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47- Zanne di serpe

P.O.V.
William

Un ritmico suono di tacchi alti batte contro i lucidi pavimenti della proprietà. Tic. Tac. Hanno la precisione di un orologio così come la lentezza dei miei pensieri mentre me ne resto seduto, con il mio calice di bourbon, sulla poltrona designata come mia postazione, riflettendo dinanzi la frammentata oscillazione delle fiamme nel camino.

Il fuoco sta diventando un prestigio. Qualcosa che solamente dentro queste mura veste l'ipotesi di un controllo eppure ruota, respira. Si agita ancora dinanzi ai miei occhi, quasi fronteggiandomi nell'illudermi di possederlo.

Avverto le sue lunghe dita laccate di nero scivolare contro lo schienale imbottito della poltrona, prima di raggiungere le mie spalle.

Bevo un sorso, fingendo che non mi provochi fastidio perché, in fondo, si tratta di uno dei più importanti collaboratori che tirano, e spingono, per far andare avanti questo posto.
Solo mio padre, dall'alto della sua magnificenza irraggiungibile, potrebbe avere il compito di ignorarla ma a me non è dato, per cui sono costretto a sottostare alla sua presenza, ammettendo con disgusto a me stesso che molte delle volte risulti sopportabile.

Giunge dinanzi il mio sguardo con il suo tailleur aderente, i lunghi capelli lisci e tinti di biondo legati in un alta coda che lascia il tempo ad un'onda, fermata dalla lacca, di generarsi austera sulla sua testa slanciandole ulteriormente il viso ovale, conclusosi con una sferzata di purpureo rossore sulle labbra a rendere maligne le sue espressioni ed il suo viso.

«Ti stavo cercando» mi sibila addosso, facendomi sorridere della sua rabbia.

«Non mi sono mai mosso.»

Questo è il mio posto, quando tutto va a rotoli, ed il fatto che lei non lo sappia la rende inevitabilmente distante da ogni tipo di conoscenza.
Semplici affari, tra di noi, e qualche inevitabile incomprensione. Siamo anche molto simili, per certi versi, anche se io sono famosi per il non lasciarmi ingannare.

«Desideravi qualcosa, Dalia?»

La sua coda si muove all'indietro non appena inclina la testa sollevando il mento, a fronteggiare i miei occhi infuocati che la osservano dal basso. Quando prende posto al mio fianco lo fa con passo lento, desiderosa di prolungare l'agonia della nostra reciproca presenza.

«Volevo parlarti di quella telefonata. Sai bene quanto si siano complicate le cose.»

Già, lo immaginavo.
Per questo motivo guadagno un sorso di pazienza, bevendo esausto dal mio bicchiere cristallizzato.

«Ma certo... per chi non ti conosce è davvero impossibile non credere alla tua ingenuità» commento sincero, ricordando bene le sue doti attoriali ed il modo in cui mi avevano stregato, la prima volta che ci siamo conosciuti.

Avevo davvero creduto che fosse una povera ingenua, capitata in una situazione spiacevole quando poi si era reso evidente il suo escamotage solo per sfuggire all'interrogatorio della polizia, mi aveva del tutto conquistato.
Era riuscita persino a raggiungere le lacrime... una situazione alquanto spiazzante.

«Ripetimi il nome dell'uomo.»

«Non me lo ha rivelato, ma aveva una voce simile alla tua» professa, fissandomi poi di rimando mentre picchietta le dita contro la rotonda testa del bracciolo della poltrona.

Blocco la mano dall'esortarmi a bere, ulteriormente, un altro sorso di veleno, fissando divertito la sua affermazione delirante.

«Stai pensando sul serio che abbia effettuato io, quella telefonata?»

«Non è ciò che ho detto, ma se sei tu a insinuarlo...»

«Allora ripetimi ciò che vi siete detti quel giorno.»

