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57- Nessun prezzo alla libertà

"La lotta per l'esistenza
e l'odio sono le uniche cose
che leghino gli uomini."

Lev Tolstoj

P.O.V.
Hasim

Mi chiamo Hasim Usman.
Mia sorella è Halima Usman.
Mio madre, Latifa Usman.
Mio padre, Tabansi Usman.
E un tempo tutto questo valeva qualcosa.

Il nostro nome era rispettato nel nostro klan perché l'intransigenza, l'assoluta mancanza di empatici favoritismi, ci aveva permesso di poter guadagnare il rispetto di persone che ci ritenevano i soli in grado di mettere fine a pesanti diatribe.
Eravamo i giudici, gli osservatori e al contempo anche i più giusti proclamatori di una sentenza.

Vantavamo la fiducia che ci veniva risposta, esaltandoci per i meriti che ci venivano attribuiti.
Dove siamo finiti?

Mio frattello, Gyasi Usman, è morto di overdose. Mia sorella è scappata di casa solo per sfuggire ai suoi doveri ed io... io sto attardando lo sguardo su una donna che nemmeno dovrei permettermi di osservare.

Ne noto la gestualità assieme al virtuosismo con cui compie delle azioni quotidiane, senza notarlo nemmeno. Il suo mettersi sempre a disposizione, schierandosi in prima fila nella richiesta di un aiuto la rendono la tipica crocerossina che, solo delle settimane fa, avrei beffeggiato per la bontà ma ora, dopo quello che ho fatto, dopo quello che sto vivendo... non riesco più a farlo.

I piccoli passi di marcia di quel demone dai pochi centimetri mi spingono ad abbassare la testa verso terra, al solo scopo di evitargli di intendere la direzione dei miei pensieri per evitare noie.
La nana, però, mi è tornata dinanzi e mi fissa ancora con odio. Stavolta le mani sono pulite ma gli abiti ancora più accesi. 

Con le braccia incrociate al petto si pone come scudo tra me e la donna che stavo osservando, in quel tentativo patetico di condannare la mia colpa.

«Che cosa vuoi, oggi, piccolo mostro?»

«Zio Ercole non c'è.»

«E di questo ce ne siamo accorti tutti» affermo in un mezzo sorriso, potendo respirare aria pulita solo in sua assenza.
Dello sguardo della nana non mi importa niente ma se solo oso fissare Lèa in presenza di Ercole...

«Quindi sono io a tenerti sotto controllo» afferma. Preso dall'esasperazione poso le mani sulle ginocchia, rimanendo seduto sopra il mio scomodo letto.

«Allora, cosa è che vuoi? Caramelle? Dolcetti?»

«Non mi piacciono.»

«Allora dimmi cosa potrebbe piacerti.»

«Perché?»

«Perché così io e te facciamo un patto. Io ti regalo ciò che vuoi e tu sparisci dalla mia vista.»

«Così puoi rimanere solo con Lèa?»

Ohhh! Ci ha preso in pieno. «Si, ragazzina, così posso rimanere solo con lei.»

«Non fa per te.»

«Questo te lo hanno insegnato all'asilo?»

«Sei troppo cattivo per una come lei.»

«Ancora con questa storia?» Le domando, per quanto non abbia sbagliato nell'avanzare le proprie supposizioni. «Io non sono cattivo.»

«Come potrei crederlo?»

Perché quello che sono è "esasperato".
Getto la testa all'indietro, ragionando sull'azione da compiere e trovando un'unica via.
Afferro il portafoglio, porgendole così di fronte lo sguardo la prova che le occorre, se così può essere definita, e permettendole di analizzarla.

Le sue minuscole mani impiastricciate, noto con orrore, non di colori acrilici ma come di una crema per ammorbidirle, partecipe l'odore di cocco, afferrano il contenuto di ciò che le propongo, per poi consentirle di sollevare un sopracciglio.

«Sono tuoi?»

Uhm, alle volte me lo domando. «Sì.»

«Tutti?»

«Tutti.»

