49- Bestie di sangue dentro mani candide
P.O.V.
Francis
Con la punta delle dita sfioro la nudità della sua testa, dal momento che riposa contro il mio petto.
Ci troviamo ancora nel suo letto, a malapena vestiti, reduci dal nostro ultimo scontro come dal bagno nella vasca che ci ha visti vicini.
C'è silenzio, ormai da molto tempo. Vivere in esso era stato piacevole, esortati come siamo stati ad accompagnarlo da minuscole carezze in grado di contenere molto di noi, al loro interno.
Io, a nome di entrambi, mi sono prodigato affinché il nostro contatto non potesse finire, ed ho passato sul suo corpo lo sguardo e la mano, come a chiedere scusa per la rudezza dimostrata.
Rais non ha emesso un solo fiato dall'ultima volta che mi ha reso partecipe delle nostre novità ed ora sorrido, nel ripensare a loro. Tanto curiose e inaspettate, da generare il me il bisogno di un chiarimento o di una conferma.
«Ryan, mh?»
«L'ho scelto solo perché è un nome che assomiglia al mio, non voglio del tutto dimenticarmi di chi sono» dice a bassa voce, come se qualcuno, fuori da queste sue piccole finestre, potesse sentirci, disturbando per sempre la nostra pace.
Continuo ad accarezzarlo con la punta delle dita, percorrendo un tragitto che dalla tempia sinistra mi conduce alla sua nuca. La lentezza del gesto mi offre modo di riflettere.
«Mi piace... proverò a chiamarti con il tuo nuovo nome, d'ora in poi.»
«Avrai tempo, non lo dovrai farlo fin da subito» mi dice, parlando senza alcun dubbio della mia imminente partenza per la scuola militare.
Sporgo indietro la testa, chiedendogli di fare lo stesso. Oppone una piccola resistenza, la sua mano lungo il mio petto scivola ma poi il resto del corpo viene esortato a fissarmi.
Non avrò a che fare con questi grandi occhi per un bel po'...
«Sicuro di voler lasciarmelo fare?»
«Si tratta del tuo sogno, non voglio ostacolarlo.»
«Ci siamo promessi delle cose...»
«Le manterrò, se le manterrai anche tu.»
Sono i miei di occhi, ora, a discendere lungo il suo volto per riuscire a carpirne i particolari. Non voglio dimenticarmi niente di lui, nemmeno il più piccolo dettaglio. Il modo in cui la luna, ora, impallidisce la sua pelle rendendolo simile al colore della sua generatrice. I crateri sulla sua crosta sono le proiezioni nere degli alberi, la sua malinconia questo modo stanco che ha di guardarmi.
«Credo che debba esserti offerta la possibilità di verificarlo. Ti lascerò il mio telefono, è un regalo di Carlail. Anche i militari devono avere dei momenti di libertà. Ti chiamerò appena potrò, quindi vedi di tenerlo sotto controllo sempre.»
«Ah» commenta, sollevandosi con un sorriso e appoggiandosi con una mano, di piatto, al letto in modo tale da rimanere seduto. La posa pone in evidenza gli addominali come la snellezza del suo corpo.
Sorrido. «Cosa c'è?»
«Ti aspetti che sia sempre lì, pronto a tua disposizione? Non usare la mia richiesta di fedeltà come una scusa. Se vuoi sentirmi, nonostante tu stia partendo, dillo e basta.»
Quando è diventato così spigliato, nei nostri confronti? Poco importa, mi piace.
«Se lo ammetto, terrai il mio telefono con te?»
«Forse lo accenderò e ti risponderò qualche volta.»
«È ovvio che voglia sentirti, Rais. Perché credi che sia venuto da te, stanotte?»
Tace, assumendo un espressione seria e rimanendo, poi, a fissare un punto poco più lontano dal mio viso, forse la testiera del letto, per impedirsi di mostrarmi direttamente le sue paure.
«Forse solo perché non accetti che altri compiano gesti fuori dal tuo controllo. Magari non vuoi solo essere tradito.»
«Ci scommetti che non lo voglio.»
«Quale delle due?»
«Non sono un maniaco del controllo», rido di lui e del suo pensiero, «altrimenti non ci troveremo qui, non trovi? Con che genere di uomini hai avuto a che fare?»
