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73- Per ogni bugia

P.O.V.
Samuel

Mai prima d'ora il destino si era fatto di beffe di me in un modo così ironicamente scorretto, tale da pormi per primo, sul piatto delle verità, raccapriccianti scoperte riguardo a lavori illegali che non posso perdonare né limitare a sufficienza da impedirne il compimento e poi, per secondo, la più crudele carta che minacciava il cambiamento.

Durante una rapina, poliziotti come noi tentano di salvare civili intrappolati nella stretta del nemico ed ora il ragionamento non è tanto diverso: devo metterla al riparo, assicurarmi che non le accada niente come non accada neanche al piccolo Tommy ed a quei restanti settantanove bambini in attesa della loro personale tortura. Ma come riuscire a farlo?

Come poter evitare lo sguardo di Nerissa mentre mi passa affianco, con un vassoio in mano, mentre sono seduto sul divano di Paul Bennett in attesa del suo arrivo?

Mi sforzo di tenere le mani strette in un pugno e la testa bassa perché, poco più lontana, una guardia è appostata ad uno dei portali di ingresso a questo salotto tanto da essere in grado di spiare sia il fuori che il dentro di questa stanza. Noi, come eventuali invasori esterni. Non posso avvicinarla, né parlarle utilizzando una scusa. Non sarebbe prudente ed inoltre... non sembra nemmeno incline a farlo.

Lancio un'occhiata alla guardia per verificare se il suo interesse, da questi interminabili minuti di controllo, possa essersi reindirizzato e con piacere noto che è così. Una voce, a quanto pare, l'ha raggiunta dal microfono auricolare e la esorta, dopo una conferma d'ascolto, ad abbandonare il posto per recarsi in una nuova locazione.

Esegue tale comando, lasciandoci a noi stessi. Prima che ne possa sopraggiungere un'altra afferro Nerissa per un polso e la trascino via.

«Che cosa diavolo stai facendo? Lasciami!»

Non sto a sentire la sua voce soffocata, né tantomeno presto attenzione alla protesta che subisce il suo corpo nel combattere la pressione del mio. Mi limito a trainarla più lontano, in uno spazio privato, una sorta di cavedio, in affaccio con il corridoio ed altre stanze, in parte in ombra e tanto stretto da portarla così vicino da rendere individuabili le spezie del suo profumo.

«Lasciami andare, ho detto. Mi aspettano su» continua a protestare ma io non ho tempo per la sua ritrosità.

«Shh!» Sussurro, posandole un dito di piatto contro la bocca e Nerissa si scosta infastidita, in poco meno di un attimo. Non pensavo che il mio rinnovato contatto con quelle labbra le provocasse una simile ritorsione, ma non devo esserle affatto piaciuto l'ultima volta.

«Non dirmi di tacere ed allontanati. Che cosa diavolo stai facendo, qui?»

«Hai idea di chi siano le persone che ti hanno ingaggiato per questo tuo lavoro?» Mormoro, ad un passo dal suo respiro, stregato come so di essere da quegli occhi scuri e pieni di fervore che mi si indirizzano contro con tutta la forza del mondo.

«Non mi interessa. Sono un'infermiera. Vado dove occorre.»

«Ti conviene saperlo, invece, perché non è affatto gente affidabile»

Non commenta altro, al seguito delle mie parole. Forse perché era riuscita ad immaginarlo dalla sontuosità della casa, ricca di intarsi in oro e in marmo. Paul non va di certo per l'estetismo essenziale, dal momento che adora glorificarsi secondo ogni possibilità che gli venga offerta. Per cui, immagino che questa tosta infermiera possa credere veramente al giuramento che ha prestato per continuare a rimanere in questa villa piena di pericoli.

Davvero non ha idea, però, di cosa sarebbero in grado di farle. Specialmente Dalia, se solo scoprisse la vicinanza alla quale siamo arrivati, per quanto vana e resa nulla dalla catalogazione di semplice errore che l'infermiera sembra aver voluto affibbiarle.

Dalla mia non saprei come definire quel bacio, così come tutte le battute ironiche, piene di punzecchiamenti, che lo avevano preceduto.

Ricordo di aver voluto, disperatamente, in quell'attimo un contatto con lei più profondo e meno timido, per riuscire così ad anestetizzare il vuoto che sento di provare. Esiste una mancanza, nella mia vita, al momento soppiantata dalla presenza di Dalia e dal brivido che concorre questo mio tornare sotto copertura ma anni fa l'ho cercato altrove, l'ho cercato in lei, in una normalità condivisa ma di colpo quella prospettiva si era fatta estranea.

Siamo molto diversi, io e lei, me lo conferma persino scorrendomi gli occhi addosso piena di cinismo.

«Vuoi dirmi chi sei, allora? Un uomo che si diverte a tenere sotto controllo due giovani ragazzi, procurandosi di avere la cartella clinica di uno di loro affinché possa guarire dalla cura del metadone, o questo ricco quanto abbronzato californiano dagli abiti eccentrici?»

«Sto lavorando» la informo, in modo tale da mettere a riposo il veleno della sua lingua. Niente da fare.

«Davvero? E quella donna in tiro fa parte del lavoro?»

