54- Cuori in cornice
P.O.V.
Ercole
Anni fa mi sarei vantato dell'autocontrollo che, alle volte, ero in grado di dimostrare, per giunta in situazioni tanto ostili, in grado di farmi rimangiare al contempo azioni e parole ma se quel ragazzo, il me di un tempo, mi vedesse ora posso essere certo che nonostante l'impassibilità sul suo volto non svetterebbe certo la fierezza.
Mi osserverebbe con occhi ostili, per giunta. Nello stesso modo in cui sono cosciente di aver osservato più di una persona che non mi stesse a genio, senza pronunciare a voce relativamente niente.
Già, quell'espressione che sto mostrando con più cattiveria, adesso, analizzando l'uomo dall'altra parte della casa, ma che cosa è a infastidirmi sul serio?
Temo di saperlo dannatamene bene per cui, ancora una volta, sono costretto a sotterrare questa risposta in me, per evitare di fare del male.
«Zio, ti senti bene?» Mi domanda la piccola Valerie, fissandomi dal basso mentre è occupata a tenere tutto quel quantitativo ingente di giornali che ancora non ha abbandonato dinanzi le porte di altre case.
«Tutto bene, piccola, non preoccuparti» la assicuro, svettando un sorriso tranquillo in volto che possa rassicurarla.
Questa mi sorride e si lascia illudere, scivola via da me per poter raggiungere la cucina dove la aspetta mia nonna, in modo tale da lasciarmi di nuovo solo alla mia osservazione, proprio nell'istante in cui Lèa raggiunge il nostro caro ospite.
«Sicuro di stare bene? Nerissa ha detto che occorrerà poco tempo prima che l'antidolorifico faccia effetto» le sento dire, vedendola poi chinarsi verso di lui con gesti gentili che possano essergli di aiuto per sollevarsi dal letto.
Vorrei andargli incontro e scrollarlo dalle spalle, come un vecchio panno dal quale si vuole togliere la polvere, non appena noto la sua mancanza di voglia nel risponderle come si conviene.
Usufruisce solo del supporto che lei gli offre, si appoggia al suo braccio, rimettendosi in piedi nonostante il precario stato di salute in cui verge.
I nostri sguardi si incastrano, diametralmente opposti ma accumunati da un sentimento di fastidio invisibile solo alla figura femminile presente tra noi.
Due settimane, per il completo recupero.
Questo aveva predetto Nerissa, calcolando così l'esatta durata di quella tortura che ho deciso di accettare, solo perché me lo aveva chiesto Lèa.
Se non fosse stato per le sue parole tanto dolci non avrei accettato un simile randagio in casa mia, perché c'è qualcosa, di lui, che non mi convince affatto e non è la strana dinamica con la quale sembra aver perso la mano quanto, piuttosto, quel qualcosa che cela il suo sguardo rancoroso, tanto consapevole del mio.
Ancora non ho idea di cosa possa trattarsi, distratto come sono da altri desideri quale quello di vedergli togliere la zampa da lei, ma mi prometto di scoprirlo.
Sì, me lo prometto, l'attimo stesso in cui la sua mano si stringe con più forza all'avambraccio di lei mentre sono ancora a due passi dal divano.
Stringo i denti tanto forte che Lèa sembra avvertirlo. Solleva la testa verso di me e mi nota. Prima di raggiungermi chiede ancora ad Hasim se gli occorresse qualcosa ed un lieve grugnito funge da risposta.
Non appena i passi si avvicinano a me tento di tenere, a tutti i modi, sotto controllo la rabbia, rivendicando l'anima quieta che ho posseduto un tempo e che lei ha totalmente stravolto.
«Ercole... va tutto bene?»
«Lui non mi piace» sibilo, notando la consapevolezza che Lèa sembrava già possedere di questa affermazione.
«Lo capisco, è piuttosto difficile come persona ma è anche ferito e sembra non avere un posto a cui tornare.»
«Gli manca una mano, Lèa. Gliel'hanno tagliata via.»
«Anche per questo non possiamo permetterci di lasciarlo andare. Si è messo in qualche guaio. Non appena ci lascerà è probabile che gli ricapiti.»
«Da quando questo è diventato un nostro problema?»
La testa di Lèa si china verso il basso. La mano sollecita lo spostamento di quel foulard colorato che si era semplicemente posata attorno al collo ma che adesso crea una barriera attorno alla sua ferita.
Il gesto calamita il mio sguardo.
«Non è solo questo, non è vero? Sei arrabbiato per qualcos'altro?»
