76- Nero quarzo
P.O.V.
Samuel
Un atroce beffa si nutre di me con l'inconveniente di una prospettiva che non mi ero prefigurato e veste gli abiti di un piccolo ragazzino capace di osservarmi con occhi tanto dolci, in grado di smacchiare parte del mio peccato.
«Che cosa hai, Attila? Ti senti poco bene?»
Vorrei riuscire a sorridergli, mentirgli e dire che questo mal di testa forse un giorno migliorerà ma come poterlo fare quando si ha la certezza che quest'aureola di dolore, sancita dall'intervento di affilate spine, altro non sia che la materializzazione di tutti i problemi?
«Non è niente, Tommy. Starò meglio» mi limito a riferirgli, lasciando cadere il gesto della mano contro la tempia che tanto lo aveva riempito di preoccupazione.
Eppure continua a non essere certo delle verità che un uomo avente il triplo dei suoi anni pare sancire.
Vorrei che continuasse ad essere diffidente verso tutto. Forse l'intelligenza può fungere nuovamente da arma e colmare lacune che i miei sbagli creano.
Pensavo di avere tutto sotto controllo ed invece...
Espiro con forza, concludendo la cosa con un sorriso diretto verso la piccola figura al centro del suo matrimoniale letto, ma dentro di me vorrei urlare.
Quanti di quegli orfani restano?
Temo di aver perso il conto all'interno di quelle situazioni confuse che avevano messo in dubbio ogni cosa.
Quale, il primo segnale?
Forse, la strada interrotta dai lavoratori serali la notte in cui, alla guida del camion trasportatore di sette di quelle giovani cavie, avevo programmato di metterli in salvo.
Rivedo il volto di quell'uomo, nella sua pettorina arancione per la strada, ruotare la mano nel segnale di continuare a procedere secondo il viale centrale, il solo che mi avrebbe condotto nel lungo vicolo a fondo chiuso nel quale terminava il mio viaggio già stabilito.
Ricordo quel volto e non conosco il motivo per il quale la mia mente l'abbia registrato tanto a fondo. Forse la paura del momento generata dalla certezza di star trasportando degli innocenti verso morte certa. Forse il sesto senso di qualcosa avente quasi la composizione di un errore. L'incongruenza più scorretta di un momento tanto sbagliato da essere perfetto. Forse un insieme di cose... ma rivedo, e rivedo, nella mente quella prima notte alla quale sono succeduti strani, quanti inconcludenti, eventi che mi avevano messo alla gogna. La sconfitta di un uomo che era certo di batterli tutti e che ora si trova costretto a sottostare al giudizio di un bambino avente la stessa età di quel gruppo che lui stesso ha condotto alla morte.
Se solo potesse vedere nella mia anima, Tommy probabilmente vomiterebbe. Gliel'ho visto fare spesso, ruotare il busto e rigettare l'anima nella catinella al fianco del letto, con tanta frequenza che l'infermiera si è interrogata su un possibile peggioramento della malattia del fegato.
Come dire, persino a lei, quanto possa essere stata la sola scelta da compiere al fine di metterlo in salvo?
Il piccolo, al quale ho imparato a volere troppo bene per rimanere imparziale, mi continua a fissare con la sua innocenza priva di limiti tramite la quale analizza lo stato in cui vergo e mi domando quanto abbia compreso della mia anima.
«Attila, secondo te perché non sto guarendo?» Domanda infatti, leggendomi i pensieri, facendomi ispirare di colpo e raddrizzare la schiena.
«Hai ancora dolori, piccolo?»
«Non molti, ma non faccio altro che star male.»
Picchietto tra di loro le mani, tese in avanti verso la sua direzione mentre i gomiti sono appoggiati contro le ginocchia.
«Vedrai che passerà, non devi preoccuparti.»
«In fondo, non è neanche tanto male stare tutto il giorno al letto! Ci sei tu a tenermi compagnia e mamma Dalia mi fa compagnia con le sue storie...»
«Sai che non mi piace quando è lei a raccontartele» affermo lugubre, nel ricordo di quelle tetre fiabe, tristi nella loro morale, di cui il piccolo non poteva cogliere a pieno il significato.
Ed è infatti per questo che inclina la sua testa ricolma di riccioli mentre si procura di imitare la morsa delle mie mani, ruotando persino una spalla nella trazione.
«Preferisci che lo faccia zia Nerissa?»
«Le sue storie sono più belle e più felici.»
«Zio ma quindi chi ti piace di più? Nerissa o Dalia?»
La naturalezza dei piccoli non ha confini e spinge le persone a scontrarsi con i demoni assieme ai quali convivono.