Ancora non mi fissa negli occhi, mentre sono steso sul letto, tra le sue coperte. Mezzo nudo e vestito solo di un trasparente bisogno di conoscenza, che necessita delle sue risposte.
«Dico sul serio... chi erano? Non me ne hai mai parlato prima.»
Curiosità e forse il solo istinto kamikaze sono le emozioni che mi esortano a mettermi seduto, proprio come lui, partendo a sfiorare il suo braccio per riuscire ad arrivare a caccia delle mie informazioni e trarre conforto.
Rais sembra sperso. Confuso tra le molte emozioni. Testa bassa e occhi puntati alla mia carezza. Gli tremano le labbra.
«Non importa, lascia perdere. Dimenticati di loro» mi dice, sollevandosi dal letto per poter camminare, lungo la stanza fino alla finestra della camera, con le braccia distese lungo i fianchi.
Io, invece, rimango a fissarlo, vestito solo in quei blu scuri boxer. A sedere e con le gambe piegate, le lenzuola a coprirmi la parte inferiore del corpo, poso anche i gomiti sulle ginocchia e unisco le mani in un intreccio. La posa manifesta la tranquillità che sento nel trovarmi mezzo nudo nel suo letto eppure anche l'attenzione che ripongo alla sua improvvisa fuga.
La mente non smette di rielaborare.
Ricordo che un giorno mi parlò di certi uomini ricchi. Di essere stato con alcuni di loro, per quanto non fossero il loro tipo. Mi domando chi fossero ma non mi sorprendo: arrivato dove era arrivato, vivere dentro certi giri loschi e di potenze arricchite non era insolito.
Immaginarlo come un'anima perduta che vaga, proprio come sta facendo adesso per la stanza, a caccia della sua pace non è impossibile, eppure è da narcisisti pensare di essere, in qualche modo, stati capaci di avergliela offerta.
Non dovrei concentrarmi sul passato, ha ragione. Abbiamo così tanto di nostro, ed un tempo che non va sprecato. So in che modo farlo.
«Domani andiamo in un posto» dico, in un mezzo sorriso. Il cambiamento del mio tono di voce lo esorta a volgere verso di me il capo.
«Dove?»
«Nel mio luogo preferito. Voglio presentarti ai miei amici. A chi mi è caro... voglio che tutti siano a conoscenza di quello che c'è stato.»
Per alcuni istanti rimane in silenzio, voltato di tre quarti verso di me, ragionando sui fatti.
«Credi che sia sicuro?»
Mi stringo nelle spalle. «Samuel lavora lì.»
«Chi è Samuel?»
Sorrido. «Attila.»
La sua bocca si apre lievemente, trafitta dall'attesa, ma poi il suo capo viene scosso in un lento diniego. Come se si stesse chiedendo come avesse fatto, da solo, a non pensarci prima.
«Ti stai davvero fidando troppo di me.»
«L'amore fa fare cose folli, non lo sai?»
Rais, stavolta, torna a fissarmi ed in piedi nella sua stanza, seminudo, adesso ha uno sguardo completamente diverso da rivolgermi.
******
La magia di un luogo viene resa evidente nelle notti estive così come nelle prime ore di qualsiasi giornata.
Me ne rendo conto solo adesso. Il nostro lago non aveva mai brillato così, eppure alla luce delle sette di mattina il silenzio e il sole garantiscono un incanto di sonnolenza che lascia brillare, di dorato colore, l'intera scena, rendendo piacevole il fatto di dover aspettare.
Ho chiamato tutti, qui, in modo tale da poter avanzare le presentazioni per l'uomo che mi è vicino e per essere in grado, ancora una volta, di trovarli di nuovo tutti riuniti come un tempo.
Ne è passato fin troppo ma non mi sono perso niente.
Osservo il modo con cui Rais si guarda intorno e con cui cammina lungo quel tragitto, il confine dell'ovale lago, che io ho percorso più di una volta, reso vittima dei miei pensieri.
Vederlo inserito in questo contesto è come se mi permettesse di accorgermi che a questo luogo mancava qualcosa, ma ora che è giunta fino a noi finalmente è completo.
Questo è il suo posto, tra le mie strade, tra i miei ricordi.