Quando la sua voce termina la domanda, i suoi occhi chiari risalgono fino ai miei mostrandomi quell'innocenza che da sempre vi ho visto abitare.
«No... nient'altro» mormoro, con la gola secca, finendo poi per schiarirmi la voce in modo da avere più coraggio. «Vieni in cucina, mia nonna ti aspetta per colazione.»
Detto ciò mi allontano, facendo retro-front e aspettando che mi segua.
Con tutto il coraggio che ho mi sforzo di non voltare la testa in modo da non verificare la sua preoccupazione per la figura rimasta alle sue spalle, intenta ad abbottonarsi con precisione la camicia.
Lo odio anche per questo, per i suoi modi tanto perfetti.
L'acconciatura, il volto, i suoi silenzi... tutto concorre al suo paragone con una statua di marmo e proprio come lei sembra non avere sentimenti.
Mi accomodo di fronte alla mia piccola amica tenendo la testa bassa, trafitto dai pensieri e vittima di gesti troppo scattanti di rabbia, preoccupandomi solo di liberare il fazzoletto di carta sotto il bicchiere ricolmo di succo d'arancia in modo tale da non sporcarmi i vestiti, una volta posato questi sulle gambe.
«Zio... ma chi è quell'uomo? Non mi piace» mi confessa sotto voce Valerie, ed io con un gesto secco apro del tutto il fazzoletto tirandone una punta di colpo per poi sforzarmi, con tutta calma, di pormelo addosso senza farle notare la mia furia.
«Non è nessuno, Valerie. Presto se ne andrà via» le dico, nell'istante stesso in cui Lèa entra nella cucina. Avverte la mia risposta e storce le labbra.
Per caso la cosa la infastidisce?
«Ciao, Lèa! Come stai oggi?» Chiede quindi raggiante la piccola, notando il suo ingresso sulla scena e modificando totalmente umore.
Si mostra sempre felice di vederla e, solitamente, è così anche per me ma questa mattina sono più arrabbiato del solito.
«Bene, piccola. Grazie.»
«Se stai bene vuol dire che, allora, non hai più paura del sole? Puoi toglierti questa?» Continua a chiedere, ingenuamente impertinente quanto curiosa, la piccola, tendendo una mano verso il foulard colorato e intrecciato sotto il mento di Lèa ma questa si ritrae di scatto, gettando nella tristezza la bambina.
«Lascia perdere, Valerie» sibilo, afferrando forchetta e coltello per poter tagliare i pancake preparati da mia nonna e tenendo lo sguardo fisso sulle mie azioni. «Lèa decide da sola quando tenerselo o meno.»
L'ho detto con voce intransigente, per mettere in riga la piccola, ma le mie parole celavano altro e dal silenzio di Lèa credo che anche lei l'abbia colto, pur non comprendendolo.
«Lèa! Come stai questa mattina?»
Anche mia nonna si preoccupa della sua salute, dimostrandolo con i suoi modi gentili non appena entra nella stanza assieme a mio nonno.
«Tutto bene, Iris, grazie.»
«Hai mia mangiato qualcosa di quello che ho preparato?»
«Lo faccio subito, grazie.»
«Smettila di ringraziarmi e mangia qualcosa, che sennò appena uscirai il vento ti porterà via» commenta, per poi lasciare un breve silenzio non appena si rende conto, come tutti noi, di quell'ipotesi sul futuro destinata ad allontanarsi. L'ha detto senza pensare eppure, un giorno, dovrà succedere.
Lèa dovrà lasciare questa casa, per tornare alla sua vita.
Affondo con più forza la forchetta sul pancake, tranciandolo di netto con un affondo del coltello.
«Ad ogni modo, fate pure con calma. Noi stiamo per uscire» torna a parlare mia nonna, forse per alleggerire la strana situazione creatasi.
«Andate al mercato, nonna?» Le chiedo, tendendo sempre gli occhi sul piatto.
«Sì, abbiamo da comprare nuove cose da mangiare e anche delle nuove lenzuola. A quanto pare dal non avere nessuno siamo arrivati ad averne molti di nuovi...» Lèa tenta di parlare ma la mano di mia nonna la ferma, assieme ad un sorriso. «Non preoccuparti, Lèa. Tu sei bene accetta e anche lui. Ci fa piacere. Solo che non ne abbiamo l'abitudine quindi nuove lenzuola ci servono.»
«Permettimi almeno di aiutarti. Ho qualche soldo, posso contribuire. Vi occupate di me tutti i giorni e non voglio essere un peso.»
Vuole anche lasciare dei soldi per le sue lenzuola nuove?
