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84- Proteggere è sinonimo di amare

P.O.V.
Rais

Certe azioni ti regalano dei marchi. Sensazioni generate come da un ustione sul primo strato di pelle impossibile da far andare via con dell'acqua calda e del sapone, cosa che li rende alquanto nocivi per la salute della mente. Che genere di male è quello che non si può sconfiggere? Alcuni dottori lo definirebbero inevitabile, intrinseco come è alla natura umana, ma in una vita precedente ero stato capace di scegliere. Era stata mia la decisione di percorrere una strada lastricata di sbagli ed ora mi trovo a fare i conti con ciò che questo comporta.

Voltarsi, lungo una strada, per verificare che nessuno ci segua era stato inevitabile perché amo Francis più di qualsiasi altra persona al mondo e non posso rischiare, non posso rischiare, che qualcuno gli faccia del male. Potrà essere definita una mancanza di coraggio la mia veloce resa nei confronti di William ma era stata dettata da un insieme di maggiori fattori, uno su tutti la paura: sapere di non aver mai avuto niente che mi appartenesse e sentire di amare, come lo amo, Francis in questo modo capace di riempirmi di entusiasmo e di terrore mi aveva condotto all'idea di non potervi rinunciare.
Da sempre ogni cosa è stata corrotta e sporca nella mia vita, sbagliata al punto tale da essere troppo favorevole ad esterni giudizi ma con Francis non era stato cosi. Devo proteggerlo, perché lo amo. Non c'è niente di più semplice.

William non può ferirlo e non deve toccarlo perché non gli è permesso. Qualsiasi gesto provenga da quelle mani, qualsiasi parola fuoriesca da quella bocca sarebbe frenata dal mio ostile divieto.

Eppure sento che qualcosa è stato alterato: si tratta di una sottile percezione che si presenta nelle mie giornate come quel fischio in testa che possono avere solo i pazzi o le persone con l'orecchio tanto fine da essere costantemente a caccia di un invisibile nemico.
L'alterazione nel clima generale si era manifestata da soli pochi giorni e camminava al mio fianco, passo stanco dopo passo stanco, suggerendomi l'ipotesi più terrificante che la mia mente potesse mai generare ovvero l'idea che Francis potesse aver capito in qualche modo tutto e che anche William si fosse accorto di questo. Se solo una simile ipotesi si approcciasse al vero, allora la vita di Francis sarebbe in pericolo e il mio tentativo di schierarmi in sua difesa risulterebbe del tutto vano. Ad ogni modo non credo seriamente che sia possibile. Da dopo quel cazzotto ho imparato a calibrare bene parole e gesti, Francis non può aver capito nulla o aver visto nulla.

Parlando di marchi, la carezza di William è ancora al centro della mia nuca. Brucia come una lacrima di ceralacca che aderisce ad un foglio.

Che cosa era cambiato? Passeggio nei silenzi, noto i suoi occhi persi. Mi innamoro dell'apparente stato di tranquillità di questi attimi con la consapevolezza che non possano essere sinceri.
Quale crudeltà quella che risulta intrinseca all'amore. La potenza di un cuore che illude e delude così come sta facendo il mio. Francis mi odierebbe se solo sapesse che cosa mi sto spingendo a fare, mentirgli al solo fine di tenerlo al sicuro, eppure dovrebbe capire anche quanto per me sia importante proteggerlo. Non ho mai lottato per niente, tantomeno per la mia vita. Accasciato lungo il pavimento di un edificio sporco e abbandonato, con tutta quell'eroina mischiata a cocaina nel corpo, mi ero reso conto, spalancando gli occhi verso l'inferno che avevo intorno, nella stessa inquietante condizione imposta dai feretri dei defunti una volta lasciato agli altri il compito di rimuovere la loro carcassa, che niente aveva un senso sincero di tutto ciò che facevo.