Pare quasi di tornare indietro ad un'altra vita non appena sono esortato a sorriderle. Intravede l'arrivo di una frase di scherno, la percepisce ma non è pronta a pararsi dal mio attacco. Sta diventando, però, insolitamente brava nel recepirlo.

«Se eri gelosa sarebbe bastato dirmelo, ci avrebbe risparmiato questo siparietto in cui fai finta di non riconoscermi.»

«Non sono gelosa e non si tratta di un siparietto, perché è vero che non ti conosco! La polizia almeno sa che sei qui?»

«Abbassa la voce.»

«Mi prendi in giro?»

La trascino via dalla vicinanza del corridoio, addossandola ancora di più contro un muro, nell'ombra. Il fiato le si spezza in uno scompenso dato dalla mia prossimità e mi chiedo se sia vero che non è gelosa, dal momento che rende tanto possibile vedere le reazioni che le provoco, senza minimamente filtrarle.

«Sono stati loro a mandarmi qui quindi calmati, è tutto sono controllo almeno fino a che non ci farai scoprire» commento, fissandola dritto negli occhi per confermarle quanto io sia serio e per poter vedere bene la reazione di rabbia e furia che si generano come un tornado, in lei. Allontana di colpo le braccia che le mie mani avevano strinto, privandosi della mia presa.

«Non sarà affatto colpa mia niente di tutto questo. Se è vero che stai lavorando allora togliti di dosso!»

Sorrido della sua scontrosità. Me la ricordavo più placida. «Volevo solo mettere le cose in chiaro.»

«Adesso sono molto chiare, allontanati!»

Lo faccio immediatamente, sollevando le mani al fianco del viso come si farebbe di fronte ad un'importante generale. Nerissa comanda ed io mi trovo ad eseguire ordini, per quanto sia divertente, nonostante la situazione che viviamo, cedere al'ironia che il suo sguardo comunica.

«Hai paura che arrivandoti tanto vicino possa provare a baciarti di nuovo?»

Sgrana gli occhi ad una simile inchiesta. «Come può venirti a mente? Non è nemmeno nei piani! Stai per sposare quella donna e...e...»

Potrei continuare a prenderla in giro, condannandola alla trappola di un disagio che può somigliare alla gelosia, ma mi rendo presto conto di aver bisogno di dirle altro, di metterla in guardia.

«Nerissa, Dalia è una donna pericolosa. Non sottovalutare né lei né Paul, potrebbero utilizzarti per i loro scopi.»

Lo stanno già facendo, per meglio dire, ma non è il caso che Nerissa lo sappia. Desidero solo che capisca quanto possa essere importante mantenersi in allerta, sempre. Specie in una situazione come la nostra.

«Samuel...» mormora, facendomi perdere all'interno della sua voce.

Solo quando un suono proveniente dall'ingresso e si staglia tra noi, vengo costretto ad abbandonare il nostro rifugio per tornare alla vista del personale.

Il salotto circolare che mi aveva accolto, infatti, permette l'ingresso di una nuova guardia che osserva con confusione il mio modo spavaldo di sorridere, dato unicamente dall'errore di vestire troppo in fretta le mie abitudini. Se ne domanderà il motivo, ma niente da fare, rimango in silenzio e torno a prendere posto al divano, avvertendo alle mie spalle Nerissa procedere al mio seguito. Dopodiché la guardia, ascoltando la voce nell'auricolare, rimane a fissare entrambi.

«Il signor Bennett non può essere disponibile, al momento. La signora Ester, invece, è al piano superiore con il ragazzino.»

«Si chiama Tommy» sibila Nerissa, piena di una grinta che sorprende sia me che la guardia. Niente male... peccato che la sua furia non vada a segno. L'uomo rimane ad od osservarci ancora per qualche attimo prima di recarsi ad occupare la sua postazione in giardino.

Nerissa decide di marciare su una simile ritirata, imitandola nel proseguire, in opposto, verso le scale.

Le afferro di nuovo il polso ed il gesto la manda su tutte le furie.

«Dove vai?» Le chiedo, ignorando palesemente il modo con cui mi sta fissando.

«Su, da Tommy.»

«Vedo che non mi ascolti... c'è Dalia, con lui.»

Intreccia le braccia al petto mentre rimane immobile sul primo gradino della scala, più in alto di me. «Devo visitarlo, è un mio dovere. Vuoi seguirmi, per caso?»

«Non è una cattiva idea» commento, facendola sospirare.

«Non potrai essere dovunque sono io. Occupati del tuo lavoro e lasciami in pace.»

Esplica quest'ultima frase prima di voltarsi e tentare di raggiungere il piano superiore. La mia voce, alle spalle, la costringe a fermarsi.

«Sei diventata anche tu parte del mio lavoro, Nerissa. Quindi è mio compito proteggerti.»

E riferitole ciò la raggiro e precedo lungo queste rampe, in modo tale da mitigare il pericolo che potrebbe nascondersi in ogni angolo.

Non mi fido di queste persone, nemmeno nel semplice approccio che potrebbero avere con qualcuno come lei. Sono ben consapevole della sua forza e diffidenza così come sono consapevole, al tempo stesso, della troppa fragilità del suo animo. In qualche modo, questo la rende simile a Dalia, ma mentre quest'ultima gioca la carta della grinta per la maggior parte del tempo Nerissa non teme di mostrarmi la sua incertezza. O meglio, prima non temeva di farlo. Da quando ci siamo incontrati di nuovo pare preferire la distanza ma purtroppo per lei questo non sarà affatto possibile. Deve rimanere al mio fianco per continuare ad essere al sicuro, altrimenti uscire da questa casa diventerà sempre più difficile.