Poso il coltello sul tavolo, forse con più forza del dovuto, e mi pulisco gli angoli della bocca con il tovagliolo.
Avverto gli sguardi dei miei commensali contro ma fingo di ignorarli.
«Ercole, va tutto bene?» Anche mia nonna lo domanda ed è così che tento di scaricare la rabbia sollevandomi in piedi, lasciando metà della mia colazione sul piatto.
«Tutto bene, ma devo andare a lavorare.»
«Non hai finito la tua colazione...» mi fa presente mia nonna con occhi sgranati, citando quella regola sacra che abbiamo di non lasciare avanzi sui piatti.
«Non ho più fame, ma lo stesso non si può dire della piccola. Mangi tutto tu, Valerie?»
«Faccio io, zio» mi risponde, diligente come un soldato, per poi allungarsi dall'altro lato del tavolo in modo da afferrare il mio piatto mentre io, invece, mi sto vestendo della mia vecchia e verde giacca impermeabile.
La sua azione mi fa sorridere, per la prima volta in tutta la mattina.
Avrei voglia di baciarla sulla testa, come faccio sempre, ma evito, in modo da non viziarla troppo.
«Aspetta a uscire, Ercole. C'è un'ultima questione» mi ostacola ancora la fuga mia nonna, proprio a un passo dalla porta.
«Che cosa succede?»
«Adesso abbiamo un nuovo ospite» mi fa presente mio nonno, come se non fosse chiaro.
Salto alle mie conclusioni da solo.
«Dormirò con Valerie nella sua camera» informo i presenti, stringendo con forza la maniglia della porta mentre la piccola esclama un "sì" convinto e trascinato dato dalla bocca piena, e coronato anche dalle braccia distese verso l'alto.
Lascio che sia questa l'immagine da preservare tutto il giorno, quale rappresentazione dell'allegria, e mi sforzo con tutto il cuore di non notare altro. Di non vedere la tristezza di mia nonna, il sospiro di mio nonno e quell'espressione triste, vittima della non comprensione, sul viso di Lèa che tanto mi sono impedito di analizzare.
Ecco fatto, con le mie parole ho liberato un letto, il mio.
Ora spetta solo a Lèa decidere sopra quale materasso, tirato a lucido da nuove coperte, preferirà dormire.
P.O.V.
Hasim
Seguo la ritirata del ragazzo con i dread di casa, finendo di abbottonarmi i polsini delle maniche.
Non sembrava tanto allegro, questo giorno, ma in fondo non mi interessa.
In verità non sono curioso nemmeno di quelle nuove facce presenti nella cucina che ho di fronte e che si soffermano su di me per lunghi sguardi.
Sono le persone che mi stanno ospitando, i padroni di questa casa eppure non mi importa di sembrare scortese. Non dico loro niente, semplicemente mi risiedo sul materasso in modo tale da riuscire, con una sola mano, a legare il laccio delle mie scarpe.
Mentre sono a testa china, però, avverto come dei piccoli passi avvicinarsi e mi trovo di fronte quella piccola ragazzina che a tavola occupava il posto accanto a Lèa.
Noto che è alquanto strana: piccola, certo, bianca e appariscente con le sue calze bianche e rosse, il suo abito con piccole spalline sempre rosse sotto cui svetta una maglia a maniche lunghe bianca, ed uno sguardo arrabbiato.
Si può essere, sul serio, arrabbiati a quest'età? Quanto avrà? Sei, sette anni?
«Tu sei cattivo» mi dice, con un cipiglio agli occhi che le rende più minaccioso lo sguardo, il che è abbastanza divertente.
Ci immagino con un occhio esterno: uno uomo di quasi trent'anni, nero, abbastanza muscoloso e vestito di tutto punto con abiti tirati a lucido monocolori ed una bambinetta che pare aver inghiottito l'arcobaleno ed averlo vomitato sulle mani e sui cordini ai capelli.
Sul serio, cosa sono? Gli elastici hanno come delle palline colorate che producono il rumore di sonagli e le mani sembrano vittime di una lotta costante con pennarelli acrilici. Almeno le ha lavate, prima di mettersi a tavola?
«Perché dici questo? Mi conosci?» Le rispondo però con faccia tosta, domandandomi solo dopo il perché io stia provando a tenerle testa.
Bambina contro uomo. Nemmeno dovrebbe esserci competizione.
«No, ma hai fatto arrabbiare mio zio e lui non si arrabbia senza una buona ragione.»
Sogghigno, tornando con la testa bassa ed occupandomi di nuovo delle mie scarpe.