Non posso lasciargli comprendere anche questo, però. È rischioso per entrambi, specie per Nerissa che della confusione dei miei pensieri non risulta proprietaria.
«Sto per sposare Dalia, piccolo. Lo sai. Tra pochi giorni c'è il matrimonio.»
«Voglio molto bene a mamma Dalia...» mormora, facendomi deglutire nel sentirlo.
«Lo so...»
«... ma secondo me tu ne vuoi di più a zia Nerissa. Sei sempre con lei e sei felice se passiamo del tempo tutti e tre insieme.»
Dunque è così che appaiamo ai suoi occhi, la proiezione di una famiglia felice riunita intorno a lui per riempirlo d'amore.
Ammetto di aver intravisto nella mente quell'idilliaca immagine prima ancora che fosse lui a potermene parlare eppure mai come ora, dopo aver sentito la tenerezza con la quale ha pronunciato la frase e con la quale sorride, divertito furfante, al totale slittamento della mia voce intrappolata alla bocca dello stomaco, mai come ora ero riuscito a trarne tutto questo calore.
Rivedo Nerissa al mio fianco su una coperta posta distesa lungo l'erba bagnata, con il piccolo a giocare a pochi passi da noi e le nostre braccia che quasi si toccavano.
L'avevo avvertita trattenere il respiro, tentando di fingere indifferenza alla nostra prossimità. Avevo osservato il profilo del suo viso che si stagliava contro il verde del giardino, in grado di accoglierci come immenso parco, notando come il sole fosse in grado di rischiarare persino le sue nere ciocche, addolcirle il sorriso, arrossirle le guance. Colpa del sole, quest'ultimo fatto, o forse mia? L'interrogarmi sulla questione aveva messo a zero la ragione, privandomi della parola per tutto il resto della giornata e facendolo notare, a quanto pare, persino al piccolo.
«Lo credi sul serio?» Gli domando, vedendolo poi annuire convinto. «Le voglio molto bene, Tommy. Sai che è una donna buona alla quale stai molto a cuore...»
...Eppure continui a chiamare Dalia "mamma", nonostante tutto l'affetto che sembri provare anche tu per l'infermiera.
«Sì, le voglio bene anche io, tanto.»
«Allora sai che a lei puoi rivolgere ogni tuo dubbio. Lo hai fatto?»
«Mi ha detto che qualcosa che ho mangiato può avermi fatto male. Per questo mi sente qui» afferma, premendo con le dita un unico punto della sua pancia lontano dal solito epicentro del suo dolore.
Seguo la mossa, responsabile di ogni fitta che lo percuote.
«E a me vuoi bene, Tommy?»
«Sì!»
Inghiotto un batuffolo d'aria che nella pesantezza si è tramutata in polvere, raschiandomi i polmoni.
«Perché?» Sussurro, disperato nella ricerca della verità.
«Perché sei forte e non hai paura di niente!»
Già... ricordo quanto fosse magica la figura di un genitore agli occhi dell'infanzia, completamente distrutta dall'ingresso all'età adulta.
Che cosa penserà di me, Tommy, una volta cresciuto? Si renderà conto, ripensandoci, di quale cibo io stia avvelenando per prolungare all'apparenza i sintomi della sua malattia e metterlo in salvo?
Si accorgerà di quanto sia spietato e senza cuore l'affetto che provo per Nerissa, il tremore che mi avvince nel rimanere da solo al suo fianco, mentre sono promesso ad un'altra?
A tutto questo rispondo con una sola frase: può pure odiarmi se è questo il costo per permettergli di crescere. Non solo nella rottura di un'innocenza in grado di aprirgli la mente ma nel più banale concepimento di una sequenza di anni.
Ciò mi consentirà di dire di aver portato, anche solo uno di loro, in salvo da tutto questo. Assoluzione troppo minima per far fronte a tutti i miei errori ma sufficiente ad assolvere parte della mia condanna.
«Adesso devo andare ma ti prometto che torno presto, d'accordo?»
«Prima della buonanotte? Chiedo a Nerissa di leggermi una storia, promesso!»
Da sempre pecco nell'errore di intromettere il cuore nelle azioni di copertura.
Troppo immerso in questo mondo, dimentico quanto sia sbagliato donargli l'anima e così cado vittima di una conseguenza di errori che non posso smettere di commettere, in un circolo infinito.
«Sì... tornerò questa sera.»
Tommy sorride, mostrandomi persino i bianchi e piccoli denti. «Allora ti aspetto! Non tardare!»
Mi sollevo in piedi e continuando ad osservarlo, seduto tra queste infinite e morbide lenzuola, debole mi arrendo alla sincerità di un lento gesto: afferro tra le mani il suo viso e mi chino a lasciare un bacio lento sulla sua fronte, vittima la maggior parte del tempo di febbre e sudore.