«Grazie, signorina Ester» sento mormorare ad un tratto mentre sto salendo e quella voce infante, ripiegata in un tono di sincero ringraziamento, mi fa frenare i passi.

«Ti senti meglio, adesso?»

«Molto!»

La dolcezza con cui quella premura esce dalle labbra della mia futura moglie mi consente di far scivolare di dosso quello strato di torpore che mi aveva raggiunto per poter arrivare fino a loro. Lei e Tommy, nella stessa stanza. Osservo il modo con cui Dalia lascia cadere piccole gocce di minestra dal cucchiaio al piatto quasi del tutto vuoto che riposa sulle sue gambe, mentre è seduta su un lato del letto, con il piccolo che accanto a lei le sorridere rimanendo seduto contro una pira di cuscini. Crederà di stare vivendo la vita di un principe, tra queste lenzuola pulite, i soffitti alti e la gentilezza ma non ha idea di cosa si celi dietro il sorriso della donna, né dietro tutto il suo bisogno di premunirsi della sua salute.

Rimanendo sulla porta, nel silenzio, osservo le rotonde guance del piccolo notando quanto siano rivestite di efelidi, al di sotto dei riccioli confusi e castano chiari, quasi ramati. L'immagine della tranquillità e della spensieratezza, unita all'illusione di aver trovato un posto sicuro, una sorta di paradiso, lontano dal suo orfanotrofio.

«Qui è davvero bello! Questa casa è sua?» Domanda canterina la voce del piccolo, testimoniandomi il suo stupore che riesce a far sorridere persino il volto triste di lei.

«No, di un mio amico» gli confessa, chinandosi verso di lui con la testa, quasi gli stesse confessando un segreto, mentre si occupa di ripiegare il tovagliolo in stoffa con cui l'altro si era pulito la bocca.
Per Dalia può non significare niente, eppure quella mossa è simbolo di un'immensa premura.

La riconoscono solo coloro che non l'hanno mai posseduta, come me, come il piccolo che sembra rischiararsi in volto nel percepire la vicinanza con una donna tanto bella quanto gentile. Mi chiedo se sia stato lo stesso per me, che cosa mi abbia attratto tanto di lei da farmi dimenticare della missione e di tutto il resto, cedendole come un pazzo.

«La donna che si occupa di rifarmi ogni mattina il letto mi ha detto che sono malato, ma io mi sento bene.»

«Non hai niente di grave, ragazzino» gli mente lei, facendomi accorgere che quel soprannome, emesso anche dalla guardia, deve essere provenuto per primo come suo appellativo. «Solo un piccolo male che ti costringe a riposare un po'.»

Nerissa ormai è alle mie spalle, percepisco il suo silenzio così come la sua attesa, rimanendo con me ad osservare la scena che si sta animando di fronte a noi. Può confonderla, magari sorprenderla se paragonata alle parole che le ho detto poco fa. Io, invece, mi limito al semplice ascolto per poter recepire a pieno cosa stia accadendo.

«D'accordo, ma mi può raccontare una storia? Altrimenti non riesco a riposare.»

«E come sei risucito ad addormentarti fino ad ora?»

«Per favoreee!»

In molte occasioni ho visto Dalia dinanzi una supplica, in piedi di fronte ad uomini di potere spezzati, a terra, da una richiesta disperata. Non aveva mai ceduto loro ma inspiegabilmente acconsente alla richiesta del bambino in un modo tanto arreso da stupirmi.

«Non ne conosco molte, solo quella della "Fanciulla variopinta". Mio padre me la raccontava spesso.»

«E di che cosa parla?»

«Lo vuoi scoprire davvero?» Trafitto dalla curiosità, il piccolo annuisce con fervore, stupito di poter ricevere per se quel dono prezioso. Non si rende sul serio conto di quanto importante sia, molto più di quel che immagina perché stiamo per vivere l'attimo più surreale della nostra intera vita.

Una donna, in un abito tanto elegante da poter appartenere ad una cena di gala, che sposta il piatto di minestra sul comodino a fianco del letto per poter iniziare a raccontare una fiaba dal titolo fin troppo triste.

«Si tratta di una favola cinese, riguardante la dinastia Han, la conosci? Mio padre commercia il tabacco, ed è stato sempre molto affascinato dall'oriente.»

Ovviamente il piccolo, senza cultura ed alcun tipo di informazione, scuote il capo in un dissenso che la porta a sorridere.