Quando volge il capo mi vede sorridere ed è così che mi corrisponde, in un modo appena accennato. Non ama essere sdolcinato, quando invece il suo cuore è tanto romantico, ma non importa perché gli viene comunque impedito di farlo.
Dei passi ci raggiungono e non appena allontano gli occhi dal mio accompagnatore mi rendo conto che si tratta dei miei amici.
Issa, il caro gigante buono, è il primo tra tutti a sorridermi e spalancare le braccia. Mi viene da ridere vedendo la sorpresa negli occhi di Rais alla vista di tutti quei neri muscoli come pronti a schiacciarmi, ma quale male può farmi se non con la punta affilata della sua lingua?
«Si può sapere dove ti eri cacciato, eh? Quale partito e partito! Tuo padre non è neanche di ritorno e tu sei già qui!» Mi dice ridendo lui, una volta arrivato a me e lasciatemi delle profonde pacche sulla schiena che mi soffocano. Sono vittima della sua allegria e schivo per un miracolo il bordo del suo cappello di feltro.
«Mio padre non è ancora tornato?» Domando a quel punto, e i suoi occhi neri si fanno vispi quando si mostra nuovamente eretto.
«Ma sentilo... allora è vero che non ne sai niente.»
Evito di commentare, e fisso alle sue spalle.
Anche Ercole è in piedi, poco distante, con dipinto in volto un sorriso e al suo fianco, per mia sorpresa, c'è Cedric. Il solo ad aver notato la presenza della quinta figura sulla scena.
Dopodiché, nessun altro.
«D'accordo, Issa, mi hai scoperto. Non sono andato con mio padre» ammetto, volendo vedere fin dove questo omaccione possa spingersi con il pensiero.
Ora anche Ercole ha notato la figura silenziosa di Rais, ma per il musicista di tromba niente da fare.
«E allora si può sapere dove sei stato?»
Gli lascio qualche minuto per pensare, dopodiché sposto gli occhi verso Rais, chiedendogli di avanzare. Quando lo fa e mi raggiunge, la sorpresa raggiunge in un lampo lo sguardo di quel compagno, chiassoso, di bevute che ha assorbito, assieme agli alcolici, tutti i demoni del mio dolore, facendosene carico.
«Questo è l'uomo di cui ti ho parlato» lo informo, una volta che Rais è tornato al mio fianco, ricordandomi della nostra ultima conversazione in casa sua. «Te lo presento. Rais, Issa. Issa... Rais.»
Capisco che questa situazione non debba essere facile, per lui, da rielaborare.
Seduto alla sedia del suo soggiorno avevo promesso vendetta per Gyasi, giustizia a sfavore dell'uomo che mi aveva designato tanto dolore mentre ora è qui, al mio fianco, vicino a me. A rendere chiaro, in un simbolismo di parole inespresse, che tra noi debba esserci altro.
«Molto piacere di conoscerti, Rais» mormora piano, quasi attento alle sue parole.
«Il piacere è mio.»
No, non se lo aspettava ma sono fiero di essere riuscito a stupirlo. In fondo, è quello che mi aveva chiesto e ciò che si aspettava che facessi: trovare, finalmente, la calma dopo tutto il dolore e il pianto dentro cui ero affogato solo che, mi rendo conto, non si aspettava che accadesse così.
Ma la nostra storia è complicata, piena di fragile insicurezza, per questo è tanto bella.
Per questo so che, nonostante tutto il passato che Rais possa avere avuto, niente la può rendere paragonabile.
Sollevo il mento, attirando l'attenzione degli altri due sul fondo della scena, ed ecco che il resto del gruppo avanza.
Ercole arriva a noi, nella sua confusione di capelli di dread e maglioni al di sopra delle camicie di cotone grezzo, tenendo una mano in direzione di Rais.
«Ercole, piacere.»
«Piacere, Rais.»
Ultimo stadio. Il proprietario della terra su cui posiamo i piedi.
Lo fisso quasi a chiedergli come gli sia saltato in mente di arrivare fino a qui, ma senza la malignità che potrei avere avuto un tempo.
Con le mani nelle tasche dei jeans è pronto a darmi la sua risposta.
«Sono qui solo per dirti che io e Amy abbiamo litigato. Per questo motivo non è presente, non ha saputo la notizia quando Ercole l'ha comunicata alle coltivazioni.»