Chiudo gli occhi e dalla pelle catturo solo il morbido sapore di pulito del bagnoschiuma usato nell'ultima doccia di questa mattina. Un sapore buono che sono stato io a donargli.
«A stasera, piccolo.»
Si lascia accarezzare con l'assoluta devozione che può avere solo un affamato d'amore per poi guardarmi con tristezza mentre sto per andarmene.
Lo abbandono lasciandogli la certezza di un mio ritorno, l'unico modo che ho per abbandonare la stanza, ma una volta superata la porta della camera mi lascio scivolare lungo il muro trattenendo una mano alla bocca per poter arrestare il tremore delle labbra.
In esse è intrappolato il malvagio gesto che ho compiuto ma anche la disperazione per una situazione che non sono in grado di risolvere.
P.O.V.
William
Da lei mi sarei aspettato qualcosa di decisamente differente, a suo modo maestoso, eppure mi trovo a fare i conti con l'estetica di una casa che non manifesta esternamente niente dell'appariscenza di Dalia. Ciò mi fa pensare a quanto possa essere vero che la paura modifica mente e cuori, facendo percorrere alle persone strade che non si erano prefissate.
Eppure, certe situazioni non cambiano. Trovo ancora le sue più fedeli guardie all'ingresso che mi osservano e salutano con un breve inchino del capo che ha rispetto per il mio ritorno, per la regalità di un cognome che in questi anni ho quasi dimenticato.
Tornare ad abitarlo è calarsi addosso una vecchia pelle, intrisa di sangue. Una sensazione soffocante eppure, a livello tattile, appagante nella memoria sensoriale che stabilisce e ricorda quanto sia solo tua quella mantella.
Raddrizzo la schiena e sollevo la testa, perché quel carico sulle spalle è difficile da trasportare ed è così che giungo fino alla sua presenza sorpresa. Noto l'istante in cui i suoi occhi sgranano ed il suo sorriso si fa seducente prima che entrambi i gesti l'accompagnino a discendere dall'alto sgabello che affianca il tavolo.
«Non posso credere ai miei occhi! Chi si rivede.»
«A quanto pare ti sono mancato» le faccio notare, non appena arriva fino a me scorrendo lo sguardo sui miei abiti eleganti e sul borsone dell'accademia che ancora tengo stretto in una mano.
«Credevo durasse solo un anno. Ti facevo nascosto in qualche posto al sicuro, insieme a tuo padre...»
«Lui non è qui con te?»
«Non lo vedo da molto tempo, ormai.»
«Una villa così grande, per una persona sola?» Commento, riadattando la semplicità scovata all'interno dei miei pensieri e modificandola nella prospettiva diversa della sua vita.
«E chi ti ha detto che sono da sola?»
Il suo interrogativo non viene proseguito da altro, nonostante il mio silenzio esorti ad una confessione, perché Dalia decide di porre all'attenzione questioni di cui è lei a non sapere niente, secondo la mossa che è solita compiere di informarsi su ogni falla che preannunci problemi.
«Allora, William» esordisce, voltandosi e recuperando la postazione precedentemente usata per iniziare a servire i nostri cocktail. «Non mi dirai che cosa ti ha trattenuto tanto?»
«L'esercito non si è rivelato malvagio come credevo ed inoltre sono cambiate le regole del gioco proprio mentre stavo partecipando...»
«Tutto qui?»
«Che intendi?»
«Sembri diverso ma forse devo solo tornare ad abituarmi alla tua presenza...»
Resto in silenzio, non volendo rendere i miei pensieri partecipi di questo scambio e così continuo a fissarla negli occhi a caccia di una possibile verità.
«E tu invece, Dalia? Che cosa mi racconti?»
«Devo ringraziarti, per la documentazione che mi hai spedito. Si sono rivelate prove concrete, riguardo Attila. Per cui, adesso, posso dirti che ti credo.»
«Che cosa ne hai fatto?» Domando, bevendo un sorso dal bicchiere pieno di liquido ambrato che mi ha servito.
«Non ne ho fatto niente, è ancora vivo» il vetro rimane immobile, posato sulle mie labbra. «Ed è qui, con me, in questa casa. Ho già dato il via ad una vendetta lenta, non riuscivo ad accettare l'idea che potesse andarsene senza aver pagato per ciò che ha fatto.»
Dovevo immaginarmi una risposta simile.
«Questa è una tua scelta, se credi che ciò non ti possa mettere a rischio allora hai il mio appoggio.»
Dalia sorride, inclinando appena la testa in una mossa che smuove appena la liscia e lunga coda bionda.
