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61- Reclute di attimi rubati

Nove mesi dopo

P.O.V.
Francis

Un ricordo serpeggia nella mia memoria dentro quest'ora tarda della mattina, che ancora si assimila alla notte nella cromia di una mescolanza celeste di sfumature contrastanti, ed è un immagine, un particolare indistinto, un oggetto della mia stanza.
Ricordo quell'oggetto, sopra il mio comodino nel South Side, come l'ultima cosa ogni notte che fissavo prima di addormentarmi.

Quando la sveglia suona in comunitaria ed apro del tutto gli occhi, un silenzio astrale preannuncia la discesa dei miei commilitoni dai letti seguito dal vuoto totale che l'incoscienza detta nel perdersi con gli occhi lontano.

Non vi è alcun mobile al mio fianco, nessun oggetto personale che possa ricordarmi casa mia, ormai dispersa nella mente e confusa dentro l'in appartenenza dei sogni, eppure una nuova realtà vi si affianca, assieme ad un complesso di nuovi volti ed abitudini.

«Adesso chi lo sveglia Gerard prima che il capo stanza arrivi da noi?»

«Non guardate me! Io me ne sono occupato ieri.»

Le voci si sovrappongo l'una all'altra e si incastrano nello spazio rimbalzando tra i ferri dei nostri letti a castello dentro queste camerate che condividiamo senza alcuna privacy.
Disteso lungo il materasso, osservo Nasir procedere verso le docce con lo stesso sguardo stanco che sfoggia ogni mattina. Mi domando se sarà pronto per l'ispezione delle sette e mezza del generale. Dopodiché noto Vincent e Russel seguire il nostro amico iraniano in direzione dei bagni comuni, prima di decidere di occuparsi per primi dell'uniforme.

Gareth è ancora a letto, ad occhi chiusi, nel materasso a pochi passi dal mio.

Scorro le mani lungo il volto, alla ricerca della giusta forza per affrontare questa giornata. La trovo, rialzandomi, nel pacchetto di sigarette che affianca il mio cuscino visto l'uso eccessivo che ne sto facendo in questi giorni.

Apro lo zippo dell'accendino e lascio la fiamma abbrustolire la carta mentre osservo parte del mio plotone procedere per i riti mattutini.
Anche in queste cose vi è una gerarchia e solitamente la calma riesce a premiare solo i soldati mentalmente organizzati. Come me, e come Gareth.

Osservo il suo profilo dormiente, soffermandomi su quel naso aquilino che mostra la rottura del suo lineare profilo, riflettendo sui postumi della serata che ci siamo lasciati alle spalle.
Abbiamo imparato a ricavarci i nostri spazi, all'interno del sancito ordine militare delle giornate, limitando le nostre scappatelle a quelle poche ore serali che anticipano il contrappello della notte.

Le nostre risate, mie, di Nasir, di Russel continuano a rimbombarmi nella mente come un eco, capace quasi di creare del fastidio, ma fare amicizia in un posto simile era stato facile anche se lo stesso non si può dire per me e Gareth.
Noi abbiamo imparato ad accettarci solo con il tempo.

Scosto le coperte del letto e mi sollevo in piedi, incastrando la sigaretta in bocca e facendo pressione, con due dita, sul suo braccio, in una spinta che lo esorta a svegliarsi.
Apre gli occhi, mi osserva al suo fianco e poi sospira pesantemente per la giornata che ci attende.

«Avanti, non vorrai fare tardi proprio oggi.»

«Che ore sono?» Chiede la sua voce roca, ancora vittima del sonno.

«Le sei e mezza, Gareth. Come ogni mattina.»

Eppure oggi, nonostante la ripetitività degli eventi, è un giorno importante e lui lo sa. Per questo si solleva, senza pensarci troppo, dal letto e si occupa di dedicarmi solo uno sguardo veloce come a voler confermare anche il mio ritardo.

Eppure abbiamo tempo... quello non manca mai qui.

Vincolo la visione al suo modo lento di incedere per poi tornare con lo sguardo ai miei amici. Gli altri invece, il resto dei coinquilini di questa stanza, sfoggiano la loro perfezione ed il loro anticipo passeggiando per la stanza con la loro divisa perfettamente sfoggiata, dovendosi occupare quindi solo delle postazioni prima dei controlli.