«Questo lo credi tu. Piuttosto, io penso che tuo zio si arrabbi parecchio, e per molte cose.»
«Non è così che si fa» mi riprende lei, fissando il modo in cui sto tentando di allacciare i nastri con una mano sola. Sollevo la testa per fissare la sua saccenza. Non la destabilizza. «Prima devi fare le orecchie al coniglio e poi devi intrappolarle.»
«Nano, hai notato che ho solo una mano?»
«Come tutti i cattivi» sibila, fissandomi con ancora di più la fronte aggrottata ed è inevitabile. Riesco a ridere della sua espressione e la cosa la fa imbestialire.
Probabilmente tanto da mandarla in autodistruzione ma Lèa sopraggiunge sulla scena e salva entrambi.
«Che succede? Va tutto bene?»
Stavolta è suo il turno di ricevere accuse a carico. La bambina si volta verso di lei, con le braccia stese rigide contro il corpo ed i pugni chiusi, quasi tentasse di scaricare in essi la rabbia.
«Se stai dalla parte dei cattivi, anche tu sei cattiva!» Le dice, e Lèa sgrana gli occhi.
«Che cosa stai dicendo, Valerie?»
No, la piccola non le risponde, non ne ha forza. Semplicemente scappa via, lasciandoci soli ed è così che un lieve silenzio ci raggiunge dopo che il terremoto si allontana.
Rimaniamo muti per dei minuti, gli occhi di lei mi scivolano addosso per poi soffermarsi sull'azione che stavo per compiere prima di essere interrotto.
«Hai bisogno di aiuto?»
Ancora una volta non le rispondo, mi limito a fissarla. Per tutta la mattina non ho proferito parola, prendendo distanze dalla sua bontà ma ciò non era servito a niente.
Me lo assicura non appena si inginocchia di fronte a me e, lenta, permette l'intreccio dei lacci delle scarpe.
«Sei fortunato che nonna Iris sia fuori casa, lei non ti permetterebbe di tenerle» mi dice in un tono divertito ma io nemmeno la ascolto.
Osservo solo la sua testa, più in basso delle mie gambe, ed il modo servile con cui si sta occupando di me, piena di premura.
Il sole, alle mie spalle, proveniente dalla finestra le illumina il viso chino, rendendole ancora più lucide le rosee labbra e la curva morbida della fronte.
«Perché fai tutto questo?» Sussurro, senza avere altro di importante da chiederle, e gli occhi di lei si sollevano sorpresi, guardando dritto in me e rendendosi partecipi di questo primo approccio.
Ora il sole illumina anche loro, rendendo le sue iridi ed i suoi capelli, scivolati da sotto il foulard, ancora più chiari.
«Perché voglio aiutarti. Credi che sia tanto sbagliato?»
Eccome se è sbagliato, ma Lèa questo non può saperlo. Non ha idea dell'uomo che sono, per cui non è consapevole di che persona sia quella a cui sta rivolgendo tanto amore.
Non ne merito nemmeno la metà, né una piccola parte ma la bruttezza del mio animo non si arresta dinanzi questo ignobile furto e decide di volerlo lo stesso.
Lei, qui, vicino a me che mi osserva con questi occhi troppo puri. Troppo... limpidi, da non riuscire a sostenerli e finire per allontanare i miei, lasciando di nuovo al silenzio il compito di tornare da noi nonostante, stavolta, la sua natura sia del tutto diversa.
«Non sembri andare molto a genio a Valerie» commenta, rivelandomi il nome dell'inferno eretto a un metro da terra.
«Non credo che sia l'unica a cui non piaccio, in verità.»
«Se ti mostrassi più gentile forse riusciresti ad andare a genio anche agli altri» mi rimbecca, proprio come stava facendo la piccola prima di lei. Mi spinge a sorridere.
«Così come vado a genio a te?»
Lèa solleva di nuovo la testa mostrandomi l'impassibilità del suo volto. Peccato. Avrei preferito qualcosa di meglio, magari il modo con cui sembrava guardare quel ragazzo con i dread, prima che se ne andasse via...
«Per questo sei qui con me, no?» Le domando ancora, incoraggiando una sua risposta spinto solo dalla follia.
«Volevo esserti d'aiuto, tutto qui» mi dice, per poi risollevarsi in piedi e aggiustarsi la maglietta lunga ma attillata che era scesa, formandole delle strane pieghe sul corpo, nella mossa di rialzarsi.
L'azione attarda il mio sguardo prima che venga catturato dalla figura della piccola che se ne esce di casa, con quella pila di giornali sottobraccio.