«Non sei stato presente in questi ultimi anni ma ti assicuro che non è più in grado di nuocermi. Ha perso quel potere molto tempo fa.»
Con la coda dell'occhio riesco ad intravedere la figura di un uomo, molto più lontano di questa stanza, dalla nera pelle ed abiti eleganti, affiancato da Paul Bennett che gli comunica, con la solita gelida pacatezza, una serie di frasi aventi il sapore di strategia.
«Chi è quell'uomo?»
Dalia segue il mio sguardo, voltandosi appena verso quella figura tanto alta quanto immobile presente nel suo soggiorno.
«Semplici affari. Se lo desideri posso coinvolgerti.»
«Non è rischioso per voi parlare qui, in presenza di Attila?»
Dalia sorride, tornando verso di me con allegria. «Non sono altro che discorsi studiati a tavolino. Attila può ascoltare quello che desidera, non gli andrà che contro.»
Picchietto le dita al bicchiere, valutando l'intelligenza intrisa nella sua risposta.
«Vedo che hai tutto sotto controllo.»
«Almeno per il momento. Puoi restare, William. Mi farebbe piacere averti in questa casa.»
«Accetto l'offerta, anche se non potrò protrarla a lungo. Dovrò trovare un modo per mettermi in comunicazione con mio padre.»
E detto ciò mi sollevo dalla postazione che ci aveva visti vicini per potermi avvicinare nuovamente al borsone che avevo abbandonato per terra.
«Ricordi Hasim? L'uomo che lavorava per te, quello a cui hai tagliato la mano» mi domanda ad un tratto, facendo arrestare per un momento la mia azione.
«Lo ricordo.»
«Allora ricorderai anche che aveva una sorella con la quale ero riuscita a parlare. Attraverso delle ricerche sono riuscita a scoprire che è stata promessa in sposa a Tabansi, l'uomo che hai notato poco fa, per cui ho deciso indirettamente di farla pagare anche a loro. Certo, almeno che prima non voglia occupartene tu.»
Una parte di me vorrebbe essere resa partecipe dei piani di questa folle donna così tristemente arresa ad un sorriso consapevole del proprio ingegno, come del non poter far più nulla per arrestare la frana alla quale ha dato vita.
«Ormai questi sono i tuoi affari, Dalia, non più i miei. Devo occuparmi di altro, li lascio in mano tua.»
«Sei davvero cambiato... dove è finito quello spirito vendicativo che non ti avrebbe mai fatto rinunciare?»
«Sto cercando di sopprimerlo.»
«Per quale ragione?»
Nella mente, una voce maschile si interfaccia con superbia, facendomi sorridere.
«Era troppo arrogante e brutale.»
Se avessi pronunciato parole del genere dinanzi uno degli uomini di mio padre la mia confessione sarebbe giunta fino alle orecchie del patriarca che, sono certo, non ne sarebbe stato affatto contento. Ma con Dalia posso confessare le mie incertezze, far notare il punto sui quali fanno leva i cambiamenti perché se c'è una persona in grado di capirli allora quella è lei: per questo motivo continua a sorridere di una felicità che non coinvolge l'espressività, dal momento che la tristezza è il sentimento covato dinanzi ad ogni possibile catastrofe.
«Sei davvero maturato, William...»
«Sono passati degli anni, in fondo, no? Era tempo di farlo.»
«Che cosa ne diresti di parlarne con più calma questa sera? Solo io e te fuori, a cena.»
«Mi piacerebbe molto...»
Afferro con forza il manico del borsone e lo sollevo da terra, rimanendo a fissare la sua certezza come la bellezza del corpo rivelatosi al di sotto dell'elegante abito.
«D'accordo, allora...» Faccio per voltarmi ed andarmene, prima che una preoccupazione mi raggiunga e mi faccia frenare. Torno a lei con la stessa sconfitta che può solo avere un uomo battuto sul tempo. «Avete lasciato tutti la villa?» Le chiedo, per poi vederla annuire con lentezza. «Dafne sta bene?»
«Tua cugina è in salvo, William. È assieme a Monty ed Alhena.»
Annuisco con più certezza, consapevole che la presenza del braccio destro di mio padre al suo fianco possa essere una protezione sufficiente.
«Bene... bene.»
Abbandono la stanza lasciandomi il suo silenzio alle spalle e percorrendo l'unica via non sbarrata dalle guardie.
Raggiungo il piano superiore e l'immenso corridoio che sembra ospitare l'affaccio di più di sei porte di differenti stanze ed è solo verso una di esse, la sola socchiusa, che la mia attenzione viene calamitata.