«Va tutto bene?»
Stringe le spalle, affossando ancora di più le mani, e poi guarda lontano il lago. Quando torna a Rais lo osserva in modo calmo.
«Piacere di conoscerti, sono Cedric.»
«Piacere mio.»
Già, evito di pensare a quanto possa sul serio esserlo e mi concentro su chi, invece, manca al mio desiderio di ritrovo.
«Come sta, invece, Lèa?» Chiedo a suo fratello, che di colpo è raggiunto dalla tristezza. Lo stesso si può dire di Ercole.
«È stabile. Ancora a casa di Ercole. Cerco di lavorare per pagarle le cure...»
«Potresti smettere di farlo e occuparti di lei. Te l'ho detto, la mia famiglia si occuperebbe di tutto» parte con il dire Cedric, forse marcando di nuovo un territorio già percorso.
Il gigante, da sotto l'ombra del suo cappello, inclina appena il mento nella direzione di chi ha parlato, senza rivolgergli davvero uno sguardo.
«Te l'ho detto, non voglio debiti.»
«Che cosa è successo?» Chiede invece Rais, rendendo evidente il fatto di non avergliene parlato. Non era certo stata una dimenticanza, ma avrei voluto tenerlo lontano da tutta questa storia. La serie dei miei passi falsi, ora, è resa evidente dalla spinta in avanti che richiede la sua domanda.
«Ci sono stati degli incendi, in questa proprietà» lo informa Ercole dei fatti, non esitando nell'andare avanti. «Si pensa si tratti della famiglia Lee.»
Inutile dirlo ma il volto di Rais ruota, lento, in direzione del mio, quasi a chiedermi per quanto tempo avrei voluto tenerglielo nascosto. E chi lo sa, forse per sempre. Tutto pur di toglierlo dalla situazione in cui ci troviamo ora, ma mi rendo conto che è troppo tardi.
Dunque diamo inizio a quest'ultima follia.
«Vuoi darci una mano?» Chiedo, guardando all'interno di occhi che brillano della tormentosa convivenza di segreti, sulle sponde del nostro silenzioso lago.
P.O.V.
Hasim
Neanche il cane muove la coda per niente. Mi sembra sia così il proverbio, uno dei pochi che ho imparato non appena mi sono trasferito con la mia famiglia in questo buco di città.
Neanche il cane. Muove la coda. Per niente. Ogni azione ha una spiegazione, così come la ha ogni punizione per quelle bestie, per quei lupi carnivori e selvatici, che mi hanno sbranato a morsi, strappando via una parte di me sui pavimenti lucidi della loro casa.
Sto camminando, arrancando dal dolore, con il moncherino del mio braccio stretto al petto. I denti serrati dalla rabbia di un ringhio che mi rende bestia furiosa proprio come loro, gli occhi iniettati di sangue e la pazienza che ha raggiunto il proprio limite.
Ammetto di aver avuto un momento di insolita follia, nell'accettare tutto quel denaro proveniente dalle loro tasche. Quelle banconote mi ridaranno indietro la mia mano? O mia sorella, che è il motivo per cui ho fatto tutto questo?
Poco importa delle loro promesse, adesso mi auguro quasi che non la trovino.
Per quanto sia ribelle, ossessionata dal pensiero di dover seguire le orme sbagliate che le ha lasciato quel folle di mio fratello morto, è pur sempre sangue del mio sangue, e a quelle bestie non la lascio.
Noi, il mio popolo, la mia famiglia, siamo soliti correggere i nostri errori dentro le mura di casa. Per questo motivo mio padre mi ha picchiato con la sua cintura tanto forte, sulla schiena, da farmi uscire il sangue. Mi stava punendo per aver lasciato scappare mia sorella, sarei dovuto essere la sua ombra, sapevamo che poteva fuggire... l'ho accettato, perché facciamo i conti con ciò che ci spetta. Se imparassero a farlo anche i Lee non avrebbero tanti problemi.
Figure tanto grandi, enormi, che incombono sulla città si sentono minacciati, o derisi nel proprio onore, da una persona tanto piccola come posso essere io, tanto da dovermi colpevolizzare alla stregua di mio padre... la sola differenza, è che adesso rido.