Dalia sospira, fissando con me le fiamme mentre incrocia le gambe e per un momento rimango a fissare la nudità della sua pelle scoperta, arrivando a bloccare di nuovo il braccio, sostenente il bicchiere, a mezz'aria.

«Affermava di chiamare da un telefono pubblico e sono certa che fosse così, sentivo il gracchiare della cornetta in sottofondo ed i suoni del traffico.»

«Non poteva essere opera della polizia?»

«So riconoscere una trappola.»

«Di questo non posso esserne troppo certo» punzecchio, avendo aspettato il momento di utilizzare questa battuta dall'attimo in cui è arrivata ed ecco servito Attila, proprio sopra il tavolo degli sbagli, pronto ad essere divorato morso dopo morso dalla nostra ferocia.

Sì, l'incantatrice di serpenti stringe i denti, e nella sua caricatura di immagine idealizzata di perfetta cattiva immagino colare, in un attimo, anche una goccia di sangue dall'angolo della sua bocca, avendo serrato troppo tra i denti la lingua per evitare di rispondermi.

Ciò non avviene ma l'averlo anche solo pensato mi lascia da solo a sorridere, permettendomi di rendere conto del potere che possiedo dinanzi questa semplice collaboratrice.

«Che altro?» La esorto.

«Aveva detto di avere il telefono di Rais tra le mani, che lo aveva trovato per strada la notte in cui la polizia lo aveva rapito e che, per questo, non poteva essere stata diffusa alcuna informazione su di noi.»

«E tu cosa gli hai detto?»

«L'ho ringraziato.»

«E ti ha creduto?» Domando, ridendo.

«Sì, lo ha fatto. Come hai detto anche tu... la mia ingenuità inganna le persone» mi dice, portando a segno stavolta un suo punto, nella lotta a nome di Attila.

Guadagno un profondo sospiro e mi piego in avanti, avendo perso del tutto l'umore di bere.
Dinanzi al fuoco, il vetro del cristallo, con dentro l'ambrato e liquido contenuto, brilla rilasciando una prismatica proiezione a terra di colori vivaci, in netto contrasto con il buio della sala.

«Dobbiamo scoprire chi è stato a chiamare.»

«No, non ci importa di questo. Dobbiamo sapere che fine ha fatto Rais e quanto ha rivelato alla polizia.»

«Non dirà nulla.»

«Come fai a esserne tanto sicuro? Solo perché avete scopato qualche pomeriggio nella tua stanza?»

Non amo Rais, né gli uomini, l'ho fatto solo perché l'ha chiesto mio padre ma sentire parlare di lui così mi riempie di collera e non ne conosco il motivo. Forse, una parte di me in fondo lo rispetta.

«Non direbbe mai niente perché crede nel nostro lavoro molto più di tutti noi. Non hai idea della vita che ha avuto e della merda che ha dovuto affrontare per arrivare fino a mio padre. L'aver scopato insieme non c'entra niente, non gli garantisce protezione... puoi dire lo stesso di Attila?»

«Attila non ci ha traditi» sibila, testarda nel credere alle sue stesse bugie.

«Come puoi ancora pensarlo?»

«Perché è così. Era bravo nel suo lavoro, per questo hanno deciso di farlo fuori.»

«Questo è ciò che hai raccontato al ragazzo, durante la vostra chiamata?»

«Mi ha chiesto di Attila ma non gli ho detto niente, solo del matrimonio. Gli ho fatto credere che fossimo tutti convinti del suo tradimento. In questo modo, se fosse della polizia si sentisse al sicuro sarebbe anche esortata a farlo uscire alla luce del sole.»

«Noi siamo sicuri che lo sia.»

«Non abbiamo uno straccio di prova.»

Sospiro e tento di fare ordine ai pensieri, massaggiandomi la tempie con la pressione delle dita.
Avere a che fare con i deliri di una donna innamorata non è il mio forte. Inoltre, Dalia, nonostante sia a me decisamente più grande, in certi momenti si comporta come una ragazzina e non come la trentenne che è.