Chiude il portafoglio, porgendomelo e decidendo della mia sorte. «Ti tengo d'occhio» commenta solo, prima di allontanarsi dalla stanza a passo lento.

Lèa, in cucina, ha assistito alla scena.

Con sforzo mi sollevo in piedi per poterle andare incontro dal momento che in questa casa siamo soli ed è lei, per la prima volta, ad aver bisogno di un aiuto del quale, sono certo, mai chiederebbe.

Sto imparando a conoscerla, nonostante le poche giornate trascorse insieme ma a stretto contatto, nello scorrere di tutte queste ore.
Prima non mi ero mai sentito vicino a nessuna così. Forse solo a Halima, quando era una bambina ed io dovevo occuparmi di lei, ma di certo non si ricorda.

«Che cosa le hai mostrato, per convincerla?» Riporta la mia attenzione a lei la donna che è rimasta oggetto dei miei pensieri per tutta la mattina, mentre mi rivolge la schiena nel compiere l'azione data dal riporre vecchi piatti da servito su degli scaffali appesi.

«Le foto dei miei figli» confesso.

La sua testa si volta e gli occhi mi osservano sorpresi. «Sei padre?»

«Ho due bambini e una bambina» proprio come li ha avuti mio padre con mia madre, i miei fratelli. «Ma non amo la loro madre, sono stato costretto» mi trovo a chiarire, e queste parole crude la spingo nuovamente a voltarsi.

In queste ultime ore ho come notato il suo desiderio di parlarmi, e l'incapacità totale nel farlo.
Adesso mi sento meglio, non ho quasi per niente bisogno del suo aiuto e Lèa ne è consapevole. Mi lascia gli spazi di cui tanto chiedevo, proprio adesso che vorrei estinguerli.

«Nella mia cultura è così che funziona. Ti sposi a quindici, diciotto anni massimo e metti su famiglia. Mia sorella avrebbe dovuto fare lo stesso, ma è scappata di casa prima che potesse avere luogo la notte di fidanzamento.»

«Non voleva sposarsi.»

«Lo ritiene anche lei, ma abbiamo dei doveri, tutti noi, in rispetto alla nostra famiglia.»

«Come membro di quella famiglia avresti dovuto essere dalla sua parte.»

Lèa non conosce la nostra storia ma in un attimo, con una sola frase, ha capito contro quale debolezza scontrarsi.

Nemmeno riesco a replicare niente e rimango in silenzio, vendendola allontanarsi, orripilata dai miei sbagli.
Dobbiamo sembrarle persone mostruose, ma non l'avevo mai vista sotto questa ottica.
Persino io non ho mai amato mia moglie ma l'ho sposata, solo per dovere, concedendomi il lusso di qualsiasi altra avventura.

Forse a Halima non sarebbe stata concessa, ma in fondo è anche troppo piccola per capire cosa ama davvero.

Sto per pronunciare una frase in mia difesa quando noto Lèa sbilanciarsi in avanti, per un passo posato per sbaglio, e mi accorgo che sta per cadere.

La afferro prima che succeda, arrestandola con una mano che va a posarsi sul suo ventre, trattenendola.

Resta immobile al nostro contatto ed io la imito, rivendendo nella mente l'immagine della sua caduta all'interno del fienile, fino a sbattere a terra la testa, mentre il resto del mondo bruciava tra le fiamme.

Questa volta sono riuscito a impedire che si facesse male, eppure nonostante questo, per mia sorpresa non ricevo alcun ringraziamento dal suo buon cuore che tanto è solito dispensare amore.

Lèa, dopo quei piccoli secondi che ci avevano visti immobili, si risolleva semplicemente in piedi, aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio e poi, senza minimamente voltarsi, si allontana con passo deciso.
Lasciandomi convivere con la tristezza data dall'indifferenza.

******

Credo di aver visto quella donna, lo scorso giorno. Vestiva di un abito particolarmente elegante e scuro, come erano soliti essere i suoi abiti.
Non ho potuto notare con chi parlasse tanto vivacemente ma quando si era allontanata ho avuto l'impressione che mi stesse fissando.
Questo potrebbe dire solo una cosa: Dalia Ester e William Lee mi hanno trovato, e presto verranno a prendermi.