Attraverso la porta riesco a vedere la vicinanza con la visione di Attila, voltato di lato rispetto al mio sguardo.
Per prima, carpisco la tristezza dai suoi gesti e dalla curva profondamente solvata verso il basso del suo viso inflesso, notando l'immobilità di esso mentre vengono dispersi nel vuoto.
Dopodiché, con un gomito sulla balaustra del balcone della stanza, non vedo una delle sue mani afferrare l'anello presente sul medio dell'altra.
Un gioiello austero, caratterizzato da una pietra nero quarzo che sfiora nel tentativo di riflettere in un silenzio privato della solitudine.
Mi allontano retrocedendo nei miei passi, così da permettergli di mantenere l'illusione di essere ancora proprietario dei propri pensieri.
Ancora possessore di un'anima che una semplice cartella, scovata in un archivio militare, aveva messo alla luce assieme ad una dose informe di bugie.
P.O.V.
Francis
La porta si chiude alle sue spalle e contro di essa si lascia andare, trascinandomi lento con se e facendo concludere il gesto nella richiesta di un profondo bacio.
Lo ricambio con sicurezza, riuscendo a tener testa alla sfida che mi ha lanciato, dopodiché sorrido contro le sue labbra. Alla vista della sua testa sporta all'indietro, risentita dall'abbandono al quale l'ho costretta.
«Sembra simpatico» ammetto, in riferimento all'uomo al quale abbiamo concesso di dissolversi al termine della strada pur di ritornare a vivere una vita più tranquilla.
«Mh mh» mugola in risposta, lasciando che sia il silenzio ad accompagnarci mentre rimaniamo occhi negli occhi.
Vinto dalla nostalgia, torno ad accarezzare con serietà la sua pelle, dalla fronte alla tempia e poi lungo la curva della mascella per poter giungere alle sue labbra che si approcciano ad un sorriso divertito.
Lo imito, lasciando cadere la mano e permettendo a Rais di compiere quel gesto lento, una leggera spinta generata dalla schiena, in grado di allontanarlo dalla porta per consentirgli di fare strada.
Poco dopo ci troviamo di nuovo di fronte ma immersi nell'acqua immobile di una vasca, illuminati solo dalla luce naturale della finestra presente sulla destra, oltre la ceramica che avvolge questo privato spazio ricevendo le piccole onde che scaturiscono dai movimenti dei nostri corpi.
Mi trovo con le braccia aperte, una distesa oltre il limite di questo spazio a cadere nel vuoto e l'altra contratta sulla blu scura superficie di ceramica con un gomito in modo tale che la mano possa sorreggere la testa mentre lo guardo.
Rais, invece, ha un ginocchio che si staglia oltre il profilo della trasparente acqua e su di esso ha appoggiato il braccio, in una posa che è evidenza della tranquillità che ci avvince.
Sollevo la testa e porto alla bocca la mano che l'aveva sorretta, aspirando la nicotina scaturita dalla sigaretta che le dita avevano intrappolato mentre noto gli occhi di lui scorrermi addosso in un modo tanto sfrontato da essere appagante.
Ho fatto lo stesso, più e più volte.
«Allora? Come è stato?»
«Difficile» rispondo, allontanando di nuovo la sigaretta per tornare alla posa assunta in precedenza. «Avere una tabella di marcia, però, ti consentiva di capire il ritmo delle giornate.»
«E che cosa dovevi fare?»
«Allenarmi...»
«... Lo vedo.»
Sorrido. «... Studiare, le materie accademica come quelle per concludere i miei studi.»
«Però... hai fatto le cose per bene.»
«E tu? Ti sei comportato bene mentre non c'ero?»
Sospira e lascia scorrere il corpo in avanti, scivolando lungo la vasca mentre torno a fumare.
«Sono stato un santo» commenta, con una sorta di resa che mi auguro possa essere sincera.
«Mio zio ti ha tenuto compagnia?»
«Era stato Attila a riportarmi a casa, la notte che ci saremo dovuti incontrare mentre a Carlail era capitato il compito di dovermi confessare la modifica ai tuoi anni in accademia. Erano riusciti a prendermi il telefono. Avevo capito che non sarei più stato in grado di contattarti per cui la sorveglianza di Elliott divenne soffocante. Tentai di scappare più di una volta e la notte in cui ci riuscii trovai Damien in un isolato del South Side. Stava giocando a basket.»
«Sì, lo fa spesso.»
«Mi ha insegnato dei passaggi. Giocare mi scaricava.»
«Allora un giorno potrei sfidarti...»
Il suo sguardo si accende, vittima della stessa provocazione che avvince il mio. «Vediamo che sai fare.»
Resto in silenzio, calibrando con attenzione impaurita la difficoltà della successiva domanda.
