72- Fratelli
"Perché siamo fratelli, fratelli, fratelli
Non approvo niente di quello che fai
Perché siamo fratelli, fratelli, fratelli."
Brothers - John Mellencamp
P.O.V.
Francis
Un uomo sopravvive nei propri ideali.
È la frase che più mi ha colpito all'interno del libro che sto leggendo ormai da mesi e mi auguro che possa essere corretta. Che possa esserci una continuità all'anima, nonostante un'improvvisa assenza od un allontanamento.
Sto diventando più triste del solito, ma ho un motivo per il quale esserlo: il tempo si sta dilatando senza pietà, trascinando sempre più lontana l'ipotesi di una fine a questa sorta di prigionia alla quale mi sono prostrato e che si rende impossibile da gestire nei momenti di riposo.
Non ho alcun motivo per essere felice durante le pause che mi condannano al silenzio. Nessuna ragione di uscire la notte, ben sapendo che Rais non sarà lì ad aspettarmi.
Poso le mani contro il viso e le scorro ai lati, dandomi la forza per dimenticare come fosse piacevole questo posto mentre lui era ancora presente al termine di alcune giornate, ad esempio di premio perfetto che mi permetteva di tornare tranquillo come ora non sono affatto.
Che cosa starà facendo e che cosa faceva le notti in cui, senza il controllo della polizia, riusciva ad evadere da quella casa senza venire da me?
Attila aveva parlato di molte uscite, prima di abbandonarmi da solo a questo posto, ed un timore soverchia in me da tempo.
Temo che anche per Rais la situazione sia diventata difficile, proprio come per me, ma che guidato da una libertà che si è ricavato, passando libero tra l'incompetenza della polizia in sorveglianza, sia riuscito a trovare una soluzione.
Temo... che possa essere tornato alle origini.
Droga. Eroina. Traffici.
Che cos'altro potrebbe fare, altrimenti, se non questo?
E sono queste domande, che mi tormentano, a rendere invivibile il mio soggiorno qui, dilagando le ore.
«Che cosa ti prende?» Si interfaccia, con un interrogativo Gareth, masticando lentamente il pranzo privo di sapore che ci viene offerto dalla mensa.
«Niente. Non mi prende niente.»
Ho solo bisogno di sapere che accidenti stia facendo il mio ragazzo.
«Parlavi sul serio, ieri sera?» Attendo che pronunci la specifica domanda in merito alla questione che preme chiedermi. Lo fa poco dopo, osservandomi con timore. «Parlo del South Side e del distretto di polizia.»
«Mi farebbe molto piacere averti tra i nostri, Gareth, e sì credo che sia possibile. Stai valutando la possibilità di non entrare a far parte dell'esercito?»
«Sì... non credo sia più ciò che voglio. Mi hai parlato così tanto della tua città che ho finito per chiedermi come possa essere veramente una casa.»
Sorrido nel valutare quanto io possa essere logorroico nel raccontare qualcosa alla quale tengo. «Saresti perfetto, lì.»
In fondo, che cos'altro è il South Side se non una grande madre pronta ad accogliere chi ha smarrito la via?
Gareth si accomoda con lentezza contro la sedia, studiandomi con i suoi occhi celesti pallidi quanto lui.
«A che cosa stai pensando?» Mi stringo appena nelle spalle, senza riuscire bene a valutarlo. «Leggerai quello, durante la pausa?» Continua a chiedermi, indicando con un cenno della testa il libro che riposa al fianco della mia mano.
«Mi sta piacendo molto, sai?»
«Lo immagino, stai andando avanti lentamente.»
«È solo che non voglio che finisca. Faccio lo stesso con tutti i libri che mi appassionano.»
«E stai facendo lo stesso anche con Davies?»
«Proprio non ti va a genio, eh?»
«Perché, a te sì?»
Il soldato chiamato in causa sceglie di apparire proprio in questo istante all'interno della mensa, completamente solo. Ho notato, infatti, che è raro persino che si accompagni ad altri, preferendo la solitudine rispetto a qualsiasi altra situazione che preveda la condivisione.
«In certi momenti lo odio proprio. In altri, invece, quasi lo stimo.»
«Non ho idea di cosa tu possa averci visto» commenta, afferrando il vassoio dai due manici e sollevandosi in piedi, attirando così il mio sguardo.
«Dove vai?» Domando, stancamente.
«Verrà sicuramente qui. Anticipo il suo arrivo.»
«Sei bravo a capirlo» commento, notando William servirsi alla mensa ed incamminarsi, con lenti passi, in direzione della meta che Gareth aveva già previsto come termine.
«Vorrei riuscire a farlo meglio» mi dice.
«Già... non parlarmene.»
Vengo lasciato solo per pochi attimi: il tempo di Gareth di andarsene, di William di notare la sua ritirata una volta giunto a due tavoli di distanza dal mio e poi ecco il suo arrivo a testa china ed a spalle abbassate.
«Se ne è andato a causa mia?» Mi domanda, abbandono il vassoio alla postazione di fronte a me, precedentemente occupata, chiedendolo con voce stanca quasi non fosse risentita. Eppure, nonostante la diffidenza, immagino che non gli sia del tutto esente il bisogno di contatto.