Non avrei perso niente se non il respiro, una volta che la dea della morte fosse arrivata fino alla mia invocazione e mi avesse stretto tra le braccia, per cui la vita era tanto sottile quanto il filo sul quale avevo appeso le mie scarpe nella via vecchia in un sinonimo di possesso.
Era stato Francis a farmi rendere conto di ciò che c'era al di sotto, dell'importanza assunta da quelle pietre rotte che facevano da pavimento ai tre metri d'altezza ai quali avevo legato le mie suole, perché quel luogo non era terra di nessuno ma sanguinava come un corpo in un sistema di arterie zampillanti, feroci se arrivate ad essere recise. Allora avevo capito che cosa significasse essere davvero vivi. Quale emozione fosse la vera rabbia o la tristezza il giorno in cui era arrivato a sussurrarmi tanto vicino da sfidare ogni sua forma di perbenismo, per non parlare dell'amore.

Dio, l'avevo sempre evitato. Avevo temuto il rischio di lasciare il mio cuore in mano mentre adesso non posso fare altrimenti.

Braccia incrociate ad altezza sterno, sguardo contratto, occhi rivolti verso di lui mentre tra i palmi conservo la preziosa ritmica del mio battito, non posso che domandarmi, come infinite volte prima di questa, che cosa passi davvero tra i suoi pensieri mentre stiamo camminando per poter raggiungere un posto sicuro. Su che cosa veramente ragioni.

Ormai sono passati giorni dall'attimo in cui avevo visto Carlail uscire dall'archivio con espressione soddisfatta e sguardo serio. Quasi gli brillavano gli occhi ed allora ho capito che Francis aveva avuto un'altra delle sue brillanti idee che ci avrebbero portati sempre più vicino alla conquista della vittoria.

Aveva notato il suggerimento che gli avevo donato del nome "Richard"? Ne aveva fatto buon uso?
Potrà essere sembrata un'informazione da niente ma scoprire finalmente il vero nome del patriarca Lee mi aveva dato l'impressione di potergli essere più vicino. Tanto vicino da poter sfiorare quel suo viso che avevo intravisto nelle notti irradiate soltanto dalla luce della luna nel suo studio.

Sarebbe stata una scoperta bellissima accorgersi di come quell'uomo tutto d'un pezzo potesse celare anche inevitabili difetti sotto il suo manto di perfetta sicurezza, eppure scovare i segreti risulta alquanto difficile dal momento che vengono nascosti tanto bene al di sotto di dosi impossibili di silenzi.

Gli stessi che sfoggia lui, avanzando con lentezza lungo questa leggera salita. I capelli neri reagiscono al suo passo, muovendosi leggeri a sfiorargli la punta dell'orecchio in una carezza d'amante, mentre gli occhi verdi reagiscono alla vista di nuove e scadenti case.
Vorrei vedere a suo modo, percepire la bellezza di questo posto. Carpire e trarre forza da ciò che non è possibile vedere.
In che modo ci riesce? Come può farsi costantemente carico di tutto e risultare sempre così inflessibile, lieve, nei confronti della vita?

Se le anime potessero fare rumore allora la sua sarebbe il leggero suono di campanelli, quasi paragonabile alla danza sonora di stecche di ferro se lasciate appese al di sopra di una porta, oltre il vetro rivolto verso l'esterno, in una giornata di leggero vento.
Corrisponderebbe alla gentilezza, all'incanto, all'eleganza.

Io, invece, non avrei alcun suono. Sarei il tormentoso silenzio di una scena di film carica di preoccupazione che, solo in un determinato momento, si infrange con il piccolo fracasso di un ramoscello secco portato a rompersi. Trac. Fine del suono. Il gambo del ramoscello che si sfiletta in steli più piccoli alla stregua di una vecchia corda di violino.
In questa immagine vedo solo dolore e capisco che se non fosse sopraggiunto, assieme a tutte quell'emozioni, l'amore per Francis sarei vissuto nella sua idolatria e la religione che avrei professata sarebbe stata il credo di un uomo da sempre solo, incerto, impaurito, pronto ad accogliere una nuova legge del coraggio manifestatasi in città.

Quali poteri hanno quegli occhi verdi e perché, tra essi, non vi è anche il dono della parola?

«Francis...» tento di incoraggiarlo, un tempo ne sarei stato in grado. Ora la mia voce suscita invece solo come una forma di atroce dolore nell'iride destra che mi rivolge il suo profilo. La bocca si arriccia nel disgusto di un saporaccio.