Dovrei allontanarmi da questa casa, in modo tale che la piccola nana, e soprattutto che Lèa, non si facciano male. E so bene quali altri compiti mi restino da svolgere ma, all'improvviso, è come se non ne avessi la forza.

Sento i piccoli passi della bambina camminare al piano di sotto mentre io e Lèa ci troviamo a pochi metri di distanza, lungo il corridoio destinato alle camere del primo piano.
Non dice niente da un pezzo. Ogni tanto mi guarda, solamente, spingendomi a chiedere se il mio carattere sia stato tanto ostile da limitare il suo buon cuore.

«Vuoi che ti aiuti?» Le domando, stupidamente visto che è occupata a piegare le nuove lenzuola.
Cosa potrei mai fare, con una mano sola?
Ancora non mi sono abituato, e per un attimo il mio nero umorismo mi esorterebbe a ridere di questa strana situazione.
Lèa non ne sembra partecipe.

«Ce la faccio.»

«Hai cambiato modo di approcciarti a me, da quando ti ho parlato di mia sorella» le faccio notare, spiando i suoi movimenti come lo sforzo che compie nel non guardarmi.

«Credo che sia sbagliato, ciò che hai fatto.»

«E allora?» Le domando, non riuscendo nonostante il cinismo ad esortarla verso una reazione. «Da quando ti importa? Nemmeno ci conosci.»

Finalmente, la sua risposta: Lèa si vota, mostrandomi la sua ferita a solcarle, in modo così scolpito, la pelle come un sentiero più scuro lasciato impresso da un torrente di lava, ricordandomi un'altra dose dei miei sbagli.

«Lo faccio perché so cosa voglia dire essere donna. Per giunta, una donna oppressa, comandata da uomini come voi. Con che diritto ti è permesso occuparti della sua vita? Non ti riguarda.»

«Ti arrabbi con poco.»

«Non è poco.»

«Ma è strano. Perché non manifesti tutta questa rabbia anche al tuo amico, il ragazzo con i dread? Ercole, mi pare si chiami, giusto? Perché ti riesce così facile arrabbiarti con me?»

«Con Ercole non ho motivi per essere arrabbiata.»

«E con me sì?» Le chiedo, impassibile, nonostante conosca i motivi per cui dovrebbe esserlo. Mi avvicino. «Mi hai accolto in questa casa solo per riuscire ad urlare contro qualcuno? D'accordo... credo che ti stia facendo bene. Sei più credibile, in fondo.»

«Non sai cosa dici.»

«Forse no, ma penso di non sbagliare. Perché mi hai raccolto da terra, Lèa? Perché mostri la tua ferita solo a me? Pensi non l'abbia notato?»

Mi avvicino ancora di più a lei, senza staccare lo sguardo dai suoi rancorosi occhi.
Sì, adesso ci siamo. Questa ragazza piena di grinta è in grado di tenermi testa, nonostante io sia consapevole, più che mai, che quel lato fragile che tenta di abolire al mio cospetto è parte stessa del suo carattere, tanto da renderla una perla rara.
Non ha bisogno di lui per guarire, però.
Ha bisogno di questo. E ne è consapevole.

Sollevo il moncherino del mio braccio, mostrandole anche la mia, di ferita.

«Si tratta di questo? È perché sai che anche io sto soffrendo?»

Essere privati di un arto, in fondo, può paragonarsi al dolore di un animo che è costretto a lottare.
Sono pronto ad aiutarla a farlo, perché sono stato io il suo danno. Io... l'uomo che l'ha ridotta così.

A far fronte con una bellezza che crede di aver perso, sfoggiando un nuovo volto che mette in mostra, nonostante ogni suo pallido tentativo di diatriba, la sua fragilità tanto covata nell'animo.

Avanti, Lèa, coraggio, la incentivo mentre la vedo avvicinarsi sempre di più a me.