«D'accordo, allora... ci troviamo in oriente, a Luoyang, nell'antica Cina, in un tempo tanto lontano da non poter essere collocato nel tempo. Ciò che sappiamo di questo mondo non è molto: le strade sono nascoste da fitte nuvole di nebbia che non rendono visibile il paesaggio e si avverte solo il suono costante dello sciabordio dell'acqua nei canali, nulla di più. La città è silenziosa, grigia, triste. Le persone camminano in scarpe di pelle animale. Ognuno ha il proprio ruolo ma dentro quella nebbia, in quella confusione, esiste un posto, una taverna dove è possibile dimenticarsi di chi si è. Per trovarla si deve solo chiudere gli occhi ed avvertire, flebile, al di sotto del rumore dell'acqua il suono di alcune musiche lente, suonate da sei tamburelli. E dentro quella taverna vi sono delle persone, uomini più o meno illustri che osservano delle donne danzare e tra di loro ve ne è uno, in particolare. Questi, sempre in disparte, non è solito unirsi alla festa che si svolge all'interno, sfoggiando una strana tristezza, assieme ad una scatola di legno.»

Ruoto appena la testa indietro, per poter verificare che Nerissa sia ancora qui e la trovo concentrata, al mio pari, nell'ascolto di un simile racconto.
Dalia, invece, si erge più dritta con la schiena ed intreccia le mani, quasi a tenerle ferme in una posa che la rende immobile quanto intoccabile, araldo di una storia che presto riprende a dispiegare.

«Nessuno conosce la sua identità nel paese perché, attraverso la nebbia, è quasi impossibile per chiunque scoprire il viso di un estraneo. L'unica cosa che sanno di lui sono le sue abitudini entrando in taverna: il suo sedersi al solito tavolo, con di fronte a se la sua scatola, per attendere così il suo sfidante.»

«Era un guerriero?»

Dalia storce le labbra. «Non proprio.» Torna a farsi vicina al piccolo con la testa, catturando completamente la sua attenzione. «Era un principe, il secondo della sua dinastia, ed era molto, molto triste.»

«Perché?»

«Perché delle persone malvagie stavano attaccando il suo regno ma lui aveva trovato un modo per impedire loro di farlo, ed era racchiuso proprio in quella scatola. Ti chiederai cosa ci fosse di tanto particolare in lei... niente, si trattava di una semplice scatola di legno più o meno dell'ampiezza delle spalle del principe ma era stata costruita di suo pugno e sul coperchio di essa, incisa con un affilato coltello, vi era la figura della ragazza variopinta, l'unico decoro che abbelliva l'esterno poiché il segreto era contenuto dentro... Una volta scelto il suo sfidante, l'uomo da battere, il nemico del suo villaggio, il principe richiedeva una stanza privata con lui, proponendogli una sfida, ed apriva la scatola. All'interno vi erano delle tessere di domino. Ci hai mai giocato?»

Il piccolo, lento, scuote la testa negativamente, permettendole così di continuare a raccontare.

«Si tratta di un gioco che si articola grazie a delle tessere d'avorio ed ebano. Su di esse si traccia una riga a divedere la loro lunghezza, si disegnano dei neri punti ed il gioco consiste nell'accostare le tessere simili l'una all'altra, secondo dei turni di gioco. Chi rimane senza tessere vince la partita. Un giorno te lo porto. Per noi può diventare un buon passatempo ma per il principe... era un vero e proprio rituale. Ad ogni singolo incontro, di fronte al suo prossimo sfidante, questi afferrata la scatola sfiorava il corpo inciso della ragazza, piegata in sé stessa dal dolore, per poi far iniziare la partita. La storia racconta che il principe non perdesse mai alcun incontro e che al termine di ognuno di loro si vendicasse del proprio nemico.»

«Come? Lo uccideva? Allora perché ci giocava?»

«Per portargli rispetto, ma anche per un motivo molto più semplice: ogni tessera del domino si incastra l'una con l'altra, rivelando come un importante piano, l'intelligenza del principe. In qualche modo, attraverso quel gioco, il principe voleva far capire al suo avversario di essere più forte di lui e di aver già rivelato tutti i segreti che lui ed altri collaboratori credevano di potergli nascondere, ma sai quale è la parte più bella? Quella legata alla ragazza variopinta.»

Avverto impercettibilmente Nerissa spostarsi appena, dietro di me, stringendosi tra le braccia per poter accudire il freddo orrore derivante da questa storia. Il ragazzino, nella sua innocenza, non lo coglie, pronto solo a ricevere una morale che per noi è fin troppo chiara.

«Sulla schiena della ragazza variopinta, il principe aveva inciso dei profondi tagli. Erano essi a farla sanguinare e piangere, perché rappresentavano il dolore che il regno della dinastia stava subendo.
Ma ad ogni incontro, ad ogni vittoria... la pelle della ragazza mutava e da quei tagli spuntava qualcosa. Delle ali. Ali di farfalla. Colorate, vibranti, tingevano il legno della scatola finché non furono complete. Finché il principe non vinse la sua ultima partita e quell'incisione divenne viva.
La ragazza variopinta, nelle sue ali, aveva smesso di piangere ed in quella taverna, al termine dell'ultima partita, strinse il principe tra le braccia. Non aveva più paura, adesso che il mondo era in salvo. Potevano vivere felici e così fecero, uscendo mano per mano dalla taverna, abbandonando la scatola alle spalle. Ti sembrerà un racconto molto strano ma vuoi sapere la sua morale?»

I nostri quattro cuori battono secondo un ritmo diverso, dentro questa stanza, tanto da poter essere messi a paragone solo quello mio e quello di Nerissa, sfrigolanti di paura. In Tommy regna l'eccitazione di una nuova scoperta. In quello di Dalia lo stesso sentimento che aveva mosso la ragazza variopinta. Un puro istinto... di vendetta.