«Siamo quasi arrivati» mi dice, quasi non lo sapessi da solo. Casa mia svetta nella desolazione di un vicinato composto solo da campi di verde in coltivato e interrotto solo dal rettilineo della strada che stiamo percorrendo.

Ho il terrore di come andrà a finire.
Ho già vissuto un esperienza simile in orfanotrofio: la suora che si occupava di me, la più affezionata, un giorno mi aveva accompagnato fino al mio letto all'interno della camerata, dopo un intero pomeriggio passato al sole, senza avere il coraggio di dirmi che mi avrebbe lasciato. Qualcuno di più importante di noi aveva già decretato il suo trasferimento. Aveva una faccia addolorata non appena aveva provato a mettermi a letto, guardandomi come fosse colpa solo sua la prospettiva di non avere coraggio di dirmi cosa stava accadendo.
La verità era che non glielo avevo mai permesso, non le davo il tempo arrivando ad interrompere le sue frasi perché avevo il terrore che se solo l'avesse pronunciate davvero allora tutto sarebbe finito, divenuto reale, concreto.

La consapevolezza di non indossare più una simile paura mi riempie di maturità e mi concede di arrestare i passi lungo l'asfalto.
Nella testa rivedo il sorriso di Damien. Nella realtà noto la confusione nel volto di Francis.

«Non vieni?»

«No» rispondo con concezione di causa, allontanandomi dall'ipotesi di stendermi ad occhi chiusi nel mio letto, riaprirli ed il giorno dopo trovarmi terribilmente solo. La sensazione era stata tanto orribile, quella volta, da non avermi abbandonato mai.

«Che vuoi dire?» Mi domanda, affondando una mano nella tasca dei pantaloni una volta che si è girato del tutto per fissarmi. Ho notato che è un gesto che ripete molto spesso, ultimamente. Gli consente di sfoggiare una posa spavalda ed indifferente ai miei capricci, nonostante gli abiti che è tornato ad indossare e che mi ricordano di un uomo totalmente differente.

Ha abbandonato la sua divisa. Avrei creduto, vista la sua fierezza, che non se la sarebbe mai tolta. Forse la precauzione di potere percorrere con sicurezza le strade insieme senza che nessuno mi notasse, forse chissà che altro, ma ha ripreso tra le mani il suo vecchio cappotto nero scolorito dagli anni.
Quasi non ha stagione quel soprabito ma è la firma evidente della sua personalità. Eleganza e mistero. Povertà e praticità. Ci sono degli aspetti in Francis che non mutano nemmeno nel possesso di un distintivo: è ancora lo stesso di un tempo, forse ancora più triste, mentre io mi sento rinato.

«Che cosa farai dopo che mi avrai fatto entrare in casa?»

«Tornerò in centrale.»

«Potevi non andartene, allora.»

«Dovevo scortarti fino a qui.»

«Gentile da parte tua essere così ligio al dovere.»

La mia risposta è tanto piena di veleno da spingerlo ad inclinare appena il collo in un semiarco in grado di porre in evidenza il pomo d'Adamo nella scottante luce del mezzogiorno.
La stanchezza viene dipinta a caratteri cubitali sul suo viso nonostante l'assenza di occhiaie faccia ipotizzare la presenza di sonni sereni nelle sue notti. Solo una bugia; ho capito da tempo di dover cercare, con lui, ben al di sotto dell'apparenza e del suo modo di rendere facile tutto ciò che fa. Un demone si è insinuato sotto la sua pelle e voglio comprenderne l'origine.

«Preferisci che ti conduca da mio zio? Ti sei stancato di stare qui?»

A quanto pare ha compreso quanto Damien riesca a farmi davvero bene ai nervi. Peccato che non sia l'uomo dagli occhi verdi a cui desidero stare più vicino quindi sono costretto a declinare l'offerta.

«Preferirei rimanere con te, invece.»

Tace per qualche istante, rimanendo fermo a ragionare.
Nessuno direbbe che sia lo stesso uomo che a malapena una settimana fa era corso da me, dentro ad una stanza affrescata da scene dei nostri ricordi, per potermi baciare con disperazione in bocca e fare l'amore dopo tutto quel tempo trascorso a pensarci. Non riuscirebbero a farlo perché la passione è stata seppellita sotto cumuli di pesanti macerie e andrebbe lo stesso bene, in una relazione molto spesso è la tempesta a sostituire il fuoco, non c'è niente di male ma il dialogo dovrebbe aprire porte, lasciare intravedere un piccolo uscio, concedere riposo al cuore.