«Ti ho trovato nel giardino, ho visto il tuo braccio» mi racconta, prendendo fiato nel dirmi la verità. «Eri disteso in una pozza di sangue, cos'altro avrei dovuto fare? Mi sono preoccupata per te, è quello che succede a chi è umano.»

«E avremmo potuto continuare ad andare d'amore e d'accordo se non ti avessi nominato il destino di mia sorella.»

«Non andavamo d'amore e d'accordo, tu nemmeno mi parlavi! Ma quello che è certo, ci sarà chi di testimone, quello che ho fatto è stato provare a capirti.»

«E tutto ora è andato in fumo avendo compreso che sono una persona cattiva, eh?»

«In fumo, mh?» Commenta con divertimento, e per un attimo mi perdo all'idea che possa averne scorto l'ironia.
L'immagine di lei distesa nel fienile mi assale per la seconda volta in questa giornata, come un tormento eterno. «Già, è andata proprio così.»

«Allora perché non mi butti fuori, Lèa? Perché non mi dici la verità?»

Io non riesco a staccarle gli occhi di dosso. È così. Ormai non sono più in grado di farlo, ma sembra come esserci un motivo recondito per questa costretta carità che mi viene offerta e immagino di averlo scoperto.

Lèa, però, ancora non lo accetta.
Si volta e fa per prendere un nuovo lenzuolo ma glielo strappo di mano e riprendo a retrocedere.

«Dammelo» sibila.

Se solo mi conoscesse saprebbe quanto le minacce eccitino la mia grinta.
Retrocedo con più certezza.

«No.»

«Dovrei solo urlare un po' più forte per farmi sentire da Valerie, che correrebbe da Ercole.»

«Oh! Quindi ti faresti salvare da lui? E da quando agisci così? Ho sentito i discorsi di sua nonna, mentre si occupava di cucinare. Tesseva le tue lodi, descrivendo a suo marito tutto quello che non sapevo di te... ha parlato di un carattere forte, ostinato nel combattere il maschilismo del suo mondo lavorativo, esigente al massimo e severo, ma a quanto pare non con se stesso. Ti stai arrendendo?»

«Dammi subito quel lenzuolo.»

«Vienilo a prendere.»

Retrocedo ancora, entrando in una stanza quasi del tutto spoglia che, con questi pochi arredi presenti e una sola finestra, pare essere una sorta di ripostiglio alquanto curato da scatole piene di oggetti catalogati, di cui non sporge la minima natura.

«Pensi sul serio di conoscermi? Solo con quello che ha detto nonna Iris di me? Tu non sai niente.»

«Nemmeno tu sai niente di me» le faccio notare «eppure ti permetti di giudicarmi, di dire come dovrei agire perché mi vedi come uno dei tuoi nemici. Uno di quegli uomini contro cui hai fatto la guerra da sempre, mi sbaglio?»

Tende di colpo il braccio, per poter afferrare la bianca stoffa che lascio pendere al mio fianco come una bandiera, e captando il gesto sollevo il mio di colpo, in modo da farla fallire.
I suoi occhi brillano più delle fiamme con cui l'ho ferita, e sono loro ad ardermi vivo.

«Avanti, Lèa... forza...»

Il gioco non la diverte più, prova a darmi le spalle.
Spinto dall'intraprendenza ed avendo capito cosa riesca tanto a farla inferocire le afferro un fianco e stringo, godendomi per un'istante la morbidezza della sua pelle al di sotto ed il calore che ne genera, per poi vederla voltarsi di colpo e colpirmi con uno schiaffo ben assestato.

La testa si volta ma la mia bocca sorride, mentre il suo sguardo rivela una furia che le bagna persino di lucido fervore l'iride.

«Credi di aver capito tutto di me, non è vero? E cosa è questo tuo tentativo patetico, vuoi farmi arrabbiare? Perché? Questo smacchierebbe la tua colpa?
Mi dispiace, Hasim, ma hai troppi crimini da dover espiare. Per primo ciò che stai facendo a tua sorella. Come puoi giustificarlo solo come un "dovere"? Hai idea dell'epoca in cui viviamo? I secoli sono passati e le donne non sono costrette a fare un bel niente!»