Il tempo suo di uscire che ecco Lèa si libera del foulard che ha in testa, lasciando liberi i capelli castano chiari.
Quando lascia la mia stanza lo fa arricciando quel tessuto attorno ad una mano, fissando i colori che sfregano tra loro nelle pieghe mentre mi è di spalle, lasciandomi la consapevolezza che nessuna religione possa averla obbligata a tener quel velo sul capo ma che sia stata, piuttosto, l'azione di un diavolo a vincolarla. Rilegandola anche a quel dolore con cui esce dalla stanza, a testa bassa.
P.O.V.
Ercole
Poche cose desidero dopo una giornata di duro lavoro e queste le suggerisce il silenzio. La completa assenza di suono che avverto non appena chiudo la porta di casa, venendo presentato a una cucina vuota. Sgombra di utensili che mia nonna si è già operata nel ripulire.
Ho la completa certezza che lo abbia fatto solo a poche ore dal mio arrivo, e che sia rimasta fuori casa per tutta la giornata.
Questo è ciò che accade, non appena la vita, con delle novità, la fomenta. Da che sono piccolo non ho smesso un attimo di ringraziare la giovinezza della sua mente, la forza che ostenta grazie alla quale è riuscita a crescermi, occupando il posto di mia madre, eppure alle volte desidererei che rallentasse. Che mi permettesse di prendermi io cura di lei, in modo da godersi in pace la sua vecchiaia.
Non è molto da chiedere, eppure sembra uno sforzo così immenso non riuscendo mai ad essere dentro questa casa.
Arrivo dinanzi la foto dei miei genitori, stretti in un mezzo abbraccio dinanzi all'obbiettivo con visi sorridenti, dentro quella cornice dorata che è la prima, ad ogni mattina, ad essere spazzolata dalla polvere per mano di mia nonna.
Passo le dita sul quel vetro ed osservo i loro visi, sospirando pe la bellezza che trasuda il loro amore.
Madre, padre... siatemi d'aiuto in questi giorni, ho bisogno della vostra forza.
In certe situazioni mi domando quanto la mia vita sarebbe cambiata, se solo loro fossero qui con me. Sostenendomi, facendo valere il loro ruolo. Sarebbe stata alterata molto? O forse, invece, la loro presenza avrebbe reso la casa più disciplinata, sì, ma al contempo più rumorosa?
Come quella delle famiglie nelle pubblicità, piene di persone circondate da un coro di risate attorno ad un tavolo. Che cosa avrebbero pensato di Valerie, quella mia strana ed accudita nipote? E di Lèa? Avrebbero spalleggiato il dolore di quell'amore che provo da anni per lei o lo avrebbero reciso, come si fa con di un filo troppo tirato, e assottigliato da diramazioni date dal consumo, mettendo fine ad ogni mia illusione?
Forse sono un sognatore, ma credo che non lo avrebbero mai fatto. La loro morte è stata per amore, per cui non mi avrebbero mai impedito di vivere ciò che provo e questo li avrebbe resi quella sorta di genitori perfetti che continuano ad essere, mentre vegliano sulla nostra casa dall'altare della loro cornice. Proteggendoci dai nemici, dagli estranei...
Inclino la testa ed osservo la porta del soggiorno dietro la quale so esserci il divano su cui riposa lui, continuando a stringere la cornice con la foto dei miei e storcendo le labbra.
Sono complici anche loro del suo arrivo. Senza il loro consenso di fantasmi non avrebbe mai potuto varcare la soglia, per cui mi domando se abbiano un piano anche per quell'essere tanto insulso e quale diavolo possa essere.
Se c'è una caratteristica sbagliata, nell'animo dei romantici, è quella di non arrendersi mai. Neanche dinanzi le cause perse.
Di questo, siamo vittime entrambi.
Mi avvio con passi lenti lungo le scale piene di tarli e di rumori di casa mia, cercando di non destare il sonno di nessuno a quest'ora tarda.
Poso una mano sulla maniglia laccata in oro, destinata all'unica stanza regale di questa casa, e la socchiudo piano, entrandovi di lato per non aprirla del tutto.
Quando riesco a chiuderla senza creare troppo baccano ho come l'impressione di aver quasi vinto un premio contro la mia stanchezza che mi avrebbe reso goffo ma ogni esaltazione va a monte quando mi volto.
Sul letto trovo una Valerie con gli occhi aperti, la schiena contro la testata agli inizi del materasso, un sorriso e la mano che picchietta contro le coperte, incentivandomi a farmi avanti.