Ho già notato l'allegria che traspare dal suo sguardo quando il nostro gruppo, la sera, si raduna per poter condividere quei momenti liberi di vita comunitaria. Da questo ho compreso come la mia abitudine di essere sempre circondato da un gruppo potesse contrapporsi allo stile di vita che forse ha avuto finora lui. Uno di quelli che gli chiedeva di essere da solo, di fronte a tutto. Una specie di figura autoritaria che pare possedere il pieno controllo. Pare... perché in certi momenti è quasi come se si disintegrasse.
In certi momenti mi viene quasi da credere... di essere più forte di lui.
«Non prendertela, è fatto così.»
«Magari è geloso. Passavi tutto il tuo tempo con lui, prima di me» mi prende in giro senza sorriso, facendo roteare nella mano la mollica di pane in una piccola pallina che poi porta alle labbra.
Inevitabilmente, vengo divertito dalla sua constatazione. «Io e lui non abbiamo mai avuto un simile rapporto. Parliamo spesso, ma c'è anche molta distanza. Per non finire per ragionare su quanto poco io conosca di te.»
«Molto più di quanto potrebbero dire altri, te lo assicuro» commenta a denti stretti, confermandomi le realtà che poco prima avevo supposto.
«Vuoi dirmi che ti sei sempre circondato di persone che non ti conoscevano?»
Lo chiedo ma come ogni volta in cui tento di indagare nel suo passato, William cambia rotta scegliendo un argomento affine che possa essere in grado di non fargli rispondere.
«Sai che cosa dicono le persone, riguardo a noi?» Scuoto lento la testa, interessato il poco che basta a una simile domanda. Degli altri non mi è mai importato e forse lo capisce, perché arriva a sorridere chinando il capo. «Che sembriamo come fratelli.»
Un piccolo silenzio accompagna la riflessione alla quale ero riuscito a giungere già da solo. «Si tratta di una cosa molto importante, per me.» Ammetto, attirando di nuovo i suoi occhi attenti.
«Anche per me. Non ho mai avuto un fratello, prima d'ora. Di sangue o meno che fosse.»
Immagazzino l'informazione, prendendo nota della debolezza della quale sembra essersi afflitto. Se non fingesse per tutto il tempo di indossare quella maschera di forza che non gli appartiene allora sono certo che altro non gli rimarrebbe che la verità. Quella debolezza e tristezza che sembra essere incisa nell'intradosso delle sue vene, quasi come una condanna.
«Quindi vuoi dirmi che non ne sei infastidito?»
«Tu lo sei?» Chiede di rimando, assumendo una posa maggiormente composta mentre mi analizza.
«Per me non è importante quello che pensano gli altri, ma ammetto che questa sorta di fratellanza non è spiacevole.» Riesco a farlo sorridere. Lo noto, per quanto William tenti di mascherarlo.
«Già... proprio come un riflesso, eh?» Commenta, sollevando la testa e sfidando apertamente la medesima posa che hanno assunto i nostri corpi. Sorrido, perché è vero che è divertente.
Nei mesi trascorsi in questo posto, annoiato dalla monotonia delle giornate, ho imparato a guardarlo con la giusta attenzione e tenergli testa. Inutile dire che non ho mai smesso di continuare a provocarlo, perché la sua rabbia genera in me una sorta di divertimento.
Dei nemici non si potrebbero mai divertire così ma noi lo facciamo, nonostante il flebile muro che, posto tra noi, contraddistingue una sorta di costante distacco.
Se solo fossimo cresciuti nello stesso posto, io e William, sono certo che non avremmo mai smesso di fare a botte, proprio come durante gli addestramenti di adesso, crescendo l'uno all'ombra dell'altro con la sorpresa e l'ammirazione che si può avere solo verso qualcosa in grado di generare una sfida.
«E invece tu? Hai un fratello fuori, non è vero?» Domanda con finta sufficienza, generando il mio divertimento come il mio silenzio. Solleva un sopracciglio. «Ah... non vuoi dirmelo. Ancora il gioco di tenere lontana da qui la vita vera?»
«Sei stato tu il primo ad impartirne le regole.»
«Lascia perdere, era una domanda scontata dal momento che credo di sapere la risposta» commenta, abbassando ora quel sopracciglio che si era innalzato in modo tale da generargli in volto l'espressione di una concentrazione affilata. «Tutto quello che mi è sembrato mancare, pare che lo avessi avuto tu e viceversa. Sicuramente ti sarai reso conto di una simile stranezza. Io mi muovo da solo, tu in gruppo. Io non ho fratelli, tu sembri averne. Io agisco con impulso, tu sei riflessivo.»
«Le situazioni possono anche cambiare veloci, William. Per ogni volta che tu agisci con precauzione, io mi faccio guidare dall'istinto.»
«Ammetto che quei momenti sono divertenti. Ti donano una parte della mia follia.»
«Ed è questo ad essere strano. L'alternarsi» confesso, aspettando che capisca cosa intendo. Non gli è estraneo. «In fondo, non si può essere fratelli se privati di simili stranezze.»
«Ad ogni modo ho dato un pugno al soldato che ci ha nominati tali.»