«Nonostante questi trucchi alla sorveglianza... hai mantenuto la nostra promessa?»
«Tu lo hai fatto?»
Noto nella sua voce lo stesso tono di incertezza, la stessa paura, che ha bisogno del conforto dato dalla fedeltà.
«Sì» mormoro, rimanendo osservatore dell'istante in cui, debolmente, un piccolo sorriso si affaccia.
«Anche io.»
Adesso sì che posso tornare a respirare. Anche se la domanda era scontata, in un certo qual modo, vista la passione che ci ha avvinti al nostro ravvicinato incontro.
«Ed è vero quello che ha detto Elliott?»
Annuisco, confermandoglielo. «Sei stato affidato a me.»
«Se Carlail sapesse del nostro rapporto sono certo che non lo permetterebbe. Ha già sbagliato una volta, con Attila.»
«Credi che non lo permetterebbe? Secondo me, invece, si è semplicemente arreso. Ha capito, magari, che faresti problemi con tutti, tranne che con me. Per cui ha deciso di rischiare.»
Con le dita sfiora la superficie dell'acqua, facendola dondolare debolmente alla pari delle giornate in cui, chino verso il mio lago, arrivavo a fare lo stesso.
«Forse è così... o magari è incline a dare seconde possibilità.»
«Che intendi?»
Solleva la testa, osservandomi. «So che Attila non è più in centrale. Carlail non dice niente ma secondo me è tornato al suo vecchio lavoro, sotto copertura.»
Resto in silenzio, lasciando alla mente il compito di immaginarsi quella realtà tanto assurda.
P.O.V.
Dalia
Il cameriere si interfaccia al nostro spazio servendo con precisione ed eleganza le portate prese in ordinazione, per poi concludere il tutto con la presentazione di due alti calici di champagne.
Porto alle labbra il vetro, bevendone solo un piccolo sorso, nel momento in cui il cameriere si congeda al fine di lasciarci soli ed è così che l'attimo dopo arriviamo ad esserlo.
William è seduto di fronte a me, oltre questi primi piatti di mare, sorridendo con una cortesia affine all'educazione ricevuta.
Può odiare quanto crede suo padre, mescolando la rabbia per la sua diffidenza all'orgoglio che alle volte prova per le gesta compiute con fin troppo senso della responsabilità da l'altro, ma non può di certo non ammettere quanto sia stata fondamentale l'istruzione alla serenità dei modi e delle gesta.
Mette a proprio agio l'interlocutore che ha di fronte, rendendolo partecipe dell'importanza intrappolata nel cognome Lee, al di sopra di ogni altro.
«Hai scelto davvero un bel posto» faccio notare, portandolo a sorridere.
«Sì, lo credo anche io. Ci ho pensato spesso mentre ero via.»
«E sei contento di condividerlo con me?»
«Non potevo scegliere persona migliore.»
Resto in silenzio a queste sue parole, cercando di mascherare parte della mia soddisfazione.
Afferro il tovagliolo presente sulla tavola e con un solo gesto lo dispiego in modo tale che possa riposare sulle mie gambe, rimanendo a fissare le posate che poco dopo le mie mani lievemente spostano, nell'ipotesi di non cadere nei suoi occhi nel corso di una confessione.
«Credevo che sapessi apprezzare il mio lavoro ma non la mia persona, specie da dopo quello che è capitato con Attila.»
Sto toccando l'argomento più difficile della serata ed il silenzio che ne consegue mi rende partecipe della sua necessità di essere condiviso in un unico sguardo. Spio all'interno di quello di William, senza abbandonare la lieve carezza contro le eleganti posante in argento.
«Non ti ho mai disprezzata, Dalia. Per molto tempo non sono riuscito a spiegarmi cosa potesse cambiare una donna come te, spingendola a mettere in dubbio tutto. Si trattava di ammirazione, piuttosto, mescolata alla paura.»
Non lo avevo mai vista sotto questi termini, ma in un certo qual modo appare quasi fattibile.
«Si è trattato d'amore, per Attila, Will. Avevo paura anche io.»
Simili discorsi mi provocano inappetenza.
«E ora non lo ami più?»
«Credi che possa essere possibile?» Tace, rimanendo a fissarmi con la mano stretta attorno al manico della forchetta, preso da una preoccupazione che riesco a scorgere. «Non l'avrei confessato a nessuno, tanto meno a Paul.»
«Lo stai usando per la tua vendetta» mi fa notare, mettendo assieme i pezzi dell'intera faccenda con fin troppa facilità.
«Credi che sia tanto malvagio?»