«Sai che non era negli accordi con la polizia. Carlail ha suggerito un limite alla tua permanenza al distretto.»

«Lo ha fatto solo di recente, senza spiegarmene il motivo.»

«Non crede davvero che un pentito possa rimanere pentito a lungo. Diffida dall'ipotesi che ti sia allontanato dalla tua vecchia vita per sempre.»

«Vale lo stesso per te?» Tace per cui sono io ad essere costretto a scoprire le mie carte. «Ho saputo da dei tuoi colleghi che sei stato tu a suggerire una simile idea a Carlail. Allontanarmi dalla centrale, intendo.»

«L'ho fatto.»

«Perché?»

«Dovevo saperti in un posto più sicuro.»

«Più sicuro di una centrale di polizia?»

Resta a fissarmi. «Anche in un luogo simile si nascondono dei mostri.»

No, non può aver capito, per cui mi si stringe il cuore e la gola, arrivo all'ipotesi di alcune lacrime, all'idea assurda instillatami da William che Francis stia facendo tutto questo al solo scopo di rimanere da solo con Gareth. Sono stati sul serio amanti? Per questo, terrorizzato dall'idea che possa averlo scoperto, ha smesso di baciarmi e amarmi?

Non chiedo tanto. Non sono esigente. Non amo manifestarmi in pubblico, e per tutto il tempo trascorso insieme siamo stati alla centrale. Vorrei solo delle certezze nella mia vita piena di dubbi che tento di sradicarmi di dosso ogni volta che William fissa verso di me. Non voglio interrompere i silenzi di Francis, solo farne parte.
Ecco la maturità che sento di aver ottenuto, il che non è molto (come non è molto aver scoperto il nome Richard) ma mi consente di avere più vicino a me l'amore.
Che cosa ti ha raggiunto di così pauroso da farti arretrare, Francis? Fa che non sia rimorso.
Probabilmente, nonostante il mio orgoglio, sarei disposto ad accettare anche un suo tradimento al solo scopo di non perderlo.

Perdonerei Francis di tutto ma Gareth mai.

«Non voglio tornare in centrale o passare adesso la porta di casa mia. Voglio trascorrere del tempo con te, al sicuro. Che cosa ne pensi? Carlail perdonerà un allontanamento dal tuo posto di lavoro? Hai già fatto il doppio delle ore previste, l'ho capito.»

Forse sono stato troppo avventato nel dimostrargli tutto l'interesse che ho rivolto al suo lavoro ma come risultato ottengo la marcia lenta dei suoi passi che si fanno più vicino ed il suo sguardo a poca distanza dal viso.

«Vuoi rimanere con me.»

«Tanto difficile da capire?» Ribatto, per poi cedere a maggiore delicatezza. «L'avevo già detto, no? D'ora in poi non abbandonerò più il tuo fianco.»

«L'hai detto il giorno in cui ti ho presentato a William» ricorda, rimanendo a fissarmi dopo aver pronunciato una simile frase. Mi sforzo di non rabbrividire ma ho come l'impressione che dal mio sguardo traspaia qualcosa. Se anche così fosse Francis non me lo darebbe ad intendere. «Il tuo è un compito piuttosto spavaldo, non pensi?»

Mi stringo nelle spalle e copio la sua posa, aggiungendo però anche l'altra mano nella tasca.

«Tu proteggi me ed io proteggo te. Non vedo cosa possa esserci di difficile da capire.»

Anche stavolta non mi tocca. Le mani restano schiave delle tasche e la costipazione dei jeans diviene una prigionia che non ci lascia liberi di esprimerci né di viverci.
Che cosa ridicola e piena di tensione. Vorrei rassicurarlo di come già abbia provveduto a me in un modo esemplare, per cui non dovrebbe preoccuparsi di niente.
Fortuna che oggi pare essere la giornata di liberazione da catene ben più forti di noi, per cui in parte torniamo possessori di un linguaggio che sappia esprimerci.