«Perché?»
Si stringe nelle spalle, lasciando cadere sul vassoio la nuova sfera composta dalla mollica di pane che era andato a generare. «Perché non conosco altro modo per agire, se non con la violenza.»
Una simile riflessione viene seguita da una totale assenza di suono, tra di noi, nella quale tento di analizzare le mutazioni del suo volto come la diffidenza con la quale mi aveva parlato.
«Non dovresti pentirti di avermelo detto. Lo preferisco, quando sei sincero.»
«Disse colui che non rivela niente di se» borbotta, intrecciando le braccia al petto e facendomi rendere conto che non ha mangiato niente del suo piatto.
«Lo faccio perché sono famoso per i miei difetti, uno in particolare: quando mi fido lo faccio senza riserve. Prima d'ora non sono mai arrivato a ricredermi per cui non vorrei farlo adesso, sbagliando a giudicarti.»
«Questo è interessante. E quando odi?» Evito di riferirgli la risposta, comprendendo bene quanto possa essere da solo in grado di ottenerla. La sua testa si china all'indietro. «Ah... da un estremo all'altro. Mi domando cosa possa esserci di vero.»
«Quando avrò finito di capirti, allora saprai anche da che parte ti ho collocato» gli comunico, seguendo con lo sguardo il solito gruppo di militari che si solleva da tavola per andare a fumare una sigaretta.
Incredibile pensare a quanti lussi possano essere concessi a uomini in divisa come noi, specie per chi si convince ad accettare di affrontare la guerra a campo aperto.
«Vuoi uscire fuori a fumare?» Mi domanda, costringendomi a portare gli occhi di nuovo su di lui, prede della confusione.
«Non mangi niente?»
«Non ho fame» commenta, sollevandosi dalla sedia e facendo strada mentre afferra il pacchetto delle sue sigarette, portandosene alla bocca una.
Osservo il gesto, ricordando di avergliele viste finire solo la notte prima, mentre era steso sul letto alla mia destra. Nel buio della stanza l'avevo sentito lamentarsi, prolungando un'esclamazione oscena che era stata sussurrata a bassa voce, per non svegliare nessuno.
Ultimamente è nervoso, ma c'è di peggio e questo nuovo pacchetto ne è la conferma. Qualcuno è riuscito a fornirgliene uno di scorta, non essendo potuto nessuno di noi uscire ulteriormente a seguito del contrappello notturno. Ciò vuol dire che, con la violenza che tanto aveva acclamato poco fa, forse William aveva ottenuto da una persona più debole ciò che voleva. Forse, in un semplice contrabbando simile al carcere, aveva ricevuto il suo premio in un'ulteriore via. Quello che è certo è che nessuno si possa essere spinto a donarglielo di propria iniziativa: William ha un aurea trasparente intorno a se, come un involucro in grado di allontanare le persone, che può essere capace di generare tanta paura quanto sospetto. Nessuno gli arriva vicino, se non dopo aver inghiottito la saliva.
«Sei uscito fuori a comprarne di nuove?» Mi faccio avanti spedito, nella mia indagine. William è quantomeno sorpreso nel sentirmelo chiedere, ragionando l'attimo dopo sulla possibilità di essere stato sentito mentre spergiurava.
«Me le ha prestate uno dei soldati.»
«Ma davvero?» Chiedo con divertimento, certo che tra le molte alternative la sua risposta mi avrebbe offerto la meno fattibile. «Nonostante nessuno osi avvicinarsi?»
Sorride, divertito dalla mia provocazione. «Non volevo parlartene apertamente, Dowson, ma non sono io il solo mostro cattivo. Hai notato che anche tu, eccezione fatta per i tuoi amici, hai il più completo vuoto intorno?»
«Questo che significa?»
«Che anche tu sei temuto. E lo sei, perché sei bravo. La maggior parte di queste divise si è arruolata solo per avere un pasto caldo ed una retribuzione in futuro, nessuno è mosso da veri principi per cui riscontrarli in te mette loro soggezione, o quanto meno li porta in uno stato tale da suggerirgli di girarti alla larga.»
«Direi che è ridicolo, non posso fare a nessuno di loro del male» commento, fissando il punto esterno nel quale ci siamo fermati, afferrando quindi anche il mio pacchetto per poi vedergli accendere ad entrambi la bianca cartina.
Inspiro il fumo una volta accesso, per poi rilasciarlo dal naso vedendo William, con la coda dell'occhio, picchiettare il filtro per far cadere la cenere.
«Credo che sia solo duro per loro scendere a paragone.»
«Non dovrebbero farlo... una volta presa la loro divisa diventeranno qualcuno, il resto di queste persone. Ingegneri, forze dell'ordine di alto rango, importanti soldati mentre io me ne tornerò nella mia povera città, confinato in un luogo che nemmeno conoscono.»
Da tempo ho ben notato il loro cognome e l'eleganza degli abiti con i quali escono la sera, il resto di queste persone che come dice William hanno scelto solo la strada più semplice per vivere nel comfort di una legge alla quale nemmeno credono, per cui non dovrebbero farsi intimorire da un poveraccio come me. Sparirò nell'anonimato senza che se ne rendano conto e forse non riuscirò nemmeno a raggiungere il motivo della ricchezza dei loro avi, scavandone recondite ragioni, per cui davvero non dovrebbero temere questa semplice competizione.
