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30- Anime disperse nel limbo

P.O.V.
Francis

Certe volte occorre solo lasciarsi tutto alle spalle.
Dimenticare e ripartire.
Far finta di non avere un passato.
Pare essere la scelta migliore per riuscire a respirare come si conviene.

Afferro con entrambi gli indici il colletto della camicia, riflettendo sul fatto di indossare raramente qualcosa di bianco, per poi verificare che anche le maniche, al di sotto del nero maglione che copre tutto quel candore, siano apposto.

Le notti stanno divenendo più gelide nel South Side, specie dentro questa vecchia casa, poi, piena come è di spifferi. Occorre vestirsi pesanti. Il verificare, poi, che l'intero completo sia in ordine è una forma di controllo che può associarsi al rifare il letto, ogni mattina.

Il colletto è apposto e anche le maniche lunghe racchiuse, al termine, con i bottoni dei polsi. Anche il maglione nero aderente non ha problemi al pari dei pantaloni neri, sui quali cade la lunghezza lasciata scoperta dalla parte superiore del vestiario, concludendosi con un paio di scarpe lucide.

Non mi sono mai aggirato con abiti più comodi in questa casa per non dimenticarmi di stare svolgendo un lavoro, facendo quindi primeggiare serietà e compostezza ma più io risulto impostato più il tossico che tengo sotto controllo perde qualsiasi tipo di freno.

Controllarlo sta divenendo difficile così come prevederlo.
Il metadone, fungendo da oppiaceo, sta mostrandoci i sintomi della sua presenza in maniera preponderante.

Sto riflettendo su quella lista infinita di controindicazioni quando, a un tratto, un colpo mi distrae.
Ruoto la testa distanziandomi dallo specchio e con passi veloci il corpo avanza in direzione delle scale, così da affacciarsi sul soppalco e fissare giù.

Rais è caduto a terra, dopo aver picchiato contro un mobile. Il viso è contratto dal dolore mentre una mano è posata sul fianco e addosso... non porta la maglia.

Scendo le scale in modo da raggiungerlo ed i miei passi lo portano a sollevare leggermente la testa, verificando per un attimo la mia presenza.

«Scusami, non volevo svegliarti.»

«Non mi hai svegliato. Avanti, alzati.»

Non voglio ancora toccarlo per cui è il caso che sistemi questa cosa da solo, con le sue forze.

«Dammi solo un attimo e lo faccio...» sussurra con voce rotta, forse dal dolore. Altro non posso fare che aspettarlo ma è come fissare l'agonia di una formica al sole, sotto il riflesso di una lente.

Dopo il metadone è tornato debole e la magrezza del suo corpo non è certo favorevole. Soffermo gli occhi sulla sua pelle bianca solo per un attimo, mentre lo vedo rialzarsi, dopodiché allontano lo sguardo.

«Metti anche qualcosa addosso» sibilo, risentito della sua totale comodità mentre sfoggia dei neri pantaloni della tuta larghi, risvoltati sui fianchi in modo da rendere evidente l'elastico.

L'ho notato l'attimo in cui l'ho visto rialzarsi ma ora non vedo che la sua affilata e bianca mano, posata sul mobile al mio fianco.

«Non voglio, fa caldo.»

«Non fa caldo, ci sono nove gradi. È la sudorazione del metadone.»

«Non mi importa, non lo faccio» esala, appoggiandosi anche con i fianchi al mobile a caccia di appoggio.

Osservo con una furia fuori controllo il suo volto distrutto, gli occhi chiusi che permettono alle lunghe ciglia superiori di unirsi a quelle di sotto e non dico altro.

Semplicemente avanzo verso la sua stanza, frugando tra i vestiti che Attila gli ha dato, per essere poi costretto a tornare sopra, verso la mia.

Provo l'istinto di fumare ma non lo faccio: fumare mi ricorda Gyasi e, al momento, sono arrabbiato con lui.

Afferro dalla valigia un maglione nero e torno giù, diretto verso il mio spiacevole coinquilino che è rimasto immobile al suo posto. Sbatto contro il suo petto la maglia, senza toccare la sua pelle, osservando poi con che disgusto fissa la stoffa.

«Io non la metto, odio il nero, mi fa sembrare in lutto.»

«Sfortunatamente dovrai accontentarti, non è il caso di fare gli schizzinosi.»

«Specie perché nel tuo armadio non hai altri colori...»

«Mettila e chiudi la bocca.»

Riesco a ritrarmi per tempo prima che la sua mano catturi la stoffa, retrocedendo nel tempo che gli occorre per indossarla.

Nonostante la poca differenza di altezza tra di noi, voltandomi noto che il maglione non aderisce affatto al suo corpo, arrivando lungo fino alle gambe e rimanendo più vuoto all'altezza delle spalle.

È più sottile di me, questo non c'è dubbio, ma mi soffermo poco sul fatto quando lo vedo grattarsi la pelle.

«Cosa succede? Hai escoriazioni?» Domando in fretta, a caccia di nuovi sintomi che possano far richiamare in un attimo Nerissa fino a noi. Una sensazione di prurito potrebbe essere sarebbe tra quelli, non essendo auspicabile in questa fase di guarigione.

«Solo per il materiale. Te l'ho detto, è troppo caldo.»

«Non importa, lo indosserai. Hai fame?»

«Si torna alla tortura del cibo?»

«Oggi sei polemico.»

«Sì, beh, sai, questa merda altera anche l'umore.»

L'ho notato.

Non gli stacco gli occhi di dosso mentre lo osservo camminare irrequieto lungo la stanza a passo lento, soffermando l'attenzione sui quadri alle pareti riportanti cartografie di paesaggi.