Afferro il mio asciugamano ed il necessario,  ignorandoli, prima di avviarmi anche io verso le docce.
Chiudo gli occhi quando il getto caldo mi precipita in testa come uno sparo di coriandoli a festa, rimanendo sotto il suo getto, assorto, finché Naisir, dall'altra parte del muro che ci divide ad un'altezza che lascia scoperte solo le nostre teste, ridendo non si approccia a me in modo sarcastico che ammetto essere il migliore, tra tutti gli altri amichevoli caratteri.

Abbiamo fatto amicizia per primi, in questo posto. Il secondo giorno di reclutamento, sul campo degli addestramenti, lo ricordo ancora.

«Allora, come stai, soldato Dowson?»

«Meglio di te, scommetto» lo beffeggio, iniziano a strofinarmi il corpo con il sapone mentre resto rinchiuso nel mio box di calore.

«Stai ancora contando i giorni per andartene da qui?»

«Perché, tu no?»

Io e Naisir abbiamo una cosa, fondamentale, in comune: l'amore per la nostra terra, la nostra patria. Lui è iraniano, viene da molto lontano, eppure non ha esitato un attimo ad unirsi al nostro esercito al fine di ottenere una qualifica alla quale tutti noi sembriamo puntare.

«Che cos'è che abbiamo, oggi? Dopo il rituale alla bandiera, intendo.»

Sorrido, alla sua domanda di perfetta impreparazione e dinanzi la risoluzione che la mia mente genera del quesito. «Non riesco a crederci che non ricordi un evento del genere... ci promuovono, iraniano. Finalmente ci daranno un riconoscimento per quello che abbiamo compiuto fin'ora.»

«Ora ho capito perché sei il preferito del sergente McGuire, tutto chiaro» mi prende in giro per la mia diligenza, continuando a strofinarsi la testa con dello shampoo mentre penso al reale motivo per cui io e Attila, mio supervisore, siamo tanto uniti.

Afferro anche io la mia boccetta di sapone iniziando a lavarmi sotto questo getto continuo mentre il resto della nostra compagnia si unisce a noi, riportando espressioni alquanto desolate.

Lancio uno sguardo agli occhi chiusi di Naisir, riflettendo sulla tranquillità che tanto lo aiuta nelle missioni difficili che ci vengono commissionate per poi confrontarla con quella degli altri due migliori amici, fianco a fianco in maniera costante, Russel e Vincent, da che sono entrati qui.
Provengono dalla stessa città, loro due. Sono cresciuti insieme per cui è stata comune anche la scelta di optare per un servizio diligente come quello militare per potersi garantire pasti completi alle giuste ore del giorno assieme alla rassicurazione di uno stipendio retribuito.

In fondo, la vita a cui aspiriamo tutti noi non ha niente di eroico ed eccezionale ma sopravvive per merito della scaltrezza, e grazie al cielo il mio gruppo di missione la possiede più di altri.

«Siamo stati molto felici di beneficare della tua presenza per una sera completa, di solito sfuggi via» mi fa presente Russel con tono ironico, ridendo e scherzando per il mio modo di fare. «Hai visto che possiamo essere divertenti anche noi, soldato Dowson?»

«Chi se lo sarebbe mai aspettato?» Li prendo in giro, ridendo.

«Oh, oh!» Interviene Vicent, sollevando al cielo le mani. «Ma che cosa state facendo, si può sapere? Scherzate con il preferito dal generale? Perdono! Perdono, maestro della strategia!»

Scuoto la testa, ridendo e riflettendo che il merito di quest'ultimo appellativo è condivisibile, a metà, con Naisir. In fondo, in quell'esercitazione passata con successo, era stato lui a disinnescare il finto esplosivo.

«Avanti, smettila di scherzare e muoviti, che sennò facciamo di nuovo tardi» dice a Vincent il suo migliore amico, esortandolo ad uscire dal box al suo seguito. Rimango di nuovo solo, alla presenza del mio coraggioso collega dalla mente glaciale che pare osservarmi con scaltrezza.

Lo osservo di rimando, domandandomi della sua inquisizione, e così porge la sua domanda.

«Sei rimasto perché lui non si è presentato?»

Già... Naisir è scaltro e conosce più particolari degli altri.

Inclino la testa di fianco per poter osservare con la coda dell'occhio l'incedere lento di Gareth al solo fine di anticipare con la mente la sua scelta.
Agli inizi del nostro reclutamento sarebbe rimasto dal lato opposto della stanza ma ora, finalmente, anche la sua reticenza è crollata, mettendo fine a una silenziosa faida.