Di una risata strozzata, però. Una risata che si trasforma presto nel mio ringhio di bestia mentre continuo a tenermi stretto, al petto, il mio braccio sanguinante.
Un veloce bendaggio e qualche sutura improvvisata da parte del loro medico di cura aveva fermato l'emorragia del momento. Ad ora, invece, la velocità di una simile operazione è resa evidente dal dolore che provoca.
Striscio in avanti lungo i muri e mi accorgo di star tinteggiando i palazzi con una linea rossa scura.
Niente di nuovo. Questi intonaci hanno già assaporato il sapore del sangue ed hanno, anche loro, finito per essere voraci carnivori.
Mi auguro, per entrambi, che possiamo avere ciò che cerchiamo, dal momento che l'insoddisfazione è la vera fame eterna.
Mi trascino in avanti fintanto che non raggiungo il posto che mi ero prefissato. I suoi uomini lo anticipano, schierandosi a blocco dinanzi il portone da cui, da un momento all'altro, potrebbe uscire vestito del suo menefreghismo. Un muro di colossi e di appuntiti pettorali.
Se solo avessi un ago potrei bucare tutti i muscoli di queste guardie tarchiate che mi impediscono di raggiungerlo.
Prendo un profondo respiro, prima di usare tutta la mia voce, piegato in avanti dal dolore e rivolto così al pavimento disossato della via vecchia.
«Taaaigaaar...»
Sorrido nel trascinarsi della mia voce, avendo usato un tono canzonatorio per poter permettere a quello stronzo di uscire, con tutta sicurezza, dalla tana del suo viscido rifugio.
Ma poi mi rendo conto di dover per forza cambiarlo.
«Taigar!» Richiamo, quasi in un'ordine. Sto, anche io, richiamando il mio animale, perché anche lui in fondo altro non è. Per questo motivo, infatti, poco dopo si affaccia dal portone di questa pericolante casa nei suoi capelli lunghi e nel suo cappotto di pelle.
Le scarpe lucide, con le suola rosse, scricchiolano nel procedere lento dei suoi passi.
Zingaro, a tutti gli effetti. Squallido, nel suo masticare l'ultimo pezzo di carne rimasto conficcato tra i denti e sulla punta del serramanico che tiene vicino, mentre cammina in mezzo ai suoi colossi.
«Che cosa vuoi, Hasim?» Chiede con voce stanca, ruotando il coltello e finendo di ingozzarsi con quell'ultimo pezzo rimasto al vertice.
Non deve amarla cotta, la carne. Dall'angolo della bocca discende un rivolo di sangue e per un attimo i miei occhi lo seguono.
La bocca non ha perso il sorriso.
«Sono venuto giusto a dirti che sono fuori» commento, stringendo ancora più vicino il braccio, come a renderne evidente il motivo.
Anche Taigar sorride, mentre altri dei suoi tossici si affacciano dalle finestre di questo posto. Un luogo squallido, pieno di gente malata. Mi chiedo se anche mio fratello Gyasi abbia riposato sotto la sua ala.
«Peccato ti sia impossibile tirartene fuori, se la questione riguarda i Lee.»
«È con te che faccio affari, secondo loro conto. Dunque è tuo il compito di dire loro che non voglio più averci niente a che fare.»
«La gente chiude il contratto a loro servizio solo con la morte.»
«Quegli stronzi si sono già presi troppo, vedi di riferirglielo.»
«Hasim... non essere sciocco. Devono averti assunto per un motivo. Credevo perché fossi sveglio, non solo un disperato.»
«Sono abbastanza sveglio da capire che non me ne importa niente. Vi basta?»
Fronteggio ancora il suo sorriso, il leggero percorso del sangue lungo il mento...
Distolgo lo sguardo solo perché nauseato alla vista di ulteriore rosso e alla connessione inconscia che connette la sua lama, quel rivolo porpureo, alla mia ferita. Una fitta di violenza ed il colpo secco dello schiocco del mio osso. Ecco cosa sento, mentre Taigar mastica la carne e ne sputa via un pezzo per strada.
Non riesco a guardare e nonostante avverta la testa virarmi in capriole continue, a causa della scarsa medicazione, sollevo la testa in direzione dei tossici appesi come ragnatele dalle immense finestre della casa, finendo occhi negli occhi con un ragazzo dai capelli rossi.