«Credo di conoscere un posto ma è lontano da qui» mi dice, inchiodandomi con quel verde che mi procura un brivido diverso rispetto a quello correlato al principe dei Lee.

«Fa niente, iniziamo a camminare.» Non lui né io prima, insieme. Accetta il compromesso con la solennità di un santo e fa marcia indietro, rivolgendo così alla mia casa la vista elegante della sua schiena.

Lungo la tratta incontriamo meno persone che dentro ad un deserto. Non si presenta niente tranne che che un piccolo tabaccaio ad angolo e poi ecco che ci raggiungo piccoli insediamenti della città: una farmacia, un piccolo supermercato, qualche negozio, almeno tre parrucchieri, un ristorante, una lavanderia, qualche sala ri adibita allo svago degli anziani per poi procedere verso alti edifici immobili come dormitori, case di famiglie impilate tra loro in una carcassa che prende il nome di condominio o di micro società, arrivando così al cuore di ciò che è veramente South Side.

Le suole delle nostre scarpe si sporcano prima di polvere, poi appena della terra che era basamento alla piccola isola di verde a fungere da comunale giardino al centro di questi enormi blocchi grigi, schierati a corte e pieni di balconi sui quali svettano vasi di fiori e ondeggianti panni. Ci fermiamo davanti ad un portone, marrone e dall'aspetto consumato ma mai come l'ingresso.

Ad ogni modo la mia attenzione non si sofferma troppo sullo stato di salute delle cose quanto sulla praticità e consumata esperienza con la quale Francis svolge operazioni semplici come quelle di infilare le chiavi nella toppa, ruotare il corpo in direzione dell'ingresso alle scale nonostante il buio dell'atrio e rimanere rigido con la schiena nonostante la pendenza dei gradini.

Un enorme ipotesi piena di febbricitante dubbio si erge maestosa nella mia direzione ma tento di mascherarla dietro un pesante sipario di cinismo per non farmi illudere dalla confidenza che credo di avere, ma i fatti vengono resi noti non appena Francis percorre l'ultima rampa di scale. I suoi passi diminuiscono la loro caduce lentezza allo scopo di poter gestire la rotazione del mazzo di chiavi tra le dita così da trovare la sola in grado di spalancare la porta dei misteri.

Non trovo il coraggio di dire una sola parola. Rimango alle sue spalle mentre compie il gesto lento di inserire ancora una volta le chiavi nella toppa con la consapevolezza che sono dietro di lui ed immobile a fissarlo. Forse mi aspetto un ripensamento. Che cosa ridicola. Dovrebbe essere già passato il tempo dei segreti, racchiuso fino alla morte dell'anima in quei giorni che avevano visto i nostri primi confronti ed il mio periodo di disintossicazione. Io che avanzo richieste e lui che senza esitazione le recide come steli. Le mie domande che cadevano nel vuoto. "Dove vai?" " Con chi sei stato?" "Chi sei?" "Da dove vieni?". Interrogativi che avevamo già avuto delle risposte ma mai delle facce, mai degli spazi.

Quando la porta si apre, risospinta dal suo palmo aperto che la esorta a farlo, Francis si volta verso di me al fine di rendere chiaro ciò che il mio cuore, iracondo di una tempesta che è solo bonaccia, ha già compreso.

«Questa è casa mia» mi dice, annullando ogni sentimento negativo che potevo aver posseduto.
Ora le pareti scorticate dai ratti dell'umidità dal loro intonaco mi appaiono come lastre d'oro, i pomelli delle porte scoloriti dall'usura scintillanti diamanti che sono solo la punta di un tesoro molto più grande. «Avanti, entra.»

Lo fa lui per primo, rimanendo a fissarmi e retrocedendo in quel luogo all'apparenza disabitato ma dove so esserci ben altri tre cuori, portatori del suo stesso cognome.

Decide di non campionare ogni stanza con la sua voce, lasciando ai miei occhi il libero impegno di scrutare nei ritagli della sua vita e dandomi così una scusa per poter soffermare gli occhi su specifici oggetti.
Non mi sorprende l'assenza di fotografie, nella nostra povertà costano troppo, per cui mi domando che cosa si provi ad avere affetti che non riescono ad essere serbati nello scatto di un'istantanea. Forse, se avuti troppo giovani, andranno persi. Ho il terrore dell'oblio. Mi riprometto di fare una foto insieme, un giorno.

