prendo un profondo respiro e slego il nodo che gli permette di unirsi all'edificio tramite un uncino di ferro.
In un attimo ho il controllo della corda.

Inclino le mani verso il basso ed il filo ne segue la tratta, lasciando scivolare le scarpe fino a me.

Sorrido vittorioso ed è così che poso le scarpe a terra, racchiudo di nuovo l'estremità in un nodo per non perderla e dirigendo quindi l'attenzione verso questo paio di sneakers.

Si tratta di un modello recente, bianco e nero, sufficientemente giovanile da farmi credere che io e il trafficante di droga di questa città possiamo essere coetani.

Mi ha sempre affascinato il rischio, mescolato con la sfrontatezza. Per questo motivo la storia delle scarpe, come appropriazione territoriale, non mi era uscita dalla testa, da che Gyasi me ne ha giustificata la presenza, e per un attrazione ancora più forte non sono riuscito a dimenticare che il capo klan compie un altro ulteriore gesto, per rafforzare il suo passaggio.

Alzo con un dito la suoletta interna della scarpa destra e sorrido, vedendo scritto lungo tutta la pianta del piede, con un pennarello nero e indelebile a caratteri maiuscoli, il nome del proprietario.

Rais.

La sfrontatezza non sempre ripaga, e il proprietario di queste scarpe mi ha appena offerto la strada per dimostrarglielo.

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