«Quindi sai alzare la voce.»

«La so alzare! So anche gridare

Sorrido, divertito di trovarmi, per la prima volta in tutta la mia vita, dinanzi ad un animo tanto combattivo quanto affascinante.
Esiste essere un motivo per cui gli occhi non riescono a staccarsi da qualcuno, che sia desiderio o semplice curiosità, ma stavolta temo che si tratti di attrazione e che non possa essere corrisposta.

Lèa non prova niente per me tranne che tutto questo odio ma va bene... va bene, se può riuscire ad aiutarla.

«E non ho bisogno di nessuno, tantomeno di un mezzo uomo come te. Vuoi sapere perché sei il solo a cui mostro la mia ferita? D'accordo, Hasim, ma guardala bene... voglio che tu la guardi!»

L'ultimo imperativo viene urlato dalla sua voce, facendomi rendere conto che Lèa si è toltamente dimenticata della bambina dentro casa e di qualsiasi altra cosa.

Ha le lacrime agli occhi e mi sta fissando, così come mi ha chiesto di fare.

«Guardami... guardami, perché è questo il risultato di ciò che mi hai fatto!»

Abbasso il braccio mentre stringo ancora il lenzuolo, lentamente, mentre le sue lacrime iniziano a scendere ed un dolore al petto rende assurda l'improvvisa nube di pensieri che mi raggiunge, pronta a soffocarmi.
Lèa sorride con sguardo triste.

«Credevi che non lo sapessi, vero? Ma ti ho visto, proprio dopo essere caduta in quel fienile. Eri alla finestra, avevi appiccato tu il fuoco... e avresti potuto aiutarmi ma sei scappato via.
Per questo non puoi dire una sola parola su Ercole, perché è lui il vero uomo, mi senti? È stato lui a tirarmi fuori da lì!»

Nel parlare continua a piangere, ed una sua mano, adesso, punta un dito tremante nel vuoto, ad indicare la posizione di quel nostro ultimo ricordo, quel luogo che nostro malgrado abbiamo condiviso.

«E credeva che fossi morta, ma avevo solo perso conoscenza. Dopo aver visto che scappavi via ho perso completamente i sensi. Vedevo le fiamme innalzarsi, sentivo il fumo dentro i polmoni... ero certa di morire ma lui mi ha tirato fuori da lì.»

Ormai ho la mano serrata contro quel lenzuolo bianco che sembra essersi ricoperto della fuliggine di quel fuoco, mentre le mascelle sono strette e la voce viene totalmente a mancare.
Questo accade, quando una persona si trova dinanzi a qualcosa di troppo più forte di lei, capace di raderti al suolo.

«Ho provato a mostrarti misericordia. Ho provato ad esserti gentile, a porgerti il mio supporto. Ti ho aiutato, persino, ma ogni ora del giorno, nella mia mente, ti urlavo contro. La mia anima urlava affinché ti potessi porre di fronte allo sguardo, costantemente, la mia ferita, la vita che hai rovinato! Ed ho visto il modo in cui mi fissavi» ride, di me, degli sguardi che credevo non fossero stati notati. «Sì, l'ho visto e non me ne importa niente. Grazie ad Ercole ho imparato a combattere, per cui guarda la tua colpa, Hasim. Si trova proprio qui, di fronte a te. Guardami.»

Solleva la manica di quel braccio che ha provato a nascondermi, durante la mia permanenza qui. Perché mi aveva mostrato il suo viso ma non la deturpazione del resto del suo corpo... non ne aveva avuto la forza, ma ora mi viene posto di fronte l'orrore provocato dallo squarcio generato da quelle fiamme. Le orme dei miei artigli di bestia affondati nella sua carne.
Il male che le ho inflitto.

E spalanca le braccia. Si mostra arresa di fronte al suo carnefice, rendendosi totalmente invincibile nelle sue lacrime.