«Come, come, come? Sei sveglia a quest'ora?» La riprendo, volendola incastrare con un tono di accusa ma niente da fare. La sua innocenza vince, mentre si stringe nelle spalle creando confusione nel suo pigiama pieno di stelle.
«Ti aspettavo» mi dice.
«Lo sai, vero, che se nonna Iris ci scopre domani per te saranno guai seri?» La informo, sempre con questo finto tono arrabbiato, ricordando anche a lei l'importanza delle regole di questa casa.
Nessun legame di sangue ci unisce eppure sappiamo che non vale niente. Anche per lei Iris è una nonna, e come tale ha degli obblighi nei suoi riguardi. In primo luogo, quello di rispettare la parola data, quindi non dovrà produrre alcun suono, risolino o altro che posano svegliare quella severa autorità.
«Ma tu non le dirai niente, giusto?»
Sollevo un sopracciglio, intrecciandomi le braccia al petto. «Che cosa otterrei da questo scambio? Mi hai lasciato qualche avanzo della cena?»
Glielo domando, ma è un trappola. Voglio vedere la sua risposta.
Da tempo sto costringendola a non lasciarmi niente dal momento che aveva preso l'abitudine di riservare sempre qualcosa al mio rientro a quest'ora tarda, e non avrebbe dovuto.
Già mia nonna si occupa di lasciare in forno qualcosa per il mio pasto, ma la piccola non ne sapeva niente e così evitava di mangiare parte della sua cena per riservarmela.
Un gesto tanto dolce da farmi sciogliere il cuore, portandomi però anche a sgridarla perché così, senza la giusta dose di pasto, non sarebbe mai cresciuta come la donna che ci aspettiamo diventi e tutti noi lo vogliamo così tanto. La amiamo, così tanto...
Il suo braccio si tende in avanti e la sua mano mi rivela giusto un biscotto.
Ecco che cosa mi ha riservato.
Ancora una volta lo ha preferito al niente ma direi che si tratta di un progresso.
Sospiro e lo afferro, sapendo di poterla così rendere felice e mi godo gli istanti in cui il suo volto si illumina vedendomi mangiare parte del suo cuore. Sì, la sbranerei a morsi, la farei ridere a crepapelle, mi ciberei solo del suo amore!
Alle volte nonna dice che quasi pare che io e lei sfoggiassimo la stessa età. L'ho presa come un bel complimento, ed in effetti anche Valerie.
«Non muoverti da qui, capito? Vado a mettermi questo pigiama e poi torno qui a letto» le dico, ringraziando mentalmente ancora una volta mia nonna per avermi fatto trovare questo indumento proprio qui, fresco di stiratura.
«D'accordo, ma poi mi racconti una storia?»
Già, raccontare. Ormai si è stancata di sentirmi leggere, preferisce che faccia tutto di mia fantasia ed è uno sforzo alquanto arduo ma la maggior parte delle volte cedo, nonostante la stanchezza.
«D'accordo, pulce, ma ora chiudo gli occhi, torno presto.»
Annuisce soddisfatta, lasciandomi libero di recarmi al bagno.
Quando rientro, con i miei lunghi e larghi pantaloni blu e la maglia a maniche corte grigia nella più completa notte, la trovo illuminata dalla luce della luna, sprofondata nel letto e già persa nel mondo dei sogni.
Sorrido e mi stendo al suo fianco, pensando che anche l'entusiasmo, dentro un corpo tanto piccolo, ha bisogno del suo meritato riposo.
******
Delle dita mi stanno sfiorando la fronte, scivolandomi lente sulla pelle in una carezza leggera che simula il vento.
Non voglio scostarle. Le lascio ancora toccarmi mentre discendono lungo le tempie, per poi accarezzarmi gli zigomi.
Nelle fiabe di Valerie, una notte avevo letto che esistono dei piccoli spiriti notturni pronti a farti visita mentre sei perso nei sogni. Essi posseggono la capacità di esaudire dei desideri ma mai pronunciare il tuo volere a voce troppo alta! L'esigenza fa loro paura, manifesta la cattiveria di un animo avaro e loro ne sono terrorizzati, amanti della gentilezza e della bontà.
Mai mi sarei immaginato, però, che questi spiriti sfoggiassero un profumo tanto buono e che fossero delicati così. Gentili nel dedicarsi alla mia tranquillità, ma dal momento che sono qui ho un desidero da rivolgere loro.
Lo penso, senza esprimerlo a parole, nella speranza che possano realizzarlo.
Poi apro leggero gli occhi, trovandomelo dinanzi.