Testarda almeno quanto elegante. Grintosa tanto quanto fastidiosa.
Il suo commercio nella pelle di serpente mette un evidenza sul carattere infimo e strisciante di cui lei stessa si veste.

Non è solo difficile un confronto con lei: è del tutto impossibile, almeno fino a che la ragione non avrà la meglio in lei, attraverso un esplicazione concreta dei fatti.

«Se sono prove quelle che vuoi allora gli starò addosso, contenta? Mi rimetterò sulle sue tracce e ti dimostrerò che avevi torto.»

I suoi verdi occhi chiari restano immobili dinanzi la mia affermazione, vincolati nell'oblio della perdizione solo all'interno del nero alone delle pupille, un pozzo dentro il quale precipita.

«Se ciò riesce a rientrare nella tua agenda di impegni...»

«Non preoccuparti, Dalia, farò in modo che sia così. Cercare persone sta diventando la mia seconda professione, lo sai?» Commento, alzandomi dalla sedia per potermi allontanare dal calore del fuoco che mi condanna al pensiero dei miei doveri.

Affondo le mani nelle tasche dei pantaloni blu gessati, rimanendo a fissare la luna che si riflette nello specchio d'acqua dolce del nostro lago.

Mi è sempre piaciuto quello specchio d'acqua.

Il ticchettio dei suoi passi torna a colpire il pavimento in marmo solo per brevi istanti. Non si allontana troppo dal fuoco, preferendo piuttosto mantenere tra noi la giusta distanza che la possa favorire nell'approcciarmisi.

«Che cosa intendi?»

«Hasim, il ragazzo a cui ho chiesto di appiccare il fuoco nel South Side, mi ha chiesto di trovare sua sorella scappata di casa.»

«Non dovresti impegnarti tanto, non sta facendo un buon lavoro.»

«Questo lo so da solo, è poco preciso. In questo modo il nostro messaggio non sarà tanto chiaro. L'ultima volta ha quasi rischiato di uccidere una ragazza. Solo la fortuna ci ha risparmiato dal passare dalla parte del torto!» Esclamo, voltandomi verso di lei per cercare il suo consenso.

La trovo a sorridere.

«Un'affermazione del genere lascia a desiderare...»

«La polizia ha le mani legate, lo capisci? Non ha prove effettive a nostro carico per poterci incastrare, ma cosa succederebbe se ci associasse anche solo alla morte di una persona? Cosa sarebbe successo se quella ragazza fosse morta e la polizia, indagando, avesse scoperto gli incendi sotto nostro nome? Sarebbe andato tutto a puttane, ecco cosa!»

«Per questo, poco fa, ho detto che non dovresti ricompensare il ragazzo, prima di un'altra buona azione...» commenta, e la tranquillità con cui parla mi esorta a sbuffare e a tornare con lo sguardo al lago.
Le mani si posano di piatto contro l'infisso della finestra, in modo tale da permettermi di sbilanciarmi in avanti e ragionare.

«Un cane che non si sente accudito finisce per morderti» ammetto i miei dubbi, ricevendo la sua freddezza.

«Ne abbiamo molti di cani da accudire, lui è solo uno dei tanti.»

«Troverò sua sorella, ma dovrò impartirgli anche una lezione...» ragiono, trovando la soluzione dentro un'antica abitudine familiare.

Sorrido, dandomi la spinta indietro e tornando occhi negli occhi con questa serpe dorata.

Dalia mi osserva senza capire e sono certo che la mia tranquillità le incuta la giusta paura.

«Che cosa hai intenzione di fare?»

«Mandalo a chiamare.»

In un primo momento non mi da ascolto ma la mia sicurezza la costringe a muovere degli stentati passi. Mentre la vedo allontanarsi sollevo le maniche della mia camicia bianca, arrotolandole e riflettendo sul fatto che, molto presto, questo candido tessuto finirà per rovinarsi.