«Sono una donna distrutta per colpa tua. Credevo di essere più forte, di riuscire a vendicarmi su di te ma non ci riesco. Non sarò mai coraggiosa quanto Ercole né avrò mai metà della forza che tanto svaluti in lui. Ma eccomi qui, questa sono io. Mi vedi, adesso? Sono solo il tuo risultato.
Vuoi che anche a tua sorella capiti lo stesso che è successo a me? Perché se la darai in sposa ad un uomo che non si è scelta, contro cui ha una ragione di dover lottare, è questo che accadrà. Si ribellerà e finirà male!
L'oppressione non genera nient'altro che dolore.»

Il lenzuolo scivola via dalla forza della mia mano, cade a terra, si sporca.
La mia mano si tende verso il suo corpo ma stavolta è lei ad arretrare.
Mi fissa, da dentro il suo incubo.

«Avrei voluto risvegliare la tua coscienza, punirti per ciò che mi hai fatto, ma non ne ho la forza...»

Quello che so è che perso dentro il mio silenzio non so nemmeno cosa sto provando al momento. Sento il cuore troppo esposto, troppo vicino al suo, da volersi concedere la tenerezza di un contatto ma lei lo tramortisce, uccidendolo del tutto quando al dolore si sostituisce la rabbia.

«Vattene da questa casa» sussurra, con il mento piegato verso il basso e lo sguardo vittima delle sue ferite. «Vattene di qui» non la ascolto, provo ad andarle incontro. «VATTENE

La mia mano, con lentezza, da tesa si chiude in un pugno e si abbassa di nuovo, contro il mio fianco.
Non sono altro che una bestia, e mi è stato dato un ordine. Un comando... che non posso permettermi di trasgredire.

Esco come una furia dalla stanza, fomentato da una tachicardia che mi genera uno strano scompenso e mi incendia, mettendo in luce ciò che c'è di sbagliato in me.

Le parole di Lèa mi rimbombano dentro. Il suo sguardo rimane cucito dietro le palpebre e non è importante niente, oltre che il furore che l'ha spinta ad andarmi contro e che ora, non essendo stato ricambiato, vede il mio agitarsi sotto la mia pelle ma so come sfogarlo.

Cammino per i campi a passo deciso, sentendo il dolore al braccio farsi più forte, ed evito qualsiasi deviazione sulla mia strada, spinto solo ad una meta.

Se è vero che sbaglio tanto, se è vero che sono un mostro allora è il caso che dimostri, a chiunque, di essermi dimenticato la pazienza e la compassione.
Il caso che ogni cosa torni sulle proprie righe e noi con essa, perché sono stanco, ormai, di tutta questa storia.

La sua figura spicca sul contorno verde scuro dato dall'erba alta e dai campi sui quali svettano nuove coltivazioni.
Riesco a notare solo la sua sorpresa mentre le marcio come una furia contro, quasi dimenticandosi di quello che ha fatto e del punto estremo al quale ci ha spinti. Tanto crudele da portarci fino a qui.

«Hasim, fratello, cosa hai fatto al braccio, stai bene?»

Afferro Halima con forza, cercando di tirarla via. «Forza, andiamocene.»

Non abbiamo più motivi per restare ed è il caso che anche lei lo capisca.

«Che cosa? Perché?»

«Torniamo a casa.»

Stavolta è la paura a farle sgranare gli occhi ed a renderle più pesante il corpo, mentre tento di tirarla via.

«No, non voglio...» sussurra e la risposta mi fa sogghignare.

«Non mi importa cosa vuoi.»

«Hasim...»

«Che cosa sta succedendo qui?» Domanda un uomo molto alto, e molto nero, che si è avvicinato di corsa non appena ho reclamato quello che mi spetta.

«Non intrometterti, sono affari di famiglia» rispondo, indifferente a tutti i suoi muscoli.
Tenta di scattare per attaccarmi al collo ma è la voce di Halima a impedirlo.

«Issa, no!»

Non dovrebbe stupirsi tanto. Si tratta di mia sorella. Non vuole che mi accada niente.