Siamo destinati a tipi diversi di futuro, particolarmente distanti gli uni dagli altri da non favorire incroci.
«Secondo quanto mi hai raccontato, il South Side non è un luogo per tutti. Non dovresti sottovalutarti. Forse, il resto di queste persone nemmeno riuscirebbero a sopravvivervi.»
Non tutti, ma so chi ci potrebbe riuscire. Gareth mi ha chiesto direttamente se possa essere in grado di farlo ed ormai è più che certo che anche William appartenga a questa cerchia.
Lo osservo con la coda dell'occhio fumare, domandandomi quali possano essere i suoi programmi riguardo al futuro e secondo quali ragioni era stato spinto fin qui. Mi chiedo se anche lui creda, come me, nella legge o se abbia semplicemente lottato, come loro, per una divisa ed un riconoscimento. Dal carattere pieno di fervore che dimostra un motivo c'è, ma non è mio compito concepire quale.
«Poco importa, ora. Trascorrerà ancora troppo tempo prima che io possa tornare» confesso, ragionando sulla dolorosa consapevolezza che mi aveva trafitto nello svegliarmi, affiancata al pensiero di lontananza da Rais e da ogni sua azione, da mio fratello, dal resto dei miei amici.
«Abbiamo ancora molte altri allenamenti da seguire, intendi dire, mh?» Commenta, inclinando la testa verso lo spazio in procinto di essere adibito per la nostra lezione futura. Niente teoria, stavolta, a differenza del corso di strategia militare di questa mattina. Per giunta, sta iniziando a svolgersi.
Spegniamo le sigarette negli appositi spazi dedicati, gettando i mozziconi troppo poco consumati nella pattumiera ed avvicinandoci al nostro capitano di corso prima ancora che possa suonare la campanella degli inizi.
Equitazione, niente di meno.
Non è la prima volta che tocca una simile istruzione ma nemmeno si è svolta con una frequenza tale da generare abitudine.
Radunato il gruppo di cadetti, il capitano sancisce gli ordini assieme alle regole di comportamento in questa struttura conclusa da delle aste di ferro a sorreggere il capannone. Ognuno di noi ha un cavallo attribuito, sulla sella del quale è stato riportato il nostro numero identificativo, per fare in modo di non perdere il contatto precedentemente stabilito.
Simili animali hanno bisogno di cure quanto di un approccio diretto, familiare, per consentirti di gestirli con la giusta attenzione.
Tento di ricordarmelo, accarezzando la criniera di Zeno, il nero destriero che mi è stato affidato, rimanendo ad osservare i suoi occhi neri. Pare riconoscermi, tanto da rallentare la corsa del cuore non appena sfioro il suo costato, consentendomi di procedere nelle carezze fino alla rassicurazione del suo stato di calma.
Sollevo gli occhi solo al suono di lenti zoccoli che marciano fino a noi, verificando la presenza di William già in sella alla sua bianca giumenta che, se non sbaglio, credo che abbia rinominato Alhena.
«Andate d'accordo» commento, senza arrestare le carezze su Zeno. Il mio è un animale difficile, testardo per quanto addestrato, tanto da farmi ridere nel pensiero che possa essere il mio doppio. Anche lui ha bisogno di infinite carezze, di rassicurazioni. Di capire, davvero, di potersi fidare ed una volta fatto è tanto allenato da essere instancabile, da non cedere a nessuna provocazione dell'allenamento, a stare al mio passo. Ma per quanto possa averlo capito, non sono ancora arrivato alla pari di William che sorride e picchietta con il palmo il muso della giumenta che nitrisce appena.
«Eccome, io e lei andiamo molto d'accordo.»
«Credevo che si sarebbe arrabbiata, per il tuo cambiamento di nome.»
«Dovevo farlo. Mi ha ricordato un'altra cavalla in mio possesso, è lei a chiamarsi così.»
«Per cui, sai già cavalcare» commento, osservando la maestria con cui tira indietro le redini impedendo all'animale di proseguire nella sua danza di zoccoli in ferro, contro il pavimento in sabbia.
«Non molto, ma ho già avuto modo di imparare» mi informa, assicurandosi la totale calma di Alhena prima di arrivare a sorridermi. «Cosa c'è? Temi un po' di competizione?»
«Affatto» lo avverto, certo di quest'unica possibilità di conferma.
«Allora avanti... fatti sotto.»
Schiocca la lingua contro il palato ed Alhena si solleva, sorreggendosi sugli arti inferiori. Dopodiché procede al trotto, sorvolando con precisione il primo ostacolo della competizione in un esibizionismo che può essere paragonato solo a quello del suo padrone.
Io e Zeno rimaniamo in silenzio ed una volta l'uno in completa sicurezza con l'altro ci concediamo un passo avanti: pongo un piede sulla staffa e monto in sella, osservando il mondo da un'altezza alquanto sopraelevata.