Senza apparente emozione apre il soffione dell'acqua afferrando la boccetta in plastica lasciata poco prima dagli altri due e, con diffidenza, ci offre la sua riflessione.

«Hanno fatto andare via altre reclute?»

«Perché lo domandi?» Chiedo io, da sempre a caccia del filo logico che dona vita alla nascita dei suoi arguti pensieri.
I capelli lisci, castani, gli cadono davanti agli occhi mentre l'acqua li appiattisce lungo la fronte.

«Perché il letto alla tua destra, Dowson, è vuoto. Non dirmi che non l'hai notato.»

«Chi c'era, prima?» Avanza nel domandare, curioso, Naisir e la mia voce pronuncia la risposta a bocca stretta.

«Donnie.»

Quel bastardo... l'ho sempre odiato. Un omone grande e grosso quanto stupido, ma il perfetto esempio di soldato della nostra nazione. Per questo motivo mi è assurdo pensare ad una ragione per il suo abbandono, e sono certo che la stessa cosa la stia pensando Gareth. Solo l'iraniano, però, esterna i nostri comuni pensieri.

«Ma dai! Hanno mandato via uno così? Non eccelleva nei test ma sicuramente compensava con le prove fisiche. Vedrai c'è un errore, sicuramente.»

«Non lo hai visto ieri, Naisir?» Chiede Gareth nella sua direzione, scrollandosi di dosso il sapone con un getto copioso di acqua prima di chiuderla ed afferrare l'asciugamano riposto al di fuori, stringendolo in vita mentre osserva serio il nostro amico. «Eppure l'ultima esercitazione dovrebbe avertelo insegnato. Niente accade per caso.»

No, niente accade per caso, perché qua dentro è come vivere in una grande città. Figure di potere rivestano ruoli prestabiliti, in grado di dettare legge e cambiare le nostre disposizioni lungo un tavolo da gioco quasi fossimo pedine e loro solo ricchi signori terribilmente annoiati.

La ritirata di Gareth conferma il suo improvviso stato di allerta ma il mio non è da meno.

Sarà una giornata strana. Lo grida ogni particella intrappolata in quest'aria satura di calore e di percezioni, tanto elettrica da dar vita ad una scintilla.

******

Lo stemma della nostra bandiera sventola patriottico quindici metri al di sopra delle nostre teste tese all'indietro, e affiancate alla rigida compostezza del nostro palmo che avvicina i polpastrelli alla tempia sinistra nella forma canonica di rispetto per la durata dell'inno. Ed una volta terminato questo ecco di nuovo il silenzio, l'immobilità, l'attesa.

La rottura dell'ordine è dettata da un unico colpo di tamburo ed è così che l'intero plotone in divisa cambia posizione, assumendo nuove conformazioni dinanzi al nostro nuovo incarico: la premiazione con la prima targhetta su di un nostro pettorale.

Sposto appena lo sguardo verso sinistra per poter osservare le onorificenze che se ne fanno carico, procedendo in coppia, l'uno affianco all'altro. Il nostro comandante di esercito ed il diretto sottoposto, il tenente Samuel McGuire.

Mentore, asfissiante torturatore delle mie giornate, severo capo ma attento osservatore di ogni mia mossa.
Avevo sottovalutato il suo prestigio ma adesso ammetto che Attila possiede meriti maggiori, forse, di quanti ne tenga a valorizzare Carlail e mi ha sorpreso nel dimostrarmi, giorno dopo giorno, la nostra somiglianza.

Senza volerlo, mi sono accorto di essere una sua copia: irascibile, se stuzzicato, maligno, dinanzi azioni non troppo congeniali, ed a sangue freddo, faccia a faccia con le sorprese.
Nessun aspetto positivo, quindi, o quanto meno umano, il che è spaventoso ma incredibilmente utile se incoraggiato dalla sua follia: sono in grado di tenergli testa, e visto il suo alto grado nell'esercito e nel distretto direi che è una cosa della quale posso andare fiero.

Mi trattengo dal sorridere non appena arriva fino a me, sganciando la parte retrostante la targhetta per poter consentire l'adesione al materiale mentre il grande capo, distante alle sue spalle, sembra già essersi stancato della lunghezza del nostro rituale.