«Ti sei divertita fin troppo» sussurro a denti stretti, continuando a tirarla via mentre il resto dei lavoratori si è arrestato nei proprio compiti solo per rimanere a fissarci.
Mi auguro solo che non sia stata tanto folle, che quel gigante che ci stiamo lasciando alle spalle non le abbia messo un solo dito addosso. So che il suo futuro sposo non gradirebbe, avendo richiesto chiaramente della sua verginità.

«Hasim, ti prego» tenta di parlarmi non appena ci allontaniamo a sufficienza da orecchie troppo vicine ma non ancora abbastanza distanti. «Io non voglio tornare.»

«Dovrai sposarti, sorellina. Questo è il volere di nostro padre e ringrazia che sia stato io a trovarti. Cosa penserebbe di te, eh? Chi è quell'uomo? Te lo dico io cosa farebbe: prenderebbe ago e filo, e si assicurerebbe che prima del matrimonio tu rimanga vergine!»

Troppo crudeli le mie parole, tanto da spingerla a protestare.
Lotto con lei, su questo terreno che è palude, dinanzi a sguardi che non possono intromettersi dentro legami di sangue.

Con le unghie riesco ad affondare la presa sulla pelle dello stesso tono della mia, ma la nostra razza non ha colore nel rivivere il ricordo del braccio di Lèa, pieno di sfregi per ciò che le ho fatto.

Il pensiero mi porta in svantaggio e permette a mia sorella di liberarsi, stazionandomi davanti a una distanza di sicurezza.
La rottura del fiato le causa un alzamento e abbassamento veloce del torace, mentre il respiro le scivola via da quelle labbra troppo carnose per invocare innocenza.
Ormai è una donna ed io non ho mai voluto vederlo.

«Non verrò via con te, fratello.»

«Tuo padre ti ha promessa in sposa. Hai dei doveri. Delle responsabilità.»

«La mia libertà non ha prezzo!»

Il vento le urla contro più forte di come stia facendo lei contro me e le sposta i ricci, neri, capelli attorno il viso.
Per un attimo, dentro quell'illusione, il confine dei suoi tratti fisici muta, le labbra cambiano forma al di sotto di quegli steli neri che si agitano e si dibattono come onde di mare erette dalla schiuma, fino a rivelarmi il volto di mio fratello.

Gyasi è di fronte a me, e mi fissa pieno di lacrime, a confine tra l'amore e l'odio.

Gyasi... fratello mio.

"Tu non mi comandi" mi dice il suo ricordo, mentre le pupille si mescolano alle sue scure iridi e mi intrappolano dentro i suoi occhi, come un vortice. "Tu... non mi comandi".

«Mi hai capito, Hasim? Non ha prezzo.»

Il vento si arresta ed anche i capelli cadono lungo le guance lasciando libera mia sorella di tornare.
Ma Gyasi è ancora qui, è in lei.

«Non puoi continuare ad intrappolarmi, lo capisci?» Mi chiede mia sorella, quasi ridendo ed il modo con cui la risata viene bagnata di lacrime invita il mio cuore a rompersi del tutto dopo quel duro colpo dentro casa di Lèa. «Ho ancora una vita da vivere, dei sogni. Ho un sacco di sogni, Hasim, tu non te lo immagini! Desidererei... visitare qualche isola, passeggiare all'interno di un faro, vedere il tramonto con una persona accanto dopo aver trascorso un intero tragitto in macchina per cercare il giusto precipizio per quel sole. Voglio vivere, fratello, lo desidero così tanto, e imparare, e viaggiare, e respirare aria pulita che non sia di questo posto!»

La sua attenzione si sposta verso quell'uomo alto che poco prima si era interposto tra noi e che, a quanto pare, non ci aveva permesso del tutto di fuggire.

«Voglio imparare a suonare uno strumento musicale e scoprire di esserne capace. Sì, sarebbe una bella sorpresa! Immaginare di essere brava in qualcosa... Ma se non lo sono non importa, voglio che mi sia dato il tempo per esserlo. E voglio amare chi mi pare, senza condizioni, senza imposizioni. Baciare un uomo ogni volta che lo desidero, così da scoprire che amare, anche una come me, non è tanto impossibile...»