Non volevo lasciarmi vincere dalla sua provocazione ma arrivo a sorridere. Senza dire niente, noto Zeno fare retrofronte e seguire le azioni di quel pazzo che forse si renderà colpevole della mia esclusione nell'esercito.
Non siamo nati nello stesso luogo. Non abbiamo mai litigato da bambini, ma il nostro essere fratelli ci sta portando più vicini e farsi la guerra è parte stessa di un simile confronto, pieno di un'innocenza che è rimasta intatta nonostante la maturità.
P.O.V.
Ercole
La vanga affonda nella terra con la cadenza regolare che può avere solamente la ritmica di un lavoro imparato fin troppo bene ad eseguire. La differenza di questo caso, però, risiede nell'assenza di padroni. Si nasconde dentro l'ipotesi di quanto sia possibile vivere senza lasciarsi governare dagli ordini di altri.
Prima d'ora non avevo mai avuto problemi con l'autorità, sapendo a quale luogo appartenessi, eppure devo dire che ultimamente le cose non hanno seguito il loro solito percorso. Nuove idee si sono affacciate nei meccanismi della vita e confesso la loro propensione alla rabbia, come al mio essere rimasto ferito da parole troppo forti che non mi sarei mai aspettato di udire, ma non ha importanza adesso. Quello che è importante è sanificare questo terreno, affinché possa nascervi qualcosa di più sano.
«Lavori sodo, spaventapasseri» sento dire la voce di Frederick sopra il mio capo chino. Tento di non far trasparire troppo il fastidio che un simile appellativo genera.
«Non chiamarmi così.»
«Perché? Perché lo faceva il tuo migliore amico, che adesso è solo il tuo capo?»
Da che me ne ricordi, ha sempre avuto una strana propensione alla provocazione e la cosa era favorevole al percorso di elaborazione del lutto che aveva comportato la morte dei miei, in quei giorni in cui sentivo Frederick provocarmi di proposito per suscitare una mia reazione infantile in un'età che gli rendeva facile il manovrarmi. Peccato che le cose siano cambiate, o quanto meno che il tempo abbia decisamente favorito la mia crescita.
Sollevo la testa e poso il corpo stanco all'estremità della vanga, per poi farla dondolare in avanti ed indietro, mentre è affondata nella terra, a ritmo con lo squilibrio del mio respiro.
«Quale è il motivo della tua visita, Frederick?»
«Semplice curiosità. Mi domandavo cosa facessi durante le tue ore di riposo ma vedo che lavori lo stesso.»
«Questo è il mio solo lavoro vero» commento, il che gli genera curiosità.
«Sul serio? In un lotto di terreno che non è della Garcia?»
Evito di commentare altro, picchiettando il dito contro il ferro del mio strumento pur di non riferire le mie ragioni.
«Non credo, davvero, che tu ti sia spinto fino a casa mia per questo.»
«La piccola Valerie è qui?»
Non è strano che lo chieda, tutti noi le vogliamo molto bene. «No, è in giro per il South Side a distribuire giornali, come fa sempre.»
«Bene. Ognuno ha la propria vita. Ed hai saputo anche del ritorno della Reyens e di quello che vuole fare?»
«Sì, ma non mi interessa, è una cosa che riguarda lei sola. Le avevo offerto il mio aiuto ma non saprei proprio come darglielo nel concreto.»
«Io la sto aiutando.»
Questo è ciò che davvero mi sorprende. «Tu?» Domando con scetticismo, fissando la piccola figura del nostro più instancabile lavoratore. «Il malato di cinismo ed egoismo?»
«So che non ti sono mai andato a genio e lo capisco, ma sto cercando di estirpare parte anche dei miei errori. Ho un debito con queste terre.»
Dovrei smetterla di stupirmi sul cambiamento che può affliggere le persone. In fondo, ho provato una simile deviazione addosso, attraverso confronti velenosi quanto penosi, per cui tento di arrendermi e di non fare la lotta anche a questo povero uomo che si guadagna il mio sospiro, come un tentativo di comprensione.
«E per quale motivo vuoi farlo adesso?»
«Ho un favore da chiederti. Attraverso esso capirai il motivo per cui sto cercando di mettere apposto certe cose, qui.»
«Di che si tratta?»
«Sono malato.» Taccio, capendo la pesantezza della sua condizione fisica dal modo in cui mi osserva. «Una malattia data dall'eccessiva esposizione della pelle e da un insieme di altri fattori. La mia generazione non si proteggeva bene, un tempo. Ho bisogno di andarmi a curare fuori, per molto tempo, ma non posso portarmi dietro con me la piccola Brianna.» Mantengo il mio silenzio, consentendogli di proseguire in una richiesta che può non sembrargli facile da esporre. «Mi procurerò di mandarti soldi ogni mese, per mantenerla. Potrà fare compagnia a Valerie, se lo consentirai.»
«Se hai i soldi per occuparti di lei, perché vuoi che rimanga qui?»
«Non sa della mia malattia. Per la verità non ne so molto nemmeno io, per questo vorrei che rimanesse al sicuro da qualsiasi tristezza le possa provocare e tra persone che possano prendersi cura di lei al meglio.»