Scorro le dita lungo il laccio della fondina ascellare che permette il riposo dei miei due revolver in oro laccato, brillanti nella notte come il mio mezzo sorriso.
Stasera non mi occorreranno, perché i metodi da utilizzare saranno più grezzi, così come è stato grezzo il suo approccio.

Credevo di potermi fidare di un poveraccio ma sono finito per scoprire che ai cani affamati non si dovrebbe lasciare un piatto troppo prelibato di carne: finirebbero per rovinarlo, non essendo capace di gustarsi il sapore, ed è proprio questo ciò che è capitato con Hasim. A lui ho lasciato un piatto succulento di fronte agli occhi ma la sua furia, la sua rabbia nel distruggere qualcosa ritenuto tanto prezioso e che al contempo l'ha ospitato negli anni, ha finito per rovinare tutto.
Cosa ne è rimasto? Semplice cenere, è vero. Ma cosparsa in un modo disordinato, nella mancanza di rispetto che si potrebbe avere nel lasciar volare nell'aria le ceneri di un corpo morto.

Possibile che non riesca a capire quanto sia importante la precisione, nel nostro lavoro?
Quanto la razionalità e la correttezza siano temi principali del nostro contributo a Dio, il santissimo Lee del gerarchico albero piramidale?

Dannazione, eppure dovrebbe. Lo avevo ritenuto sveglio, ma un uomo che si lascia comandare dai vizi, dagli istinti, non dovrebbe essere mai rispettato.

Per la prima volta mi accorgo di quanto il bordello a nome di mia madre sia un posto discutibile per reclutare gente eppure, nonostante le parole di Dalia, ammetto a me stesso che è il solo rimasto ormai.
Un tempo vivevamo dentro l'epoca dell'oro, dell'agiatezza, della semplicità. Branchi di persone venivano alla nostra porta per supplicare un lavoro, protezione, ma il mercato in movimento, l'imitazione da parte dei altri klan, ci aveva portato ad essere bravi, sì, ma non più i soli.

Per farci largo tra gli avversari dovremmo dimostrare di essere migliori di loro, incapaci nel compiere degli sbagli ed ecco il fatto. Quell'uomo ha infangato il nostro nome ed ora la deve pagare.

I tacchi di Dalia sono, ancora una volta, l'avvertenza del suo arrivo, non più tanto solitario, ora.

Scorro lo sguardo verso le figure al suo fianco, riuscendo a sorridere nello scorgere Hasim che, giunto fino a me, viene costretto da uno dei miei uomini alle sue spalle ad inginocchiarsi al mio cospetto.

Pelle scura, sguardo irrequieto. In casa ho una pantera nera alquanto affamata ma non ho più nessun cibo prelibato da dargli. Come ricompensa, però, devo lasciargli il modo di rendersi conto dei propri sbagli.

«Sai perché ti ho fatto chiamare qui, Hasim?» Domando, iniziando a camminare in direzione del tavolino sopra il quale, solitamente, abbandono parte dei miei oggetti personali.

Portafoglio, chiavi, un piccolo tirapugni ed un serramanico. Non è troppo affilato quest'ultimo, purtroppo, per cui sono costretto a setacciare ancora la zona, a caccia della mia arma.

«Ho fatto qualcosa di sbagliato, signore?»

«Si potrebbe dire così, sì» rifletto ad alta voce, cercando ancora nel limitrofo intorno.

Dalia, invece, analizza me, rimanendo in piedi dietro lo sventurato e cercando di carpire i miei pensieri.
Mh, vorrei... vorrei tanto un coltello, sarebbe in grado di procurarmelo?

Sollevo le sopracciglia rimanendo a fissarla, stringendomi poi nelle spalle facendole capire che il mio amato non è sufficientemente appuntito ed è chiaro che tra di noi ci sia una connessione dal momento che riprende a camminare, stanca di tutto questo, e raggiunge il suddetto coltello, presente dall'altra parte della stanza.