Attila, però, no. O meglio, non adesso mentre mi preme con più forza del necessario il mio merito, come un pugnale, dritto contro il mio cuore.

«Non pensi, soldato Dowson, che sia ora di finirla con gli imbrogli?» Mi domanda a bassa voce, attardandosi in una mansione che, all'apparenza di poco fa, già pareva lunga da svolgere.

Oltre alla targhetta ci vengono appuntate in dono anche le prime stelle di ingresso al servizio sul bavero, sinistro e destro, del nostro completo cerimoniale.

Sorrido per la lentezza dei suoi gesti e del suo tono di voce. «Non so di cosa parli.»

«Ieri notte?»

«Ero al pub della città, insieme ad altri quattro soldati. Ci è concesso, prima del contrappello.»

Noto il suo divertimento, mescolato alla rabbia. «E giochi ancora con me a mescolare regole e divieti, non è vero?»

Fortuna che la disposizione delle nostre postazioni consente una distanza tra noi in grado di non rendere udibile questa conversazione, per quanto sia chiaro che il sergente maggiore stia parlando proprio con me in merito ad una questione a suo dire divertente.

«Dovrebbe parlare chiaro, maggiore.»

«Avevi chiesto a Carlail che rimanesse al sicuro. Poco importa quanto tu gli vada incontro, ti sembra che non stia correndo dei rischi?»

Immaginavo, da tempo, una domanda del genere ma molte notti insonni mi hanno già offerto risposte in merito.

«Sono stato al pub della città. Con altri quattro soldati. Prima del contrappello.»

Attila mi fissa negli occhi, terminata la procedura del mio decoro, e per un attimo è quasi come se fosse stato in grado, del tutto, di annullare quella rabbia che covava sotto pelle.

«Finita l'assegnazione, avrete mezz'ora prima dell'inizio degli addestramenti. Ti aspetto al mio commando.»

Si allontana con queste ultime parole, tornando ai suoi doveri mentre i miei occhi riprendono ad inchiodarsi allo stendardo della bandiera, agitato dalla furia di venti ostili.

******

Procedo negli scarponi neri dell'esercito e nella divisa cachi da addestramento lungo il percorso, coperto da una lamiera a tettoia, che mi conduce in direzione del reparto speciale. Dopodiché, giungo fino alla porta dietro la quale sono certo che mi attenda, ruotando a seguito la maniglia con una stretta nella quale sfogo tensione e angoscia per poterne essere privo del tutto una volta tornato dinanzi il suo sguardo.

Attila è appoggiato con i reni contro una delle finestre presenti oltre la sua scrivania. Sguardo fisso, cappello della divisa abbandonato contro il tavolo a dar vita ai suoi capelli nuovamente cresciuti nonostante il taglio drastico di ingresso a questo posto.

Sono sinonimo della libertà che io non possiedo, nonostante sia stato io il solo a scegliere questo regime.

Scorro gli occhi contro di lui, rimanendo con le mani unite dietro la schiena ed i piedi distanziati, come si conviene, mentre alle mie spalle l'ingresso a questo posto rimane chiuso e riservato solo a noi. Liberi di parlare o di urlare... o a quanto pare di tacere, preferendo mosse lente quanto calcolate.

Dalla tasca della divisa Attila afferra qualcosa, e quel qualcosa viene riposto proprio a fianco del suo berretto sul tavolo, dinanzi al mio sguardo che si sforza, riconoscendolo, di non far trasparire niente.

Serro più forte le dita, lasciando affondare le unghie in uno dei palmi per resistere, come mi sono sforzato più volte di fare, al suo modo persistente di farmi la guerra. Forse gode nel vedermi uscire fuori di testa perché quando impazzisco gli somiglio più del dovuto e la sua potrebbe essere benissimo una minaccia, l'eclatante dimostrazione di quanto il controllo che tanto bramo avere possa frammentarsi con un solo piccolo gesto andato storto. Un oggetto, che si è messo di traverso. Un telefono cellulare riposto a fianco ad un berretto verde scuro, dove non mi sarei mai immaginato di ritrovarlo.

«Lo riconosci?» Domanda, con struggente attesa per la mia risposta ed io sollevo la testa, rimanendo a fissarlo intransigente. Attila non rallenta la sua tortura, proseguendo nel raccontare. «Come puoi vedere... ho delle novità.»