Stavolta i suoi occhi si spostano su di me, tornando alle colpe della realtà e alla sofferenza data dal presente.

«Un tempo credevo che anche tu mi amassi, ma poi sei cambiato. Sei diventato simile a nostro padre, Hasim, e mi hai fatto del male.»

"Quando sei diventato così cattivo, fratello? Quando hai iniziato ad odiarmi?" mi urla contro Gyasi dentro i miei ricordi, mentre abitiamo ancora nella nostra vecchia casa.
Tesa china e vestiti stracciati. Delle lacrime, adesso, che gli scorrono sulle guance facendo specchio alle mie.

Anche Halima piange, spingendo la mia anima a domandarmi se anche la sua stia vivendo il ricordo di nostro fratello morto.
Qualcosa di difficile da sopportare, che ho provato a seppellire. Via, dentro di me! Nascosta nel punto più proibito del corpo e della mente, perché celare è da sempre il solo modo che ho per sopravvivere. Perché... una volta tolto quel tappo dal mio barattolo di profondi segreti... so di poter cadere del tutto a pezzi, senza riuscire a ricompormi.

«Ho tanti sogni, fratello, ma uno li batte tutti. Ricordi... la nostra vecchia casa? Vicino a lei c'era un campetto fatto di sabbia, su cui camminavano pure i buoi, lo ricordi?
Quando ero piccola ci giocavamo insieme, nonostante tu fossi più grande e non riuscissi a divertirti, o almeno non sembravi farlo. Perché il tuo compito era un altro. Tu... mi proteggevi. Facevi di tutto perché non venissi ferita dai carri che passavano, o dalla gente, o da chiunque altro.
Vorrei riavere indietro quei momenti. Questo è il mio sogno più grande.»

La visione di quel campo pieno di sabbia mi torna alla mente, assieme agli odori, ai suoni della nostra vecchia e rumorosa città piena di sguardi, di persone, di vecchie abitudini.
Su di esso mia sorella che correva, felice e spensierata, come se il mondo non potesse farle alcun male mentre io vedevo pericoli ad ogni angolo, ad ogni incrocio di strada.
Tendevo la mano, la stessa che ho perso, nel tentativo di controllarla.

«Torniamo a casa, Halima» dice piano la mia voce, e dinanzi l'intransigenza le sue spalle si abbassano verso terra, il suo volto si distende nell'inchiostro sbiadito di un dolore descritto. «Parlerò con nostro padre. Lo convincerò a non darti in sposa. Non farai più niente che tu non voglia.»

È solo questione di un attimo.
La mia piccola sorellina si volta, mentre le tendo la mano lungo quel campetto pieno di sabbia e si accorge di me, si accorge del mio bisogno di volerla proteggere. La afferra, ed insieme andiamo via.

Con pochi passi Halima mi raggiunge, finendo tra le mie braccia e dentro quella stretta il mio barattolo di segreti si rompe.
Si scontra a terra, frantumandosi in milioni di schegge che divengono solo polvere che il vento trascina via.

«Grazie» sussurra la sua voce contro il mio collo, rivelando il sorriso assunto dalle sue labbra che ancora non riesco ad imitare, preoccupato come resto dei pericoli in attesa di noi. Ma non è solo preoccupazione, la mia.

Tra le braccia ho anche qualcosa che avevo perso. Ho mio fratello, che sorride nel suo modo sciocco, con la bocca spalancata dalla quale fuoriesce la sua risata.
Sì... lui ride, prendendosi gioco della mia serietà, ben sapendo che senza di essa sarebbe perso da tempo.

Bacia la testa di nostra sorella, poi, e mi fissa da sopra quei riccioli. Vede lo sguardo con cui sto osservando l'orizzonte di problemi e decidere di non farsi beffa di me. Solo di ripetere quelle flebili parole che legano i nostri rapporti di sangue con un nastro indistruttibile, più forte di tutto.

"Grazie".

Chiudo gli occhi, non volendogli rivelare di me più niente e lascio che torni nella mia stretta.
Nel calore di questa famiglia finalmente ricongiunta.

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