La notte schiarisce la sua pelle fino a quasi renderla porcellana ma quegli occhi verde-azzurro non perdono l'energia della loro colorazione, i capelli castano chiari risaltano maggiormente in un cromatismo biondo dentro questo silenzio ed io osservo loro, ultimi, mentre cadono lisci, come acqua sulle sue spalle.
Liberi da qualsiasi fermaglio e da qualsiasi bugia, rivelandomi la bellezza del suo volto nella più totale completezza.
«Lèa...» mormoro con voce roca, impaurito nel far scappare via il mio desiderio ed ancora imprigionato tra le braccia della sonnolenza. «Che cosa ci fai qui?»
«Ti ho sentito rientrare» sussurra anche la sua voce, nel solo desiderio di non far svegliare la piccola creatura che dorme al mio fianco.
«Scusami, ho fatto troppo rumore?»
«No, ero in camera tua. Io... ti stavo aspettando.»
Le sue parole mi destano completamente, come la sincerità con cui le ha emesse.
Attento a non compiere una mossa troppo brusca, allontano le coperte quanto basta per non destare Valerie, finendo sollevato sui gomiti per poterla vedere più da vicino.
Nessuno spirito nella notte ma solo le sue mani che, vittime del coraggio, mi avevano accarezzato piano ed ancora sfrigolano nell'evidenza della loro colpa, rimanendo un palmo socchiuso vicino al mio corpo.
«Perché questa mattina te ne sei andato arrabbiato?»
Il modo con cui me lo domanda, come trafitto dal dolore, genera in me un tale scompenso che può essere paragonato solo alla vergogna.
Non avrei mai voluto ferirla, ed è per questo che provo a rimediare al mio sbaglio.
«Non era niente. Non devi preoccuparti» le dico, a testa bassa perché incapace di sostenere il suo sguardo.
«Non mi hai nemmeno guardata» mi dice, costringendomi a tornare a lei.
Crede che non sia stato costretto? Mi sono imposto di non fissarla, ma solo occhi negli occhi con lei, ora, mi accorgo di quanto sia stato infantile il mio gesto. Di come lei se lo aspettasse, ed il cuore parte a battere in uno scompenso al pensiero che mi volesse.
«Mi dispiace» sussurro.
«Dimmi perché eri arrabbiato. Parlamene.»
Ora sarebbe davvero ridicolo farlo. Con lei, così. Con i capelli sciolti e questo sguardo implorante.
Non riesco, per il mio cuore è troppo e anche per il mio onore.
«Davvero, Lèa. Non è importante.»
«Riguarda Hasim» dice lei, catturando i miei occhi. «Dimmi che cosa.»
«Con lui sei diversa» dico solamente, e simili parole costano una fatica immane.
«Diversa come?»
Ispiro di rabbia e protesto, vorrei andarmene ma la sua mano si posa di piatto sul mio petto, trattenendo qualunque fuga.
Sono ancora disteso, a malapena sollevato verso di lei, mentre Lèa è inginocchiata a terra con il petto contro questo letto per potermi essere vicina, il più possibile, e leggere nei miei occhi la verità.
«Dimmi come, diversa.»
«Al sicuro, senza paure. Con lui hai tolto il foulard, mostrando subito le tue ferite» le confesso, ed è preso dal coraggio che lascio uscire il resto della frase, rivelandole l'amarezza del mio cuore. «Con me, da sola in una stanza, da sola in una cucina, non lo hai mai tolto.»
«Adesso non ce l'ho, no?» Trema la sua voce, continuando a fissarmi negli occhi senza al contempo togliere la sua mano dal centro del mio petto.
Il suo peso è lieve ma il suo calore devastante.
Vorrei come posare la mia mano sulla sua e trattenerla, ma non ho la sua stessa forza.
«Perché hai da dimostrare qualcosa.»
«No, Ercole. Non ho da dimostrare niente, questa è semplicemente la verità» mi dice con forza, e solo per un attimo le sue dita stringono il tessuto della maglietta, per poi rilasciarlo. «Ormai la mia vita è diversa, non lo vedi? Ho smesso di fingere da quando mi hai portata in questa casa.»
Sotto il suo palmo, il mio cuore batte più veloce mentre i suoi occhi scorrono più lenti lungo il mio corpo, aggrappandosi su qualcosa, in me, che possa esortarla ad avere ancora più coraggio nel confessare.
«Non hai mai pensato che il mio parlare tranquillamente con Hasim significasse qualcos'altro, rispetto a quello che pensi?»
«Non sai cosa penso.»
«Invece credo di sì. Sei arrabbiato, quindi lasciami finire.»