Avanzo per la casa notando come la sola illuminazione esterna illumini questi spazi che sto percorrendo con familiarità non mia, resettando a zero tutte le idee non appena raggiungo la sua stanza.
Rimango per un attimo immobile prima di compiere quel piccolo passo che mi concede di entrare: questa volta sono io a farmi avanti e lui seguirmi passo per passo.

Per prima cosa, a colpirmi è la precisione che regna sovrana. Non un solo oggetto sembra essere fuori posto e arrivo a pensare che questo rifletta bene il carattere di Francis. Poi noto una serie incolmabile di cd musicali. Mi avvicino a loro con la stessa curiosità di un impiccione, accorgendomi degli importanti e ricercati nomi che vi sono presenti, accompagnati sempre da un'etichetta relativa ad uno stracciato prezzo in grado di farmi immaginare un giovane Francis passeggiare per strada a caccia di succulente occasioni. Ad ogni modo i gusti sono egregi, o forse arrivo a pensarlo perché non differiscono dai miei. Non avrei mai immaginato questa sua conoscenza musicale ma devo dire che gli sta bene.
A seguito, un quantitativo esagerato di libri interrotti dall'esposizione di decide di nere agende. Immagino che su di esse vi siano presenti appunti di anni relativi ai suoi casi ma il pensiero viene dirottato altrove dall'attenzione che si è soffermata sulla piccola pianola addossata al muro, in una parte del corridoio che non avevo notato.

«Tu suoni?»

Scuote lento la testa, non appena il suo silenzio mi esorta a tornare a fissarlo in viso.

«Mio padre sta insegnando a mio fratello le prime note. Io non ho mai voluto imparare.»

«Per quale motivo?»

«Ho cercato la sua approvazione per molto tempo» mi confessa, soffermandosi ora anche lui sui tasti neri e bianchi. «Quando ho capito quanto poco potesse essere utile ho preferito dedicarmi solo a ciò che mi interessava davvero.»

«Mi piace qui. Capisco che è la tua stanza da ogni particolare» commento, avendo captato la sola asimmetria presente in questo posto e determinata dall'inclinazione che detiene sempre per il cuscino. Notandolo, Francis sorride. «Proprio come hai detto, è un posto sicuro.»

Non vorrei rompere alcuna legge sia vincolata a questo luogo, ma allo stesso tempo vorrei tanto baciarlo. So che non sono in molti ad essere a conoscenza della sua omosessualità e so che la famiglia ne è completamente all'oscuro, per cui non sarebbe il caso di sdraiarci insieme sulla tentazione che questo matrimoniale letto sembra gridare, ma lo sento più vicino, ora. Sento che Francis è tornato da me. Magari non se ne era mai andato. Magari erano solo mie paure.

«Sono contento che ti piaccia.»

Vedo le sue labbra vicino. Sento il suo respiro.
Abbasso la testa verso terra per sfuggire ad una tentazione alla quale la mia sola mente ha dato vita, poi però la sua mano si posa lungo il mio viso e mi esorta a sollevare lo sguardo.
Le nostre bocche si uniscono in un bacio lento che è lenitivo a tutti i silenzi. Il semplice sfioramento acuisce di agonia dolce non appena anche le lingue raggiungono un contatto.

La saliva si mescola alla stregua di una divina benedizione e non conserva in sé nessun tipo di peccato. Nemmeno quando udiamo la porta di casa aprirsi. Continuiamo a baciarci lenti mentre i passi si fanno più vicini assieme alle voci, fin tanto da comandare il nostro distacco.
Quando si allontana, Francis lo fa fissandomi, lasciandomi la mano lungo il viso come per assicurarsi che stessi bene. Sembra non importargli che possano vederci o fraintenderci: la sua preoccupazione è come se vincesse su tutto e questo mi da modo di guadagnarmi dell'altro coraggio.
Abbassa verso terra la mano appena poco prima dell'arrivo della madre.

«Francis... non sapevo che avessimo ospiti.»

«Mamma, questo è Ryan. Ryan, mia madre.»