«Che l'intelligenza è un'arma molto potente e che non si deve mai sottovalutare una persona paziente, perché può essere la tua condanna. Che ogni errore, ogni sbaglio, ogni menzogna... comporta un prezzo, delle conseguenze, in grado di vendicarti.»

Nella mente, vedo me e Dalia schierati di fronte, ad un tavolo, con le nostre dieci tessere di domino di fronte. Il silenzio tra noi che rimane tale fintanto che la prima tessera non cade. Prima bugia. Prima conseguenza.

«Quindi vedi di fare il bravo, qui. Racconta sempre come stai alla tua infermiera ed a Paul. Vogliamo solo il meglio, per te, affinché anche tu guarisca.»

La mano di Dalia si solleva ad accarezzare la testa del piccolo, sorridendo in un modo tanto irreale da mettere i brividi. Vorrei entrare nella stanza, prendere il piccolo tra le braccia e trascinarlo via ma non posso far niente. Sono nascosto nell'ombra. Intrappolato in una nuova bugia.

P.O.V.
Hasim

Da mesi ho imparato che l'instancabilità, per lei, può essere un grande vantaggio poiché le permette di escludersi da ogni altro problema, concentrandosi unicamente sul suo lavoro. Ciò di cui non ha idea che accada è che dietro le sue azioni irrefrenabili, prive di pause, venga resa visibile la presenza di un enorme problema a gravarle sulle spalle.

Vorrei esordire con una battuta che possa fare riferimento alla delicatezza della sua pelle troppo pallida, troppo esposta al sole, troppo delicata ma so bene che sarebbe in parte sconveniente visto ciò che le è capitato.

Lèa potrebbe rispondermi con una spiazzante battuta di spirito che per lo meno sarebbe in grado di comunicarmi come stia cercando di lasciarsi alle spalle quella brutta esperienza. Per cui devo trovare un altro modo e ci penso, rimanendo alle sue spalle e vedendola accatastare i diversi contenitori, già acquistati dai compratori, con una furia che può appartenere solo a lei, dal momento che si confonde tanto con la tristezza. Era stata quella ad attrarmi? Non so dirlo per certo, forse la mescolanza delle due o forse il modo con cui Lèa continua a fissarmi.

Accorgendosi di me mi dona una prova di quest'ultima ipotesi, rendendomi cenere con la furia dei suoi occhi e quasi mi verrebbe da ridere se non fossi, in parte, anche seriamente preoccupato di come le sarebbe possibile farlo.

«Ehi, ehi, ehi! Non guardarmi così. Per questa volta non c'entro niente» la informo, ponendo le mani in avanti o meglio verso l'alto, a dimostrare il mio essere disarmato di azioni e pensieri, confermandole qualcosa che già pareva conoscere.

«Che cosa vuoi, Hasim?»

«Ho visto lo spaventapasseri andarsene via da casa sua come una furia e poco dopo anche te, in lacrime, allontanarti. Si può sapere che è successo?»

«Niente che riguardi noi. O per lo meno, non direttamente. Garcia riesce ad essere intransigente quando si tratta di lavoro.»

«Per questo Ercole ha raggiunto casa sua, così?»

«Se Cedric è intransigente, Ercole sa essere testardo e spericolatamente coraggioso. Non sono nemmeno stata in grado di fermarlo, mi auguro solo che non licenzi entrambi da qui.»

«Credi sul serio che potrebbe farlo?»

Si stringe nelle spalle, intrappolando tra le dita pallide una trina del suo abito viola gitano, cercando di darsi un contegno nel tremore. «Non so bene cosa pensa, certe volte. Posso solo augurarmi che non sia cambiato tanto.»

«Se ha intrapreso una strada sbagliata sono certo che tu sappia farlo ritornare sulla giusta via.»

Il riferimento è chiaramente nostro e la cosa la diverte, esortandola ad un mezzo sorriso triste. «Stavolta non è mio il ruolo. Il che è una fortuna perché al contrario di Amy sono sprovvista di pazienza.»

«"Amy"?» Domando senza capire, dinanzi a quella figura, all'apparenza caratterizzata d'amicizia, che pare mi manchi.

«Non l'hai notata? Si tratta della ragazza che da poco ha iniziato a lavorare qui. Non è molto presente da questo lato della proprietà, Cedric l'ha destinata altrove, ma non rimane ferma un attimo.» Muovo la testa appena, in un lieve dissenso che la porta a corrugare la fronte. Pare spazientita.

«A questo proposito, sono felice che tu sia venuto da me. Dobbiamo parlare» mi dice, lasciandomi divertito ad incrociare le braccia.

«La premessa non pare buona.»

«Mi osservi costantemente. La cosa non va a genio ad Ercole e nemmeno a me.»

«Non ti piace essere guardata?»

«Sei un padre di famiglia.»

«Non te lo nascondo, Lèa. Mi piaci ed anche da un po'. Sei una tipa tosta e nonostante ciò che è accaduto mi tratti con rispetto ma non è per questo che ti guardo.»

Tace, a seguito di parole che non sembrano sorprenderla, per poi arrivare alla conclusione da sola. «Hai paura di un ritorno dei Lee e che mi accada qualcosa.»