«Credo che sia pericoloso. Quell'uomo prova sentimenti per te da molto tempo ed hai sperimentato cosa significhi giocare con essi. Ho paura delle ripercussioni che potrebbe avere tutto questo, compreso il tuo giudizio verso Attila.»
Non potendo conoscere il futuro non posso nemmeno offrire a lui delle risposte. William è costretto a ricorrere ad un nuovo argomento per far fronte alla mia voce.
«Hai detto di non aver più avuto rapporti diretti con mio padre. Siete, però, riusciti a mantenervi in contatto?»
«Lo abbiamo fatto. Monty è passato molto spesso dalla nostra casa. Più volte ha lasciato intendere la soddisfazione di tuo padre per l'ingresso nell'esercito.»
«Vuole che vada in polizia.»
«In modo tale da proteggerlo.»
«Già, eppure temo che sarà difficile...» Aggrotto la fronte, presa dalla confusione di una simile frase. Esiste davvero qualcosa di difficile per William? «Ho conosciuto un ragazzo fin troppo bravo, all'interno dell'esercito» afferma, aggravando sempre di più la mia curiosità «e conoscendolo ho scoperto che viene dal South Side. In un primo momento credevo fosse al soldo di mio padre, o che in alternativa appartenesse ad una banda di nemici, ma ho scoperto che non è niente di tutto questo. Solo una persona che crede nell'istituzione della giustizia. Non pensavo ne esistessero ancora.»
«Tu lo ammiri.» Tace, ma in fondo chi sono io per giudicare? «Che cosa farai?»
«Non lo so più, adesso.»
«Per quale motivo?»
«Temo che quel ragazzo si metterebbe troppo in mezzo. Posso proteggere mio padre da un altro distretto, uno dove i soldi comprano gli uomini dentro le divise.»
«Ma tuo padre non ha bisogno di te altrove. Ha bisogno di te qui, nel South Side.»
«Lo so... il mio tentativo era nato solo per risparmiarmi un po' di fatica...»
«Ma affrontare prove difficili è sempre stato il tuo scopo, non è vero? Apprezzi chi riesce a batterti, o tenerti testa. Perché in questo caso non arrivi a fati avanti?»
«Perché lo rispetto, Dalia. Molto.»
Inclino la testa appena indietro, per poter guadagnare un respiro da pensieri che non mi sono estranei.
William è sempre stato un uomo d'onore ma mai prima d'ora aveva confessato il suo apprezzamento per qualcuno così apertamente. Da un lato questo mi riempie di curiosità, di voglia di conoscere chi abbia generato tutto questo.
«Avere considerazione per il nemico non è da deboli, Will. Non lasciare che sia la paura per tuo padre a spingerti a fare ciò che non vuoi.»
Porta alla bocca, infilzato dalla forchetta, un piccolo calamaro mentre sul piatto tra di noi un polpo riposa su un letto di insalata, nell'estensione dei suoi tentacoli.
«La paura è un'arma a doppio taglio, ma imparare a giocare con il nemico può dare la soddisfazione che una semplice complicità non innescherebbe. Scegli tu che cosa sia più giusto fare. Io ho già scelto la mia strada.»
«Hai preferito giocare con la preda...»
«Facendola illudere di non aver messo in piedi alcun gioco» affermo, voltando poi lo sguardo in direzione delle finestre affinché, nel buio della notte, possa tornare unita a lui. «Offrendole la parte più debole del mio animo affinché spetti a lei il compito di ridurlo in tanti piccoli pezzi.»
P.O.V.
Samuel
Per delle ore ho sperato che questo momento potesse non arrivare mai, così come alle volte ci si arriva ad augurare che le responsabilità possano non raggiungerti, nascosto come eri nel tuo piccolo rifugio lontano dal mondo, consentendoti di rimanere infantile nell'illusione di non potere mai crescere.
A che cosa può servire la favola che sto per ascoltare e che mi attende oltre questa porta se la vita vera non offre alcuna soddisfazione ai desideri? L'illusione non ha ragione di esistere eppure appare come ossigeno per quelle anime che ancora frenetiche una via d'uscita per mettersi in salvo. Appartiene a quel popolo pieno di coraggio capace di comprendere quanto tentare l'immaginazione possa essere il solo modo di vivere.
Inutile deprimersi ed ostacolare la vita con tentativi patetici: si è costretti a viverla, dunque tanto vale arrestarla per quei pochi minuti in grado di concedere un sorriso.
«Prima devi finire la tua cena, Tommy, dopodiché torno a leggerti una storia» sento dire dalla voce di Nerissa, all'interno della stanza. Chiudo gli occhi solo per un attimo prima di farmi avanti, calando sul volto un artefatto sorriso.