Chissà perché ne teniamo uno in soggiorno... forse per situazioni come questa.

Senza farmi notare troppo dall'uomo, con un gesto della mano le chiedo di tenerlo ancora un po' per me ed è comica mentre rimane dietro di lui con quella lama tagliente pendente tra le cosce.
Le dita la fanno oscillare, tanto da creare un lieve fruscio contro il vestito scuro, eppure Hasim non si accorge di niente, rimanendo a fissarmi.

«Sai cosa dice la Bibbia riguardo al peccare?»

«Non sono cristiano, signore.»

Sorrido. «Questo nemmeno io, ma credo nella divinità di mio padre e credo nella completa potenza del suo volere.»

Hasim non commenta niente, il che mi lascia stupito dinanzi la sua improvvisa quiete.
L'avevo ritenuto un simpatico sbruffone che adora fronteggiare e fare a pezzi chiunque incontrasse. Sicuramente una persona curiosa ma ora mi delude un'ulteriore volta nel non chiedere approfondimenti.

«Vuoi sapere cosa dice la Bibbia, Hasim? Credo che fosse il vangelo di Marco.»

«Mi dica, signore.»

La mia bocca si spalanca con ironia, divertita anche solo dai pensieri che la mia testa è in grado di produrre ma quando mi rialzo con la schiena in piedi, essendomi sporto nella sua direzione per esortarlo alla parola, tento del tutto di mascherare il mio buon umore perché un momento del genere ha bisogno della sua sacralità.
In fondo, stiamo parlando di una sorta di legge, e si sa bene quanto profondamente la nostra gente sia rispettosa della giustizia.

«Letteralmente, il vangelo dice che: "Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che esser gettato con due piedi nella Geenna. Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue."»

Con le mani incrociate dietro la schiena, ho preso a camminare nel citare questi gioiosi passi e devo ammettere che la mancanza di mutazione, dentro il suo sguardo, è qualcosa di inconcepibile e attraente.

Qualsiasi uomo sarebbe inorridito dinanzi ad un pensiero che sta per rendersi concreto eppure Hasim no, lui preferisce tacere. Ciò garantisce due sole alternative: o è tanto stupido da non concepire, nella mente, altra parola a eccezione del suo Maometto oppure è tanto coraggioso da non lasciarsi intimidire.

Ammetto che la seconda delle due è l'ipotesi più attraente, perché lascerebbe anche a me la possibilità di credere che non mi sia sbagliato del tutto, nei suoi riguardi.

«C'è una cosa che non possiamo accettare, qui da noi, ed è l'imprecisione. Sai perché? Perché è data da una mancanza di interesse e quindi da una erronea collaborazione. Capisci cosa intendo, Hasim? Ho sbagliato ad assumerti?»

«No, signore.»

«Allora perché hai compiuto tutti quegli sbagli?» Sussurro, arrestando il mio passo e arrivandogli di fronte.
Mi siedo sulla punta dei piedi, persino, in modo tale da poterlo fissare dritto nei suoi neri occhi.

Affascinanti, immobili. Stolti e schivi.

Non vorrei davvero davvero compiere questo estremo gesto ma è stato lui a obbligarmi ed io non ho scelta.

Sospiro e torno in piedi, dinanzi i suoi occhi ed il suo sguardo calmo.

Un cane che sbaglia deve imparare dai suoi errori, in modo tale da rimediare.

«Posa la mano destra per terra, Hasim.»

Lo stupore gli fa spalancare gli occhi ma nessuna parola di supplica esce dalla sua bocca.
Non appena mi vede tendere un braccio verso Dalia e afferrare la lama, che passa proprio dinanzi ai suoi occhi brillanti, protesta e tenta di fuggire ma le mie guardie lo afferrano da dietro, costringendolo alla prostrazione dinanzi a me come un ignaro fedele che sta per ricevere il suo giudizio divino.