Mi stringo nelle spalle. «Non lo hai notato? La polizia mi ha abbandonato in questo posto senza scorta, perché mancava personale per proteggermi. Avrei voluto starvi lontano, in modo da trascinarmi dietro i problemi, ma poi mi sono detto che esservi vicino mi avrebbe permesso di tenervi sotto controllo. Te, Halima, le sole persone alle quali tengo.»

«Dovresti preoccuparti di te stesso, piuttosto. La polizia ci aveva assicurato che si sarebbe trattata solo di una situazione momentanea. Presto nuove leve si uniranno alla centrale e saremo di nuovo al sicuro.»

Rido, divertito dalla sua ironia alquanto triste. «Stai parlando di Francis? Quello mi vuole morto, forse più dei Lee.»

«Ti ha protetto l'ultima volta, mi sbaglio? Ormai sa che sei dalla nostra parte e non è il tipo capace di odiare qualcuno, tantomeno chi è cambiato per poter fare la cosa giusta.»

«Parlate tutti di lui con un simile rispetto che pare di ascoltare un essere divino» commento in uno sbuffo, affatto accettando una simile situazione che pesa come piombo al di sopra del mio cambiamento, affossandolo.

«Dovresti farlo anche tu. Francis è un uomo buono ed inoltre è stato l'amore di tuo fratello. Se provi ancora rispetto per Gyasi, se lo ami, allora devi amare anche Francis.»

La mia testa si abbassa leggermente, senza che sia la mia mente a comandarlo, verso la terra in cui so essere sepolto mio fratello. Non troppo lontano da qui, a memoria degli errori che ho già compiuto. Forse il mio è un cammino di totale redenzione, non ho altro scopo: vivere a fianco a Gyasi, a fianco a Lèa, mi permette di stabilire sempre con assoluta precisione il limite che, adesso è chiaro, non devo valicare ed insieme a loro due si aggiunge mia sorella, quando nelle nostre giornate di lavoro mi guarda e mi sorride tenendo sempre alle spalle il grande e nero gigante che mi evita dopo quello che ho fatto a Lèa, dopo che ho rovinato la terra sulla quale la sua schiena ogni giorno si piegava.

«Mia sorella è andata da lui, oggi. Non ho avuto le forze di accompagnarla» le confesso, riportando alla mente l'ultimo ricordo che ho di quel familiare feretro. Il giorno del funerale di mio fratello, svoltosi unicamente con la vicinanza della nostra famiglia avvolta nel silenzio della rabbia, del disprezzo. Solo Halima quel giorno aveva fatto sentire la sua voce e aveva urlato per quell'indifferenza che non rendeva giustizia all'uomo che era sotto terra.

Mi domando, adesso, se i miei genitori rimarrebbero in silenzio anche per me, nel caso di una mia morte improvvisa. Non li ho certo accontentati: non ho portato indietro Halima, mi sono interposto al loro matrimonio, ho lottato tanto a fondo da suscitare la loro delusione, la stessa che avevano donato a Gyasi.

No, forse non piangerebbero né mi compatirebbero eppure mi dico che non è importante. Non lo è quanto il sorriso che ha mostrato, ancora una volta, mia sorella al seguito del mio deciso no alla sua richiesta di accompagnarla alla tomba così da incoraggiarmi, quasi a voler dire che se non è stato per questa volta allora, sicuramente, sarà per la prossima.

Nella mia mente, spero davvero di riuscire a superare, un giorno, quel limite invalicabile. Basterebbe quello... per farmi tornare da mio fratello.

«Non devi vergognartele, Hasim» dice la voce di Lèa ad un tratto, venendo accompagnata dalla sua mano che si posa sulla mia spalla. Sollevo di nuovo la testa, per poter fissare negli occhi quella pecorella che aveva dormito tra i miei denti di lupo. «Sono certa che un giorno ci riuscirai. Quando sarai pronto. Per il momento tuo fratello è in buona compagnia.»

Questo è ciò che non concepisce Ercole, vedendo in me solo l'amore che sto provando ormai da tempo per lei: non recepisce questa sorta di unione che c'è, che è realtà tangibile, tanto da impedire anche a Lèa di andarsene. Credo che sia triste da dire ma l'evento che ci è capitato ci ha uniti irrimediabilmente, creando un legame tanto simile alla vicinanza.

Può non avermi perdonato del tutto, Lèa. Può non amarmi, ma non può smettere di avvicinarsi per guarirmi. Curare un braccio, un animo, ferito fin tanto da cancellare le nostre colpe, usarci per un reciproco sfogo, dona ad entrambi molto coraggio ed una maggiore forza di resistenza. Finché non abbandonerà il mio fianco saprò che cosa fare, imparerò a camminare per poi scoprire che c'è un mondo al di là delle insicurezze. Il solo posto dentro il quale il popolo del South Side vive felice, tenendomi la mano in modo da accogliermi in un paradiso di perdono.

P.O.V.
Halima

Non ho dimenticato quali fossero i suoi fiori preferiti né come amasse appuntarseli ad una maglia.
Lascio riposare lo stelo al di sopra del suo cuore, certa che sotto questo tumulo di terra possa battere ancora.