«Se il piccolo non vuole finire la sua cena, nessuno lo costringe a farlo!» Esordisco, generando l'allegria del più giovane.
«Zioo!»
«Ciao, piccolo. Sono venuto, come promesso e guarda che cosa ti ho portato... il tuo latte caldo. Che ne dici? Ne bevi un po' così da andare a letto?»
«Lo bevo, ma dopo voglio la storia della zia!»
«D'accordo, tesoro, te la leggerò ma dai questo a me» interviene tra di noi Nerissa, afferrando il bicchiere che avevo porto a Tommy ed osservando con serietà.
Il piccolo non può far a meno di protestare.
«Il mio latte!»
«Per stanotte ne farai a meno. Io e tuo zio dobbiamo parlare.»
«Non litigate...» supplica, proprio mentre Nerissa si alza come una furia dal letto. Rimango a fissarla, in piedi al fianco del materasso, finché non esce dalla stanza e si separa dalla nostra vista. Dopodiché con un occhiolino scarruffo i capelli al piccolo, consapevole di ciò che mi attenderà nel corridoio. Una Nerissa molto arrabbiata che mi ricorderà quale sia il mio posto all'interno della cura del piccolo, generando una serie di proteste che mi rigetterà contro ma che non potranno essere più maligne di quelle che io stesso mi sono detto, durante tutta la giornata, dinanzi al mio dolore.
«Nerissa, so che è tuo il compito di occuparti di Tommy ma avanti... un bicchiere di latte non può fargli certo male!»
Anticipo le sue accuse con un tono divertito mentre la raggiungo nel fondale più buio di questo corridoio.
La trovo con le braccia incrociate sotto il seno, lo sguardo serio, ad osservarmi con una crudeltà insolita.
«Tu credi? Allora questo cos'è?» Tra di noi solleva una bustina fin troppo nota, nella quale è presente la sostanza che ho dissolto in più di un cibo. «Non rispondi? Te lo dico io che cosa è, allora: veratro. Una pianta velenosa che può essere usata in dose terapeutica, eppure i quantitativi sono insolitamente piccoli. Questi quanto saranno? Quanti grammi ne hai presi, Samuel?»
«L'ho comprata in erboristeria, ed è come detto tu: per terapia.»
«Continui a mentirmi. Peccato che la sostanza rilasci non rilasci alcun odore se trattata, né un sapore, come il migliore dei veleni. Non resta che testarlo ed aspettare gli effetti.»
Si porta alla bocca ricolmo di latte e la mia mano la arresta, ponendosi di piatto sul boccale del vetro per impedire alle sue labbra di avvicinarsi.
Rimango ad osservare quella mossa incauta, generata in maniera autonoma.
La mano che non ospita più l'anello donato da Carlail in nero quarzo è riuscita lo stesso a fermare un azione tanto incauta quanto rischiosa.
«Tutto questo è ridicolo» affermo, tentando di limitare il danno della mia azione.
«Perché lo stai avvelenando?»
«Dammi quel bicchiere...»
«Dimmelo, Samuel, altrimenti lo bevo!»
«Non sto cercando di ucciderlo, ma di tenerlo in vita!» Esclamo, rimanendo poi trafitto dai suoi occhi sorpresi.
«Come?»
Sospiro, accorgendomi poi che il suo senso di spaesamento le ha concesso di allentare la presa attorno al vetro.
Getto il liquido all'interno del vaso di una pianta, per poi posare il bicchiere a terra e passarmi la mano rimasta libera sul volto, al fine di trascinare con più lentezza lungo di esso un pensiero.
«Questa è la verità: sto cercando di salvarlo.»
«Da che cosa? Che vogliono fargli?»
Analizzo Nerissa intrappolandomi nei suoi scuri occhi, indeciso su ciò che sto per compiere. «Se te lo confesso finirai dentro questa storia.»
«Dici che stai cercando di salvarlo, ma in realtà lo stai avvelenando. So che lo ami molto perché provo lo stesso anche io quindi, Samuel, raccontami la verità: in questa storia ci siamo dentro insieme da troppo tempo.»
Non avrei mai voluto coinvolgerla ma dopo un'intera giornata di maledizioni a me stesso per la condizione sempre peggiore in cui verge il piccolo in lei vedo un'alleata, qualcuno che può tirarmi via dal buio.
Da sempre è stato così. Da sempre Nerissa è tutto questo ed è per un simile motivo che i nostri cuori, adesso, sembrano come battere all'unisono, vittime di una realtà che li vede più vicini che mai, l'uno di sostegno all'altro al solo fine di sopravvivere.
Non avrei mai voluto coinvolgerla... ma Nerissa non ha mai avuto bisogno di essere protetta.
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