«Che avete da guardare? Forza! Filate dentro» esclamo, ma sono in pochi ad ascoltarmi. Il rosso rimane fermo, ed è così che tocca a Taigar ribadire il concetto.
«Avanti, Oliver, rientra.»
Nonostante l'ordine impartito, mi lancia un ultimo sguardo prima di tornare dentro il suo buco e sparire per sempre.
Ottimo, almeno in questo modo non avrò spettatori quando mi deciderò a svenire sopra questo pavimento patetico quanto storico. Anche se, avendo chiarito il concetto, potrei quasi andarmene con una plateale uscita di scena.
Punto il dito in sua direzione, cercando di tenere ferma la sua figura nella rotazione continua di immagini.
«Ascoltami bene, zingaro. Dovrai far sapere a William Lee che mi tiro fuori, e che l'accordo tra di noi è saltato. Si trovasse qualcun altro per mettere a ferro e fuoco il mondo!»
«Questa è la tua ultima volontà?»
«Fanculo l'ultima volontà!» Esclamo, voltandogli la schiena e andandomene perché troppo stanco per controbattere ancora.
Dovrei trovare un medico e farmi visitare, poi tornare a casa e spiegare a mio padre parte di quello che è successo. Non è peccato, per un uomo, manifestare una malformazione. Per le nostre donne è tutt'altra storia, loro sono una merce, ma chi, in fondo, non lo è?
Anche io sono stato usato. Eccomi qui. Dannata commedia degli eventi, ad arrancare di nuovo, da solo, dentro un posto all'apparenza deserto.
Non riesco a tenere gli occhi aperti, e a malapena avverto ti stare per cadere, a causa della drastica discesa che caratterizza il percorso finale della via vecchia.
Tento di rimettermi in piedi, di darmi un contegno.
Sono sempre io, no? Le persone non dovrebbero vedermi così. Mi dipingo in volto un sorriso ma ormai ho gli occhi chiusi, lascio ai piedi decidere per i propri passi.
Nemmeno sto cercando, sul serio, un dottore. Il dolore mi ha portato alla deriva e all'assurdo pensiero che, forse, persino mio padre non accetterebbe il mio operato: vedendomi tornare a mani vuote, privo di mia sorella, mi picchierebbe ancora più forte. Sono stato il solo, di noi tre, ad essere passato sotto la sua cintura senza dire una sola parola. Gyasi piangeva sempre, protestava.
Non vorrei affatto sembrare come mio fratello morto, adesso. Per tornare da mio padre è ancora troppo presto. Per questo continuo a camminare.
Proseguo, avanzo, fin tanto che le forze mi consentono di farlo ed è nel silenzio più assurdo, nella lontananza con la città, che finalmente mi fermo.
Cado a terra ma mi accorgo, presto, che non è cemento. Si tratta di erba fresca, ha il sapore della pioggia. In qualche modo mi rigenera e veste, in sé, una purezza che sento non appartenermi. Come se fossi caduto dentro un sogno, io, mostro, e mi fossi appisolato sopra un letto candido con tutta la sporcizia che mi sento addosso.
Dovrei alzarmi, andarmene, ma di colpo mi è impossibile farlo: delle mani gentili mi stanno stringendo il viso. Mi accarezzano, tentano di assicurarsi che stia bene ed una voce dolce pare raggiungermi, chiedendomi qualcosa.
Non riesco ad udirla, il dolore sovrasta ogni cosa. Quello che vedo sono solo un paio di occhi chiari, di una sfumatura tra il verde e il celeste, ed appena qualche ciocca castano bionda illuminata dal sole.
Sorrido e penso, davvero, che questo sogno mi stia donando persino un angelo quando io non lo merito. Io sono carne. Io sono sbagli. Io sono bestia. Io sanguino.... mentre gli abiti di questa figura dolce sembrano essere troppo chiari, freschi come l'erba in cui riposo.
Le sue labbra rosee pronunciano un'ultima frase, anche questa otturata dal dolore, eppure ha il sapore di una rassicurazione ed è così che chiudo gli occhi, lasciandomi cullare dentro l'apoteosi di un riposo che non avrei mai pensato di potermi meritare.
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