«Di cosa si tratta?» Lo affronto con coraggio, decidendo di strappare il cerotto prima ancora che la ferita possa smettere di sanguinare.

«Credo che lo immagini, ma voglio rassicurarti, Francis: riportarlo indietro non è stato affatto facile. Si era presentato all'appuntamento come promesso, era venuto da solo, in moto... ma poi lo abbiamo portato via da lì, facendolo tornare nel South Side. Una volta al sicuro, abbiamo deciso di sceglierci un premio alla vittoria.»

Affondo con più forza le unghie nella carne, certo di non voler parlare mentre il suo sguardo continua a bruciarmi.

«Hai scelto tu questa via, Francis, e lo hai fatto con coerenza perché ti appartiene, la tua bravura ne è una prova. Mi sarei immaginato la tua completa serietà, ma poi... scopro tutto questo.»

«In fondo siamo simili, no? Dalia, Rais... che differenza fa?»

«Ryan, adesso» sibila, facendomi deglutire con dolore l'amaro di una vita in cui sono assente. «Tieni tanto ad imitare i miei errori?»

«Non è un errore.»

«Non siete una coppia normale, non potete organizzarvi per vedervi la notte. Non è sicuro per lui, lo capisci? Costringerlo ad evadere dal controllo dei nostri soldati per raggiungerti in qualsiasi diamine di luogo tu vada. E lo cambi, grazie al cielo hai avuto la scaltrezza di non essere costante, ma capisci cosa stai facendo?»

La gola, ormai, si è del tutto seccata e la voce, dinanzi queste parole così dure che potrebbero essere gridate da dentro i miei incubi, se ne è andata quasi con interezza lasciandomi da solo, vestito di incerta e flebile titubanza, ad avanzare il diverso punto di vista della questione.

«In nove mesi ci siamo incontrati solo sei volte. Sono a conoscenza delle ulteriori uscite di Rais ma le ha fatte a mia insaputa, e senza il mio consenso.»

«Perché quel matto non si rende conto dei rischi che corre e crede di essere tornato alla più completa normalità, ora che i Lee non sembrano più avere il loro zampino premuto sul South Side ma la precauzione di due soli mesi di attenzione, verso tutto quello che succedeva, non è scaltrezza ma avventatezza! Confidavo che almeno tu potessi capirlo, ma visto che non sembri esserne in grado mi hai costretto a questo» commenta, indicando il telefono cellulare lasciato a Rais per rimanere in contatto. Lo stesso che avevo nella casa in cui lo tenevo sott'occhio per poter comunicare con Carlail.

In che modo posso riuscire a parlare con lui, ora? Non ho altri recapiti, e questo Attila lo sa bene.

Analizza la mia reazione, infatti, e nonostante tenti di non mostrargli tutta la mia debolezza il suo tono pare come ingentilirsi poiché, proprio come me, questo soldato integerrimo ha la debolezza nel proprio tallone: non sa rinunciare all'amore, a nessun costo.

«Può essere una cosa momentanea, se arriverà a capire la situazione.»

Nonostante la gola secca e la voce raschiata, distanzio le labbra per poter dar voce alla mia fragilità, senza alcuna prevenzione nel donargliela.

«Come sta? Che cosa sta facendo?»

Ormai non lo vedo da settimane e non lo sento da altrettanto tempo. Ci eravamo ripromessi, al telefono, di chiamarci di meno per poter non destare il loro sospetto ma a quanto pare era stato tutto inutile. Condotti ad essere privati di ulteriori spazi siamo finiti a non avere più occasioni per giungere a un contatto.

«Lavora ancora alla fabbrica tessile della zona. I turni sono stressanti, arriva con la scorta al rifugio molto tardi ma è necessario, lo sai anche tu. Forse è stata la condanna migliore che potesse dargli il giudice per poterlo assolvere del tutto dal processo di spaccio e compartecipazione mafiosa dentro il caso Lee.»

In un flash ricordo la visione delle sue mani rese più ruvide in focalizzate zone di lavoro e tinteggiate da colori di difficile rimozione. Nella notte, in uno dei vicoli che ci vedeva vicini, avevo baciato quei palmi distrutti dal lavoro prima di sentirli lungo il corpo, prima di provare la diametrale contrapposizione con la morbidezza delle sue labbra.

«Ed è felice?»

Attila tace, forse prendendosi il suo tempo per riflettere, senza riuscire a capire quanto il suo momentaneo silenzio mi condanni alla disperazione.