Tra le righe, leggo la sua paura della morte che si unisce al bisogno di fare a menda. So anche a che cosa si riferisca questa sua sorta di viaggio d'espiazione, dal momento che conosco anche quale origine nei suoi confronti possedesse il mio odio.
Anni fa era parte dell'equipe di tecnici lavoratori che doveva assicurarsi della messa in sicurezza delle macchine. Non è sempre stato un contadino come noi, quasi nessuno dei lavoratori lo è pienamente, per cui è coinciso con il tempo il momento della sua carica, affiancata alla morte dei miei, per una mancanza che era indirettamente a lui connessa. L'ho accusato per molto tempo di un errore generato, per primo, dai Garcia ma mentre la mia amicizia con Cedric, cresciuto al mio fianco, aveva reso facile il perdono alla sua famiglia piena di colpe lo stesso non era stato per l'uomo che ora, dinanzi a me, supplica il mio aiuto. Ed io non sono mai stato tanto egoista da negarlo.
«Accetterai, Ercole?»
«Sì, Frederick. Certo che lo farò.»
Mi sorride, espirando profondamente quasi fossi riuscito a donargli nuova aria. «Questo mi rincuora. La piccola ha così tanto bisogno d'amore che... sono felice possa rimanere con voi.»
«Non le faremo mancare niente, promesso.»
«Non accadrà comunque tanto presto. Prima voglio sistemare le cose qui.»
Un brivido mi assale, misto ad una sensazione di orrore che mi fa proseguire nel mio lavoro. «Non vale la pena che tu perda il tuo tempo, Frederick. Specie dietro cose tanto inutili.»
«Inutili? Perché dici questo?»
«Stavi parlando di Cedric, no?» Chiedo, continuando a zappare il terreno e cercando di seppellirvi, all'interno, il ricordo di lui che era comparso poco fa negli anni della nostra infanzia condivisa. «Per cui è inutile, ormai è come parlare con un muro. Ho cercato di avvertire anche Amy, ma lei è la persona più testarda al mondo.»
«L'ho notato. Per questo sono certo che ci possa riuscire» commenta con un sorriso, per questa sorta di battuta ironica.
«Magari è così, ma spero che le basti l'uomo che è diventato.»
«Cedric è lo stesso di un tempo, Ercole, solo che occorrerà lei per dimostrartelo.»
«Tra poco non sarà più importante che lo faccia...»
«Che cosa intendi?»
Non gli avrei risposto nemmeno se Lèa non stesse attraversando il giardino in lacrime, cercando di non far notare la sua condizione, ma devo dire che questo cambia tutto.
Arresto il mio lavoro in un attimo, andandole incontro e sollevandole il viso che, tremante, tenta di guadagnarsi un contegno dal momento che si trova a fare i conti con il mio.
«Frederick, continuiamo più tardi, ti va?» Domando poi avvertirlo appena rispondere, nemmeno faccio caso a quello che dice e continuo a sfiorare il viso della donna che amo. Leggermente più tranquilla, ora, cerca di scivolare via dalla mia presa in una rassicurazione che non mi convince affatto. «Che cosa è successo? Parlamene.»
«Non è niente, Ercole, solo della tristezza.»
«Generata da cosa?»
Scosta il viso e guarda più lontano, ma una mia mano scivola lungo un suo braccio per afferrarle la sua, immobile e gelida vicino al suo fianco, portando così di nuovo alla mia attenzione tutto il turbamento che l'ha raggiunta. Non occorre nemmeno che mi spieghi più da che cosa è nato, conosco il motivo. Ultimamente la tristezza in questa casa proviene da un solo fulcro ed è assurdo pensare alla portata distruttiva con la quale riesce ad abbattere ogni difesa che il mio amore genera, attorno ai nostri cuori.
Lui non si rende proprio conto... di cosa è in grado di fare. Delle vite che la sua ha toccato e così le conseguenze alle quali siamo condannati tutti noi, ma io ora sono stanco del suo egoismo e del suo agire unicamente per il proprio bene. Stanco di vedere la donna che amo soffrire così, dopo che ha lottato tanto per restare a galla.
Separo le nostre mani e mi volto, deciso a raggiungere un nuovo obbiettivo.
«Ercole, dove vai?!»
«Restane fuori, Lèa, è una questione solo nostra» affermo, marciando spedito nei miei passi e lasciandola sempre più lontana.
«Ti prego, non è niente! Torna qui!»
Non la sto a sentire, perché per quanta leggerezza può esserci stata nel corso dell'evento che l'ha ridotta così la tensione è palpabile da mesi e sono stanco di sopravviverle. Stanco di dovere soccombere ancora, di piegare la testa a qualcosa che è tanto ridicolo da provocarmi sgomento.
L'unico motivo per il quale non me ne sono andato è perché questa è la mia terra. Su questo grano è cosparso il sangue dei miei genitori, è riversato il mio sudore, la mia fatica. Il mio odio, quanto il mio amore.
Le suole sono attaccate a questo posto e niente può suscitare la mia ritirata. Nemmeno il peggiore degli stronzi, per quanto si diverta a mettermi alla prova.