Quasi mi pare di vedere Gyasi sorridere furbamente, proprio dinanzi a me, perché consapevole del gesto che sto per fare. Non è molto, né guidato da qualsiasi incentivo del vecchio Frederick, ma ho deciso di avere coraggio. Per questo sono certa che mio fratello stia apprezzando, incoraggiandomi con gli occhi ad abbandonarlo adesso, dirottando la direzione della testa verso il sentiero che devo percorrere, così da farmi avanti.

Prendo un profondo respiro e mi sollevo in piedi, lasciando un'ultima carezza sopra la sua testa ed osservando la lapide che finalmente sfoggia il giusto aspetto marmoreo, con tanto di foto. Avrei voluto conservare per me anche quel ricordo ma poi alla mente è passato il pensiero che qualunque cosa riguardasse Gyasi non potesse essere mossa dall'egoismo. La sua memoria è per noi tutti ed è un monito, l'esempio di un amore ostacolato e di una fragilità non rispettata come tale, in grado di diventare emblema per il futuro. Perché Gyasi non è niente di meno, rappresentando parte anche della mia forza.

A bassa voce, lo saluto in un piccolo addio che gli promette il mio ritorno. Dopodiché mi avvio verso il centro del South Side.

Superando la barriera verde di proprietà Garcia, occorre molto tempo per poter raggiungere la strada corrosa da detriti di asfalto sui quali, ogni giorno, i nostri piedi camminano ed ancora di più per immettersi nel mercato.

C'è confusione nella nostra piccola cittadina ma non mi fermerà: sto andando da Marcus, in modo da parlargli.

Ancora non so bene in che modo comunicargli quello che sento dal momento che, nonostante la spigliatezza con cui ogni giorno discuto e ribatto con Issa, mi sento ancora una bambina e la differenza di età con Marcus non gioca a mio favore. Gli anni interposti tra noi, infatti, non sono molti ma paiono oceani se intromessi in simili situazioni. Prego di non fare una brutta figura perché mai vorrei perdere l'unica opportunità in grado di manifestarsi tra di noi, ma ho un'immensa paura ed un'infinita timidezza che si augura di essere presa seriamente da lui.

La confusione che provo, infatti, non è uno scherzo, tenterò in qualunque modo di comunicarglielo. Possono pure essere prime sensazioni ma mai nessuno, come lui ora, le ha smosse.

Con questi pensieri, intromessa nel mercato, tento di rimanere con i piedi per terra per poter procedere con correttezza, senza scontrarmi con nessuno. In questa piccola piazza c'è fin troppa gente e con la mia piccola borsa a tracolla risulto come una giovane acquirente pronta a mettere mano al portafoglio.

Terminato questa riflessione, infatti, un commerciate si pone di fronte a me. Comunica secondo una frase concitata dalla vendita ma non lo ascolto, notando la contraffazione della sua merce. False marche, ma la pelle di serpente di alcuni portafogli pare vera.

«Non mi occorre niente, la ringrazio» riesco a riferirgli, riuscendo quindi a seminarlo con veloci passi che lo portano presto ad essermi alle spalle.

Ormai manca poco a raggiungere il refettorio del volontariato.

L'ipotesi che possa mancare loro qualcosa, cibo, acqua, delle nuove lenzuola per i materassi, mi conduce di nuovo ad uno stato di assenza dal mondo terreno causando il mio conseguente scontro con una figura piuttosto alta.

«Mi scusi, non guardavo dove stavo andando, io...»

La voce mi si interrompe di colpo perché gli occhi, rivolti verso terra a causa del mio imbarazzo, notano la stranezza degli abiti che lo sconosciuto di fronte a me sfoggia. Scarpe eleganti ma accompagnate da abiti in lino troppo leggeri ed è così che i miei occhi scorrono verso l'alto, intrappolandosi in degli occhi neri... più oscuri del più profondo pozzo.

In certi momenti della mia vita mi sono convinta che il mio cuore, dallo spavento, potesse saltare ritmiche del proprio battito. Ora, invece, non avverto affatto il suo pulsare il che mi fa credere che il terrore, se definito tale, possa essere in grado di arrestare anche del tutto quell'organo vitale mentre la mente perde connessione con gli eventi.

«Ciao, Halima.»

Credevo di essermi del tutto dimenticata della sua voce ma scopro che era rimasta sempre in un angolo del mio cervello, sempre rannicchiata, colonna sonora delle mie paure che adesso sono divenute reali, materializzatesi nella figura di Tabansi, a me di fronte.

Le sue iridi nere non mi perdono di vista neanche mentre sto per retrocedere. Il suo corpo rimane immobile, sempre più visibile, sempre più terrificante, quando la distanza tra di noi si allarga permettendo una visione più ampia della scena, delle persone che ci passano intorno, ignare. Che ridono felici nel loro mondo mentre il mio ha assunto tinte tanto scure da sbiadire ogni colore.

No... no, non voglio.

Parto a correre tra la gente, mi allontano sempre di più da quel terrore che cerco di lasciare alle mie spalle ed il fiato mi si spezza nel farlo, il corpo pulsa, il cuore torna a battere combattivo nel riferirmi che possiamo avere ancora una chance, se ci allontaniamo a sufficienza.