«Lo era, quando siamo andati a prenderlo. Si aspettava che fossi tu, era rimasto appoggiato alla sua moto sorridente finché non ci ha trovati. Ti ama, ma questo non può mettervi a rischio.»

«Non proverò più a contattarlo» mormoro a bassa voce, con una ferita al cuore che si dilata.
In quel precipizio oscuro finisco affogati i ricordi di quelle notti in cui ci siamo ritrovati. Stretti, abbracciati, amati.
Privarsene è più doloroso di morire eppure l'azione appena compiuta dovrebbe consentirci a entrambi di sopravvivere.

"Ti ama". Questa frase fa ancora più male.

«Sono contento di sentirlo ma ho delle ulteriori notizie, e temo non possano essere piacevoli.»

Percependo la gravità nella sua voce tento di cancellare sempre più il ricordo di Rais, per poter concedere al mio supervisore maggiori scaglie della mia attenzione.

«Si tratta di tre novità, a dire il vero. La prima è che me ne vado di qui. Torno in polizia, Francis. Il mio lavoro con te ormai è finito.»

Per la seconda volta, in questa giornata, il mondo si inclina un po' di più nel proprio asse ed il terreno mi viene tolto al di sotto del suolo, lasciandomi a fare i conti con nuove mancanze.

Capisco che anche Attila prova lo stesso perché rimane ad osservarmi, serio e concentrato, alla pari di quando si vede costretto a svolgere compiti affatto in grado di essere soddisfacenti.

«Avevo promesso a Carlail di occuparmi di te, e di impartirti ciò che lui mi aveva insegnato mescolandovi un po' della mia esperienza. In questi mesi l'ho fatto e spero possa esserti stato di aiuto, anche se sono convinto che sia così. Sei un soldato molto bravo, Francis, e non fraintendermi: il cadere nelle emozioni ti rende un uomo migliore.»

«Quale è la seconda cosa?» Mormoro appena, andando incontro a quel treno ad alta velocità che a malapena scorgo, al termine del tunnel.

«Essendo ufficialmente nel corpo dell'esercito, verrete affiancati ad un altro plotone di addestramento che ha raggiunto il vostro livello e che si è addestrato nel presidio più vicino al nostro, quello chilometri a nord che tu e la tua squadra avete intravisto nel corso dell'ultima esercitazione.»

«Dovremo fare squadra?»

«Si mescoleranno tra di voi, in modo tale che riusciate a formare un team. Nelle camerate, negli esercizi, nelle esercitazioni, sempre. In questo modo imparerete ad approcciarvi con persone diverse da voi e ad imparare che il confronto aiuta a migliorarsi, oltre che ad acquisire nuove tecniche per il combattimento.»

«Sembrano discorsi imparati a memoria.»

«Ciò che ti ho detto è esattamente quello che mi ha riferito Carlail, quando mi trovato io al tuo posto e posso rassicurarti che ero molto meno incline di te all'approcciarmi al confronto con feste esterna.»

«Questo deve essermi di conforto?»

«Non ha alcuna presunzione il mio discorso, Francis. Si tratta solo di una costatazione.»

«Avanti, Attila, riferiscimi fino in fondo quello che hai da dire.»

«Prima c'è un'altra cosa: torno nel South Side per un motivo, affiancherò Carlail nella caccia di indizi per incolpare a processo i Lee per cui sarò costretto a smuovere terra e cielo, Francis, per intrappolare chi vi vive in mezzo. Ciò significa che pesterò la coda al cane che dorme ma mi assicurerò che chiunque, che Ryan, resti al sicuro da qualsiasi azione da parte loro.»

Prendo un profondo respiro ma non sciolgo la stretta delle mie mani intrecciata al termine della schiena, conservando la rigidità che questo superiore merita.

«Questo è davvero un cattivo preambolo» constato, lasciandogli libero consenso ad affondare, con decisione, il punto della spinosa questione nelle mie
ossa.

Dal momento che gli altri due temi portati ad esame non si sono rivelati tanto facili da masticare immagino che l'ultimo sia propenso ad uccidere in un lento soffocamento, ed io non mi sono mai rivelato amante dell'agonia.