Raggiungo la villa in un attimo ed entro all'interno, ritrovando il suo studio. Ironico pensare a quanto bene lo conosca, a come possa essere stato prevedibile il suo bisogno di rimanere a piano terra per non dover ripercorrere il corridoio sul quale era morta sua nonna. Il tutto perché io lo capisco, mentre invece lui? Che cosa diavolo ha fatto della nostra fratellanza di un tempo e dove ha nascosto la capacità di mettermi, con ironia, alle strette solo per provocarmi un amichevole fastidio?
Tutto è scomparso, il passato si è disintegrato dall'ultimo confronto che mi ha visto uscirne totalmente a pezzi e direi che è il caso di rimediare a un simile fastidio.
Lo trovo seduto sul divano della stanza, affianco alla scrivania in mogano, con lo sguardo perso e dei contratti sparsi sulle gambe e per terra. Il pollice e l'indice a sorreggere la testa mentre il gomito è posato sul bracciolo della seduta e poi la sua attenzione indirizzarmisi contro non appena nota il mio ingresso.
«Che cosa hai detto a Lèa?» Domando, avvicinandomi con una rabbia che lo fa sospirare e sollevarsi in piedi, per poter tornare a passeggiare nella vicinanza del tavolo.
«Niente di troppo spaventoso. Solo di essere più concentrata, mentre lavora.»
«Oh! Un consiglio gentile, da parte tua» affermo con ironia, costringendo i suoi occhi ad alzarsi di scatto dalla trappola alla quale li costringevano le carte.
«Non un consiglio ma un ordine. Sono il suo capo.»
«E nient'altro di più, a quanto pare. Ricordi, per caso, cosa abbia passato? Lèa dedica tutta se stessa nel lavoro che fa, in modo da dimenticare quello che è successo. Facendola sentire meno competente in questo la fai soffrire.»
«Sono certo che la Lèa che ricordo odierebbe se la trattassi con favoritismo.»
Sorrido nell'ascolto di una frase tanto cinica da essere predetta. «Sono certo che non si trattasse di favoritismo, ma solo del tuo modo di essere semplicemente uno stronzo.»
Che mi licenzi, se vuole. Non aspetto altro. Glielo comunico anche con lo sguardo, ma nonostante tutta l'inimicizia che può esserci tra noi Cedric ancora non cede a quel passo. Mi domando se il motivo sia per la conoscenza che ha riguardo all'affetto che provo, assieme all'amore, per questo posto ma c'è un modo più semplice di risolvere tali inconvenienti.
«Sei venuto qui solo a difendere la tua ragazza?» Chiede con cinismo, nell'esortazione di farmi uscire al più presto dalla stanza.
«Abbiamo questo vizio, noi uomini innamorati. Trattiamo le donne che amiamo, o che abbiamo amato, con rispetto.»
«Per caso è un complotto generale per farmi tornare da Amy?»
«No, Cedric» commento, raggiungendolo di fronte alla sua scrivania e ponendo entrambe le mani sul tavolo, in modo da sporgermi in avanti. «Il mio è solo un tentativo di dimostrarti quanto sia migliore di te.»
«Molto maturo.»
«Non hai fatto certo di meglio. Critichi tanto Amy per essersene andata, ma vogliamo parlare di te, mh? La mia amica se ne è andata per paura. Ti ha lasciato, per paura. Una cosa che si può accettare, sapendo che ti ha amato. Avrei potuto anche accettare il tuo dolore per la morte di Zelda, in grado di esortarti a trattare le persone in questo modo, mi andava bene, finché intaccava me. Ma Lèa non la devi toccare con tutto lo schifo che ti porti dentro. Ha già sofferto abbastanza per occuparsi anche dei tuoi casini.»
Tutto ciò che ho detto lo credo davvero: avevo accettato ogni suo tipo di veleno nei miei riguardi per tutti questi mesi, gli avevo consentito di allontanarsi ma adesso sono saturo del suo comportamento adolescenziale. Credo che sia il tempo, per lui, di dimostrarsi davvero uomo, proprio come era un tempo, così da finirla con questi giochetti idioti.
Possono divertire Amelie e Frederick, dando loro qualcosa da fare giorno per giorno, ma io non ne sono felice affatto per cui è davvero il caso che metta importanti chilometri tra me e la mia donna, dal momento che non sono disposto a vederla tornare a soffrire.
Anche Cedric posa i palmi contro il tavolo, sporgendosi verso di me con le mascelle serrate, in un maschilismo che lo ha reso più duro quanto più ostile, una barriera impenetrabile di un corpo che si è fatto più muscoloso al contempo con la forza delle sue pesanti parole.
«D'accordo, Ercole. Messaggio ricevuto. Non rimproverò più Lèa di niente, le starò alla larga. Vediamo se il tuo piano può avere tanto successo come dici.»
Non era quello che gli avevo chiesto, quanto il semplice fatto di trattarla con rispetto ma mi va bene eccome se lo esorta tanto lontano dalla sua guardia. Capendo il mio consenso, si solleva di nuovo dritto con la schiena per potermi fissare dall'alto, con sguardi assorti capaci di rendersi conto del fatto che esiste un motivo, se non ho ancora abbandonato questa stanza.