Impartire punizioni non è mai facile, ma è il compiuto di un capo.
Non importa che lingua parli l'uomo, il colore della sua pelle, il fascino del suo carattere forte.

L'unica cosa che importa è la grandezza dei suoi sbagli, trattati diversamente a seconda del danno da punizioni sempre più forti, ingigantite dalla gravità.

Il palmo della sua nera mano scivola, nel sudore, contro il marmo bianco della casa producendo dei fischi di suono che assomigliano a grida che la sua voce non emette.
Il suo corpo, invece, si agita. Le guardie riescono a trattenerlo a malapena mentre io mi passo il manico del coltello rigirandolo in una mano, indeciso per l'angolazione da compiere.

Dall'alto vedo la sua testa correre da una parte all'altra, noto il suo fiato rompersi, la sua schiena diventare più rigida quando i muscoli sono costretti, da terze persone, a tendersi in avanti verso di me, e la sua figura non è che una chiazza scura al mio cospetto. La macchia di sporco sopra un tappeto.

Mi auguro di fare veloce. Prolungare l'agonia è una noia per entrambi.

Attendo che i suoi occhi si indirizzano verso di me, verso l'alto, come si fa al cospetto di un re per poter compiere la mia mossa: ruoto veloce il manico del coltello e poi affondo di lungo, inginocchiandomi a terra e trafiggendo di taglio l'epidermide.

Il sangue zampilla a fiotti, mi bagna la camicia, ma l'osso non è ancora rotto, mi occorre spezzarglielo.

Tra cascate di sangue, pongo il suo braccio su una mia gamba sollevata e compio veloce la mia mossa: l'osso si rompe e avverto la sua voce soffocare un suono che è un grido silente, comandato dal dolore.

Devo dire, sul serio, di ammirare la sua professionalità, o qualunque sia l'onorevole costrizione che lo obbliga a non dimostrarsi penoso, ai miei occhi. Permette al tempo di trascorrere più velocemente, e garantisce alla mia lama di tornare a lui senza problemi, tagliando l'ultimo strato di carne.

Ecco, finalmente la mano è separata dal suo corpo, e dal moncherino del suo braccio zampilla ancora il sangue ma, stavolta, senza macchiarmi le vesti.

Torno in piedi nell'attimo in cui la sua testa si direziona di nuovo verso di me, ed i suoi occhi da cane, profondi e scuri, mi direzionano addosso uno sguardo che è rabbia allo stato puro.

Mi abbevero di lei, della scintilla che sfavilla nei pressi dell'iride e mi domando in che cosa muterà tutto questo odio.
La devozione sarebbe l'unica scelta possibile se davvero tiene al resto del suo corpo. La Bibbia parla chiaro, eppure ai sordi non è udibile, come non lo è alle persone che non vogliono sentire la parola di Dio.

Non un solo urlo. Non una sola supplica. Hasim cade a terra, dentro il suo lago di sangue, e lascia soli e coscienti sulla scena le due guardie, me, e Dalia che osserva il tutto senza dire una sola parola.

Espiro con forza, e con le mani sporche di sangue mi sistemo sulla testa i capelli che erano sfuggiti alla trappola del gel, cercando di nuovo compostezza nei miei modi.

«Come ti ho detto, devo trovare sua sorella» commento, rivolgendomi a Dalia come se tutto questo non fosse successo e la nostra conversazione potesse tranquillamente riprendere a scorrere senza ostacoli. «Però, occupandomi di Attila, sono certo di non poter fare tutto per tempo. Che ne dici? Mi dai una mano?»

Non avrà certo Attila da inseguire, ma la sorella di questa nera pantera, perché chi meglio di una donna capisce, e comprende, i segreti di un'altra?
Per quanto, forse, profondamente diverse sono certo che il loro possa essere un inseguimento succulento e allentante, per quanto non possa dire lo stesso del mio.