«C'è un motivo per cui oggi è stata messa in scena quella gratifica di onori e di meriti. Non scordarlo mai, Francis: l'esercito non fa nulla se non per uno scopo» mi dice, e le sue parole assomigliano tanto alla frase pronunciata da Gareth al di sotto della doccia, alla veggenza di un simile momento.

Samuel inspira lieve, per poter prestare il resto dell'attenzione su di me nella conferma della mia effettiva preparazione.

Sono pronto. Che spari pure.

«Da ieri notte è entrata in vigore una nuova legge, riguardante anche voi reclute. L'addestramento militare si prologa di un altro anno per le cariche ufficiali generali delle forze armate. Queste anche in merito alle qualifiche di polizia.»

Le braccia sciolgono il loro intreccio. Le mani arrivano a battere contro l'estremità delle mie gambe mentre la schiena si incurva in avanti, schiacciata dal peso di questa nuova conoscenza.

Attila mi fissa dritto negli occhi, certo delle parole che sta per dire.

«Te lo prometto, Francis. Mi assicurerò che non gli capiti niente, con me sarà al sicuro.»

Due anni nell'esercito... una prologa che non mi sarei aspettato e che sbrana via, con un solo morso, orribile mostro, altro tempo di ciò che desidero vivere.

«La tua famiglia e i tuoi amici ne sono già al corrente. Per il diploma non cambierà niente. Resta solo Ryan da informare.»

Gli occhi scivolano al telefono e come una preghiera, una disperata richiesta, si affaccia al bordo dei miei occhi. Non sono certo di lei, né della sua correttezza, per cui mi appello al mio supervisore affinché possa decidere la cosa migliore anche se temo già di concepirla e la detesto.

«No, Francis. Potrei concedertelo ma complicherebbe tutto. Proverà a raggiungerti, si ribellerà ed ora non possiamo permettere che questo accada. Ci occuperemo noi di riferirglielo una volta scaduto il tempo, al momento opportuno.»

Già... la scelta più giusta è sempre la peggiore in termini di affetto ma come combatterla? So quanto le parole di Attila siano giuste per cui non posso sconfiggerle.
Sono un soldato, e vengo costretto ad arrendermi.

«Tornerò da te al termine del mandato, te lo prometto.»

La campana di addestramento suona pochi istanti dopo il termine delle sue parole, rilegandoci ad un silenzio scandito solo da quel rintocco.

Dieci battiti, a scandire questi brevi attimi che ci sono rimasti, condannando l'uomo che ho di fronte ad un ultimo ordine che la sua bocca non vorrebbe pronunciare.

«Sei congedato, soldato Dowson. Torna dai tuoi compagni.» Non mi muovo di un solo passo, non volendo lasciare tra noi aleggiare alla fine di tutti questi mesi il rimprovero di un imposizione ed Attila lo capisce, il suo corpo cambia posa e mi mostra, anche lui, il riflesso di una stanchezza che rasenta la mia per la situazione assurda in cui ci troviamo e dalla quale non siamo certi di tornare vincenti. «Vai, Francis. Vai.»

Ed è con queste ultime parole che abbandono la stanza, recandomi al luogo designato dagli istruttori e trovandomi di fronte la formazione di uno schieramento che sta prendendo corpo nell'ordine di dritte linee. Uno strano brusio, però, fa da colonna sonora a questa scena ed è particolare la consapevolezza della sua presenza ma non mi soffermo a pensarci.

Non ragiono più su niente che appartenga a questo posto, mentre rimango in piedi, schierato, percependo a malapena la presenza del resto della compagnia pochi metri più lontano.

Vedo solo un paio di lucidi scarponi neri immobili dinanzi ai miei occhi, immacolati nonostante la polvere del campo di addestramento, e scorrendo gli occhi il colore di una divisa più scura della mia, un vuoto generatomisi intorno.

«Tu devi essere Francis. Sono la recluta che occuperà il posto a fianco al tuo, in dormitorio.»

Una mano tesa, una pelle più abbronzata della mia.

Sollevo la testa indietro e mi scontro con un paio di occhi celeste chiaro ed un sorriso dispiegato, più bianco della sclera che affianca quel celeste di cielo.

Al di sotto del berretto della divisa noto dei capelli chiari, tagliati quasi a zero come i miei.

«Felice di fare la tua conoscenza.»

Continua a parlare l'uomo di fronte a me, al pari della mia altezza e con ancora quello strano tono di cordialità che non riesco a giustificare.

«Io mi chiamo William. William Davies.»

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