«C'è dell'altro» affermo, sollevandomi anche io con la schiena per poter tornare ad essere al suo pari e discutere con uguale compostezza. «Ho incontrato Blake ed abbiamo parlato.»
Per un solo attimo è sorpreso del mio scontro non programmato con il figlio del notaio di casa Garcia ma presto passa. Anche Blake è cresciuto con noi, in un agio totalmente differente, però, più simile a quello di Cedric vista l'importanza del padre.
«Capisco... quindi è vero che sei venuto per altro...»
«So degli ettari di terra, dietro casa mia, che tua nonna ha intestato a mio nome in memoria della morte dei miei genitori. Sono nel suo testamento. Voglio entrarne in possesso.»
«Dopodiché?»
«"Dopodiché" che cosa?»
«Che farai?»
«Non ti riguarda.»
«Quegli ettari sono tuoi di diritto. Chiamerò Blake affinché venga il prima possibile, occupandosi lui del testamento di mia nonna. Ora rispondi alla mia domanda.»
Resto a fissare nello sguardo imperturbabile di Cedric e mi chiedo se Lèa possa avere ragione. Se davvero ancora si nasconda qualcosa, nel profondo del suo animo, in grado di poter essere salvato. Forse sonnecchia, silente, in un angolo della sua mente e si desta solo in occasioni simili, nell'incetta di un rischio. Forse teme di perdermi, ma dietro le palpebre ho ancora la visione del volto solcato dalle lacrime di Lèa e troppa rabbia per poter provare ancora rispetto, o compassione, per quella parte minuscola della sua anima.
«Non è più niente che ti riguardi. Sono venuto qui a dirti questo. In caso di dimissioni, vedrò di porgertele per tempo, non preoccupartene e torna pure al tuo mestiere. Fai vedere a tutti quanto sai essere bravo ed importante» sibilo fuori, scuotendo quell'animo che mi provoca ribrezzo e pena, al tempo stesso, pur non potendo resistere nel continuare a parlare.
«Anni fa temevi di diventare come loro. Di diventare un Garcia, un uomo ricco e al di sopra degli altri, cedendo così all'indifferenza nella quale sei cresciuto perché niente potesse farti troppo male. L'hai sempre considerata la tua paura più grande quella sorta di inevitabile perdita dell'anima che ti avrebbe fatto avvicinare tanto alla figura che avevi idealizzato di tua nonna, o dei nemici contro cui tuo nonno, di cui tanto eri innamorato, si batteva con certezza. Questo ti ha spinto ad amare Amy con quella convinzione, perché sapevi che poteva farti del bene. Perché eri certo che fosse in grado di rimetterti sulla giusta via. Ed ora, mh? Che ne dici dell'uomo che sei diventato adesso?»
Nel chiederlo, picchietto le dita contro il tavolo, ragionando su ciò che il mio cuore e la mia testa sono in grado di dire in un giusto equilibrio che possa non far trasparire anche le mie, di ferite. Inevitabilmente, pecco in un errore che gli confessa parte del mio animo e mi accorgo, facendo uscire le parole, che non me ne importa niente.
Sono umano. Vivo. Sbaglio. Pecco ed amo. Non esiste nulla oltre questo, se non brevi pause dentro le quali poter trovare pace con il cuore.
«Anche io ho frasi velenose da poterti vomitare addosso. L'ultima volta sei stato solo tu a pronunciarle ma evito di farlo. Ho deciso che non ne vale la pena. In fondo, dovevo dimostrarmi migliore, no?»
Sorrido nel vedere qualcosa mutare nei suoi occhi, come un' ulteriore frattura nel muro della sua indifferenza. Con appuntiti picconi, tutti noi, stiamo provando a buttarlo giù e sono certo che, presto, si aprirà in uno squarcio profondo.
Mi auguro solo che Cedric continui ad avere qualcuno intorno quando questo avverrà e che al contempo sia pronto, perché io non rimarrò al suo fianco per accertarmene.
«Ricordati solo questo; dell'uomo che sei. Che ne dici, ne sei soddisfatto? O tutta la tua paura ti ha inghiottito? Farsi vincere è un po' da codardi, non pensi? Ed inoltre credo... che nemmeno tua nonna ne sarebbe tanto fiera.»
Altra crepa. Altra fessura. Ma il suo corpo rimane immobile, il che mi fa allontanare, sfinito da questo confronto fraterno ed ostile che ha memoria del nostro passato quanto del futuro.
«Attenderò l'arrivo di Blake e la conferma del testamento. Digli di venire a casa mia, in fondo sa dove si trova.»
Assurdo pensare come il chiamare in causa quel narcisista arrogante che da sempre, entrambi, abbiamo velatamente odiato possa infine mettere a tacere i dissapori ed i problemi che sono sorti tra di noi.
Ci credevo invincibili, uniti ancora più del sangue, ma certe volte non è sufficiente fingere di essere una persona sola. Certe volte è obbligatorio stabilire un distacco per poter tornare a respirare e ricordare le differenze che l'amicizia aveva celato. Esse esistono e ci ostacolo, interponendosi nel nostro cammino quindi non resta che cambiare del tutto strada ed affrontarne una nuova, governata unicamente da un sentiero di pace.
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