Ovunque si sia nascosto quel codardo di Attila sarà mio compito cercarlo, ed assicurare anche a lui la sola giustizia di questo posto.

Il sangue di Hasim sparso sul marmo di casa è la firma alla mia sentenza.
Un patto, inciso nel fuoco, che promette di estinguersi solo con la morte.

P.O.V.
Halima

Un dolore acuto mi assale, percorrendomi l'intero braccio. A causa di esso sono costretta a svegliarmi del tutto, rendendomi conto di essermi appisolata dentro il magazzino dei Garcia.

Fuori è notte ma nei campi vi sono ancora i lavoratori che coltivano la terra. Forse anche Issa.

Dovrei andare da lui per poter vedere alla luce delle lanterne che cosa è successo alla mia mano: il dolore è come se corresse in ogni mio nervo e nelle dita si addensasse sui polpastrelli, pulsando feroce. Al polso, poi, avverto come un bracciale di dolore che presto mi fa perdere la percezione delle mie dita destre.

Rifletto sulla possibilità di essermi addormentata in una posizione strana, avendo così caricato il mio intero peso su quel solo palmo ma poi, nel buio di questo magazzino, vedo un paio di gialli occhi, all'interno del più completo nero.

L'iride ha una sfumatura verdastra e non perde alcun movimento del mio corpo.
Immobile, restano fermi ad osservare la paura dentro i miei pensieri come farebbe l'apoteosi di un male, al confine tra il sonno e la veglia.

Quando la luna viene denudata dalla sua gonnella di nuvole, la luce filtra nella stanza quel tanto che basta a lasciarmi scorgere il corpo di quei gialli occhi.
Ed è in questo modo che mi accorgo che si tratta di un serpente, intrecciato in se stesso e con la testa sollevata in aria, incuriosito dal mio sonno come dalla mia presa di coscienza.

Che sia stato lui a mordermi?

Per un istante non riesco a pensare ad altro, vedo solo quei verdi occhi ed il dolore alla mano aumenta, quasi come se il veleno di quella bestia fosse stato in grado di farmene perdere la sensibilità, come se un mostro me l'avesse del tutto tagliata.

Urlare aiuto è impossibile perché questo animale sembra quasi in grado di ipnotizzare, e in un attimo capisco come debbano essersi sentite le vittime di ogni suo pasto.
Attratte, terrorizzate e congelate dinanzi la freddezza dei suoi occhi.

«Va tutto bene?»

Una voce maschile desta il mio torpore, ma non si tratta di Issa.
Volgendo all'indietro lo sguardo mi accorgo della presenza del poliziotto alle mie spalle.

Dietro di lui, il portone del magazzino è aperto e lascia entrare la fresca brezza notturna, il rumore delle mietitrici, il suono delle lanterne che oscillano.

«Si... tutto bene» mormoro, per poi tornare con lo sguardo al serpente che, ora, fissa entrambi.

Samuel, così mi pare che si chiamasse, non dice una sola parola ma poco dopo, con la coda dell'occhio, gli vedo tendere la mano verso di me, in modo tale che la afferri.

«Avanti, usciamo. Sono creature pericolose, è meglio starne alla larga.»

Di questo ne sono certa ma prima d'ora non avevo mai avuto il pensiero di entrare a contatto con il loro veleno o avevo creduto di arrivar loro tanto vicina.

Deve essere scivolata da qualche cespuglio per raggiungermi qui, quello che è certo è che non l'avevo sentita arrivare. La stanchezza mi aveva raggiunto in un attimo e mi aveva condotto all'incoscienza in soli pochi secondi.

Afferro l'aiuto che mi viene teso ed insieme al poliziotto riesco a tornare all'aria aperta.
Quando mi volto indietro verso il magazzino, però, noto che del serpente non vi è rimasta traccia.

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