Separati dal marasma della folla, le strade si mostrano a me ed al mio animo terrorizzato tanto deserte da essere infinite ma non mi importa perché continuo a correre. Fino alla casa di Issa, finché non tento di afferrare le chiavi.

Il mazzo cade a terra, il tremore non riesce a sorreggerlo. Mi chino veloce e lo riafferro, facendo scattare il meccanismo con un colpo deciso di polso ed è così che entro all'interno, chiudendomi il portone con la spinta delle spalle.

Vittima della tachicardia, il petto ha un proprio respiro ma non mi lascio vincere dal terrore. Mi muovo in direzione di un pesante vaso di ceramica e lo afferro, sentendo da dietro la porta che non sono riuscita a richiudere, nella confusione dell'adrenalina, pesanti passi accorrere.

Vorrei trovare una postazione migliore ma non ho tempo, la maniglia si inclina ed un uomo dalla pelle scura riesce ad entrare.

Sollevo il vaso verso l'alto ed affondo il colpo nell'aria, fermandomi l'istante esatto in cui le sue mani si sollevano verso l'alto come ad interrompere il mio gesto. Ed è così che vedo Issa, di fronte a me con uno sguardo spaesato, che osserva il vaso e la mia espressione rivestita di sudore e di lacrime.

Sfinita, abbasso le braccia e le mani che ancora contengono la ceramica, vendendo con la coda dell'occhio da una delle finestre che fortunatamente Tabansi non mi ha seguita fino a qui. Dopodiché il vaso viene spostato dalle sue mani a terra e vengo strinta tra le sue braccia, in un conforto che è un tentativo di dare confine alle mie paure, riversatesi in una realtà nella quale mi sentivo al sicuro.

P.O.V.
Dalia

Esiste una lezione che Paul Bennett mi donò fin dalla tenera età nella quale lo vedevo come semplice braccio desto di mio padre ed è quella di non avere fretta. Ogni evento ha il suo tempo e sancite regole che possono metterlo a ferro e fuoco. L'unica cosa che occorreva possedere erano conoscenze, giusti agganci, dopo il sopraelevato livello di sopportazione per l'attesa. Una volta accordati tali requisiti, era possibile rimanere ad osservare ogni conseguenza generarsi e devo ammettere, a distanza di anni, che non mi aveva mentito affatto.

Dal divano sul quale avevo osservato il mio futuro marito osservare ogni minima azione di quella ridicola infermiera, lancio uno sguardo a Paul così da sorridergli divertita da questa strana scena.

Dovremo entrambi sentirci onorati di ospitare tra noi una figura tanto illustre, strana quanto elegante, in grado di attardare il mio occhio.

Un bell'uomo, lo confesso. Alto, scuro di carnagione, muscoloso come lo sono dei feroci animali pronti all'attacco. Una sorta di ghepardo, proveniente da terre straniere, che ci racconta attraverso il suo portamento e la sua calma un nuovo stile per concepire la vita con la giusta attesa.

«Accetto» ci comunica, dopo un tempo all'apparenza eterno, mantenendo le mani unite dietro la schiena ed un piede avanti, nella nostra direzione. Schiena rigida, petto spavaldo ed una grazia davvero fuori dal comune, intrappolata dentro abiti di lino ed un accento straniero.

«Sei riuscito a vedere la ragazza?» Domanda Paul e la testa dell'altro, lenta, si inflette solo in un piccolo inchino laterale, come a conferma. Il gesto mette in mostra il piccolo cappello di stoffa cilindrica che riposa sulla sua testa, della stessa cromia della veste bianca, arricchita unicamente da arabeschi decori in stile moderno sul petto. Elegante e tradizionalista della propria cultura. Un classico esempio di fiducia a dei vecchi regimi.

«Ne siamo molto felici, Tabansi. Come vedi, di noi puoi fidarti.»

«Sono pronto per entrare in affari. Un patto è un patto.»

«Ciò che dici è vero» subentra tra di noi Paul, avvicinandosi al tavolino centrale alla sala in modo da accostarsi allo sguardo del ricco commerciante di petrolio. «Un patto è un patto. Per questo motivo la sola garanzia rimarrà la certezza del matrimonio con la ragazza, solo una volta terminati i nostri affari.»

«Saprò aspettare» afferma Tabansi, guardando nella mia direzione per poter manifestarmi la sua certezza. «Ora che so dove si trova e che sta bene, saprò aspettare.»

Non avrei mai pensato di utilizzare Halima, quella ragazzina che avevo incrociato una sola volta alla Garcia, per i miei scopi ma aprendo la cartella di Attila avevo visto quanto il mio futuro marito fosse entrato in amicizia con lei, avvicinandosi con particolare attenzione ad ogni sua situazione di problematica, salvandola addirittura da un serpente in un capannone mentre indagava per mettere in luce il fautore degli incendi... che comicità.

William si è divertito fin troppo a torturare il fratello, che ho scoperto essere tra loro, per cui non mi interessa, rimarrà una sua complicazione personale. Mio, invece, è il compito di riportare Halima sulla strada che il destino aveva già prefissato per lei. Infondo, siamo tutti condannati alle conseguenze.

Scorro gli occhi lungo Tabansi, bevendo alla salute di un brindisi svolto sollevando i calici, carpendo dalle sue iridi scure il volto della prima pedina caduta del mio domino.

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