Sì, è vero, sono arrabbiato ma lei pare non esserlo. Se non infastidita dal modo in cui mi sono approcciato a lei, questa mattina e persino ora, il suo volto non mi rivela altro e mi costringe all'ascolto di quelle parole che sembrano costarle una fatica immane.
«Non ricordi più chi sono? Come sono fatta? Non dono alcuna importanza a ciò che non mi interessa o che mi ferisce. Non gli cedo niente, mi sono sempre comportata così... davvero non lo ricordi?»
Certo... certo che me lo ricordo. Era stata la gelosia ad offuscarmi gli occhi, quel sentimento infimo e cattivo con cui sembro averla delusa, e spinta al pensiero di averla rimossa per sempre dai miei ricordi.
Di aver dimenticato di quella donna forte, agguerrita, che sa di essere stata un tempo ma di cui non è certa di poter tornare ora.
Le sue fragilità mi esortano al coraggio, mi fanno alzare una mano così da sfiorarle il viso e darle tutte le rassicurazioni che le servono.
«Certo che me ne ricordo.»
Mi sono innamorato di quella donna agguerrita. Ho lottato con tutto il cuore affinché non si infrangesse e continuo a farlo, cercandola dentro i suoi occhi fragili promettendole che però, se pure verrà fatta a pezzi, anche la polvere che ne rimarrà, qualsiasi lato possa assumere il suo carattere, riceverà lo stesso in dono il mio amore. Non posso farci niente.
Vivo dentro una cornice d'oro che mi intrappola i sogni, schiavo di un vetro che mi vincola dentro il mondo dei miei desideri e al mio fianco non ho nessuno, il mio ritratto è vuoto.
Vorrei... che fosse al mio fianco, dietro il nostro vetro, a stringermi in un mezzo abbraccio che possa far invidia, in modo da amettere, nero su bianco, quell'amore che sta facendo me a pezzi, frammentandomi in polvere.
«Hasim non è importante. Avere o meno quel foulard con lui non ha nessun significato. Ti prego di ricordartene.»
La sua mano si allontana dal mio petto e con queste ultime parole, emesse come un imperativo, Lèa si alza ed è pronta ad andarsene via ma io no. Non lo sono affatto. Mi sollevo in piedi in un attimo e la raggiungo. Distendo la mano...
«Lèa, aspetta.»
Dinanzi la finestra, con quel vetro che ci intrappola agli occhi della luna, riesco ad afferrarla ed è un attimo solo prima che si volti verso di me.
Con le dita mi circonda il viso ed in un secondo la sua bocca è sulla mia.
Chiudo gli occhi, permettendole di farmi a pezzi.
Ha le labbra più morbide di questo mondo, la dolcezza con cui si stringe a me più forte di ogni cosa ed io non so resistere. Sollevo le braccia e le circondo il corpo, la avvicino ancora perché non sopporto la sua lontananza e la bacio. La bacio come se possedesse in se il mio ultimo respiro, come avrei voluto fare in un tutti questi anni.
E lei ricambia... la sua bocca scorre lenta ed esercita quella pressione che è tensione e struggimento, desiderio e resa.
Non riesco a pensare a nient'altro che non sia il suo bisogno di me, il modo con cui preme la bocca sulla mia per poi lasciarmi andare, abbandonandomi ad uno eterno struggimento che ci vede vittime arrese di questo bisogno.
Ora, Lèa mi ha raggiunto dietro la mia cornice dorata e preserva il mio sogno. Dietro quel vetro mi abbraccia nello stesso modo con cui si abbracciavano i miei, confessandomi l'ipotesi di quella vita che ho osato solo sperare.
Quando si allontana, il suo volto manifesta il turbamento.
Non immaginava davvero di baciarmi, non così presto, non con quella ferita in viso che sono riuscito a sfiorarle.
Comprendo la sua paura, il modo con cui la sua iride balla ma ormai non deve più temere niente.
Avevo solo perso, per un attimo, il coraggio e lei lo aveva raccolto per me.
Ora, però, può tornare a tutti quei dubbi che la fanno tremare, facendola fingere di uscire disinvolta dalla stanza, perché con me non corre alcun rischio.
Perché noi abbiamo un valore. L'assenza di bugie, mascherate dietro un imbroglio di stoffa, questa notte per lei lo ha quindi niente è più importante tranne che il sapore umido che mi ha lasciato il nostro bacio privo di controllo.
In piedi dinanzi una porta che ormai si è chiusa, rivolgo la mia testa alla luna piena oltre il vetro della finestra, certo che rimarrò a fissarla finché il sole non prenderà il suo posto. Rubandola alla notte che catturerà anche il mio sonno.
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