«Molto piacere signora.» Con le labbra bagnate del bacio del figlio arrivo a stringere la mano della donna che non sa niente di noi ma che continua a sorridere, contenta di questa sorpresa.

«Non mi presenta molto spesso i suoi amici, tranne quella scapestrata di Amelie. Credevo non ne avesse altri!»

«Ci sono ancora io» commento, pensando in uno scompartimento del cervello di non aver avuto ancora modo di associare un volto a quel nome.
Avevo conosciuto tutti, giù al villaggio, tranne lei.

«Che cosa mangi per cena di solito? Che cosa ti posso preparare?» Domanda premurosa e per un secondo mi riempio di colpa all'idea di celarle un segreto. La domanda se questo sia il modo in cui Francis si sente ogni giorno mi arriva spedita contro come un treno.

«Tutto ciò che deciderà di cucinare andrà più che bene.»

«Però... avrò modo di chiederti durante la cena da chi hai appreso simili buone maniere.»

«Mamma, dove è papà?»

«Non rientrerà questa sera, ha il turno fuori. Aggiungeremo comunque un posto in più per Ryan, semmai dovesse tornare e decidesse di sedersi a tavola con noi.»

Alla conclusione della frase, la madre di Francis scompare lungo il corridoio e viene sostituita da una figura notevolmente più piccola.
Fisso nella sua direzione, con attenzioni di particolari, rimanendo stupito dalla somiglianza con Francis.

«Ryan, questo è mio fratello, Caleb.»

Ha gli occhi verdi come i suoi, come Damien, ma ha come uno sguardo più concentrato, quasi fosse pericolosamente attento riguardo ogni cambiamento che stesse avvenendo.

«Molto piacere, Caleb.»

«Piacere mio.»

Anche la sua voce, per quanto resa più limpida dalla giovane età, pare simile a quella di Francis, quasi come se in casa avesse preso vita una sua più piccola caricatura.
Osservo l'amore con cui il maggiore lo fissa andare via e con cui guarda me, consigliandomi di accomodarmi a tavola.

Il cibo non è molto ma comunque molto più di quanto abbia mai avuto. Dividerlo è ancora segno d'amore e rende più facile trascorrere con piacevolezza la serata.
Francis mi presenta come un collega di lavoro, elogia le gesta che ho compiuto nel risolvere i casi in sua assenza. Sua madre mi fissa con lo stesso orgoglio che vedo brillare negli occhi di lui. Improvvisamente mi sento rivestito come da una corazza in grado di proteggermi da tutto, forte e resistente più di qualsiasi altra difesa, e capisco come proteggere sia sinonimo di amare. Come vivere insieme, aprirsi, parlare, baciare, toccare possano essere una rassicurazione sufficiente per poter procedere con grinta nella vita.

Caleb continua a fissarmi durante tutta la cena ma non in modo maligno, quanto sinceramente incuriosito. Sono la quarta persona diversa in questa stanza piena di sosia e in qualche modo spicco al di sotto dell'insegna di estraneo. Non è importante, però.
Appena tutti sono distratti e la tavola è quasi spoglia, avverto la mano di Francis andare a caccia della mia in modo da stringerla. In quel contatto è presente la giusta forza e mentre osservo la sedia vuota a capotavola mi auguro che nessuna solitudine torni a raggiungermi.

Sto vivendo una vita piena di paure ma possederle è anche la sola condizione per poter vivere.
Non vorrei altro, adesso. Nelle risate generali di questa dolce e intelligente famiglia che mi ha accolto, nel calore di questa stretta di mano. Ho tutto ciò che ho sempre desiderato. Amore, felicità e una vera casa.

P.O.V.
Francis

Vorrei proteggerti da tutto, intrappolare questo tuo sorriso per sempre. Rassicurarti che ogni cosa possa andare per il verso giusto e che le nostre mani non si separeranno.
Osservo l'intreccio delle nostre dita mentre mia madre sparecchia la tavola.
Un gesto così celato ma pieno di reciproca forza. Non lo avevo donato ma lo avevo ricevuto, lo avevo preteso.

Tu sorridi nonostante tutto, Rais. La morte ti è passata vicino già una volta e tu l'avevi accolta, non ti eri sottratto. Questo ho imparato da te, che non scappi mai, non se in gioco c'è qualcosa a cui veramente tieni: ti ostinavi come un matto a parlare con Oliver durante i giorni di quella nostra prigionia, lottavi per scappare dalle sedute di gruppo per poter vivere una libertà che ti era parsa la più giusta ed ora ti sei posto dinanzi a me quasi fossi lo scudo del più temperato ferro.

Non avevi paura di fronte a William. Non gli hai dedicato un attimo della tua vacillazione mentre era di fronte a me, intento a fissarci. Mi avevi solo detto "io non me ne vado" e non lo hai fatto. Non avevo capito l'importanza di una simile promessa né tantomeno l'avevo associata alla condizione che stavamo vivendo.

Ti sei messo di fronte al mostro e hai fatto capire, a me e a lui, che non sarei stato solo perché tu non saresti scappato.

Che gesto incauto, prova di un amore che ormai ha perso le redini della prudenza. Per questo non posso evitare di toccarti, di baciarti e trarre da te forza. Per questo mi è risultato impossibile continuare a credere che tenerti lontano significasse proteggerti.

Prima d'ora non avevo nessuno.
Direi che è una frase che potresti dire anche tu, forse una di quelle che ti ripeti la notte o mentre ci baciamo, ma vale anche per me. Non avevo avuto nessuno così al mio fianco, schierato con me spalla a spalla in una comunione di idee che finalmente mi ha fatto capire di non essere solo a lottare.

Ercole, Cedric, Amy avevano altre guerre, altri ruoli. Ognuno di loro, agguerrito nella sua ira, rimaneva come a fissarmi nell'attesa di vedermi compiere l'azione che avrebbe dato inizio a tutto, ma tu no. Hai imparato a vivere in una simbiosi che ci condanna ad essere vicini, uniti in uno schieramento che è fronte unico. Non ho idea di come tu ci sia riuscito, di quale sia stato l'attimo in cui mi avevi raggiunto ma... non mi abbandonerai.

Ho paura, Rais. Paura che tutto questo possa finire. Che il mondo si sgretoli sotto il dominio di una forza che non sono stato in grado di prevedere.
Ho vissuto con lui per settimane, mesi, e non mi ero accorto di niente che potesse ricollegare i pezzi. Ho paura perché conosco i motivi per i quali temere il mio nemico, avendo imparato a conoscere la sua ferocia, l'imprevedibilità.

Ho paura perché correndo sempre da solo non avevo da preoccuparmi se al mio fianco qualcuno sarebbe rimasto ferito. L'unicità garantisce una sola chance alla direzionalità dei problemi e la solitudine salva così come certe volte condanna.

Sono scappato da te per paura che ti potessi fare male.
Che gesto codardo.

Stringo con più forza, sotto il tavolo, la tua mano, certo che mi basterebbe solo una tua richiesta per esporre la verità dinanzi ai presenti perché già sei entrato nella mia vita, più a fondo di quanto tu creda.

«Quindi ha conosciuto anche mio fratello Damien. Però... se è così, allora, alla prossima cena chiamiamo anche lui» dice mia madre ed io arrivo a sorridere, dandole il consenso di riunire tutte le parti del mio cuore.

Nel frattempo, continuo a fissarti. La tua rilassatezza e calma sono un motivo di invidia perché ne sono sempre stato io il possessore assoluto ma ora è come se mi stessero sfuggendo via di dosso. Solo trattenendo la tua mano il sangue continua a scorrere, la certezza si fa più concreta ed il coraggio mi si materializza in cuore.

Proteggere significa amare. Avere paura determina la presenza di qualcosa che non si è pronti a perdere.

Prima d'ora ho vestito le molte sfaccettature della fragilità, ma la precarietà della vita non mi era mai sembrata tanto effimera e cruenta, rispecchiando la sola mia debolezza che non vorrei mai fosse resa nota.

Perché amo in un modo spropositato la vita, la amo a tal punto da rifugiarmi nell'indifferenza all'idea di perderla ed è qualcosa alla quale sono scappato da sempre.

Schierato al tuo fianco so che sarà possibile sconfiggere la paura.
Forse non abbatterà del tutto certi mostri, ma ci darà modo di esistere in un esistenza che, solo se vinta, si dimostrerà davvero completa.

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