Prendo un profondo respiro e mi direziono verso i fornelli, sentendo il suo sguardo addosso.

Il cambiamento d'umore non lo ha reso solo più scontroso ma anche più perfido, attento a ogni mio passaggio. È come avere una belva in casa, pronta a morderti alle spalle in poco meno di un secondo di distrazione.

«Ad ogni modo non durerà molto, la medicina ha delle controindicazioni ma procede per fasi.»

«Per fortuna, magari rende sopportabile anche la tua presenza.»

Sorrido mentre gli sono di spalle, in qualche modo partecipe della provocazione che ci riporta di nuovo ad affrontarci. Un po' come era stato durante la nostra conoscenza. Lo stare in guardia, partecipi l'uno delle mosse dell'altro. In qualche modo mi distrae, riportandomi al mio ruolo.

«Dici sia il caso che la provi anche io, allora?»

Il silenzio che ne consegue maschera la sua sorpresa e mi volto su un fianco, per fronteggiarla.

«Hai sul serio fatto una battuta?»

«Tu per quanto credi di voler essere ancora in questo stato? Mi costringi a reinventarmi.»

«Giuro che è l'ultima cosa alla quale crederei.»

«Fai come vuoi ma cerca di rendere breve il tempo di guarigione. Oggi usciamo per andare alle riunioni. Attila non ci seguirà.»

«Perché? Hai chiamato Dalia e lo hai rimesso in riga?»

Direi che più o meno è andata così. Ora quel traditore, anche del distretto, se ne sta con la coda tra le gambe a fissarmi con rancore dalla strada. Sollevando lo sguardo riesco a vederlo, con le mani disperse nelle tasche, e mi domando quando riesca ad alternare, con il riposo, il suo turno dal momento che non ha alcun compagno nel cambio di ronda.

«Sì, credo sia andata in questo modo.»

«Perché? Ha mandato tutto a monte per amore, non è una scusa valida?» Domanda alle mie spalle, costringendomi a fissarlo con scetticismo ma non ne viene contagiato. Mi osserva di rimando, con le mani anche lui nelle tasche dei propri pantaloni, nella comodità dei suoi abiti privi di forme. «Che cosa c'è? Io lo farei.»

«Mh, che romantico» lo prendo in giro, tornando a preparare qualcosa per la colazione.

«Dì quello che vuoi ma faresti lo stesso.»

«Direi che sono argomenti troppo impegnativi, per questa mattina.»

«Sarà, stanotte non ho chiuso occhio. Non c'è più differenza tra le ore.»

Recepisco le sue parole e a seguito i suoi passi mentre riprendono a camminare in cerchio lungo la stanza.

P.O.V.
Ercole

Un sussulto mi raggiunge, da questo baratro che assorbe ogni tipo di suono, e nel dormiveglia comprendo trattarsi di un gemito di dolore.

Mi sveglio di soprassalto nonostante tutto il corpo sembri farmi male, vista la posa in cui mi sono concesso il riposo, e apro gli occhi di scatto vedendo il viso di lei contratto.

Alcuni capelli sono caduti sul suo viso per cui, con mano leggera, tento di allontanarglieli senza provocarle alcuna sorta di ulteriore dolore nonostante il suo corpo pare urlarlo.

Quando le sue palpebre, lente, si aprono il mio sorriso arriva a raggiungermi le orecchie, data la felicità di vederla di nuovo cosciente al mio fianco, ma viene spazzato via dall'urlo seguente che proviene dalla sua bocca.

Il suono è acuto, delirante, in grado di perforarmi il cuore fino alle lacrime mentre il suo corpo si contorce in avanti, lasciandola inconsciamente seduta e dipingendo il suo collo di un rosso accesso, in grado di mettere in evidenzia le arterie.

«Lèa! Lèa, va tutto bene sono qui, siamo insieme. Ti ho portata via, non c'è niente, va tutto bene!» Tento di calmarla, posandole le mani sulle spalle in modo da convincerla, ma lei si ribella.

Con un gesto mi allontana di colpo quasi fosse disgustata dalla mia presenza. In un primo momento la cosa mi fa precipitare, lasciandomi a pensare quanto meriti la sua rabbia, ma poco dopo torno a lei con più forza.

«Lèa....»

«Lasciami non respiro! C'è troppo fumo! Lasciami

«Lèa

Entrambe le mie mani sono finite a cornice del suo viso nel tentativo di allontanare il suo sguardo vincolato all'orrore che ha subito, in modo di riportarlo a me, nei miei occhi.

Riusciamo a osservarci con reciproca coscienza e l'anima sembra ritornarle apposto tanto da farle sollevare una mano, di fronte al mio sguardo, fino alla propria guancia che accarezza con dita tremanti.

Vedo l'istante esatto in cui gli occhi le si riempiono di lacrime. Come l'istinto di lotta ceda il passo alla debolezza e, poco dopo, non è una sorpresa ricevere il delirio del suo pianto.

Adesso è il momento giusto perché il cuore mi si spezzi, mentre tento di stringerla tra le braccia provando a consolarla sul fatto che andrà tuto bene, in un modo o in un altro.

«Ercole, lasciami... lasciami, non fissarmi.»

La richiesta è ridicola da esprimere, ne siamo coscienti entrambi perché sono stato io a trarla in salvo dal fuoco, nonostante l'avessi abbandonata ad esso e non ha idea del modo in cui mi senta adesso.

Quello a cui pensa è solo a ruotare la parte di viso profondamente danneggiata in modo tale che io non la veda e la tenerezza di un simile gesto mi ricongiunge al bisogno di consolarla al massimo delle mie forze.

«Se finirai per ritrarti di nuovo mi farai arrabbiare.»

«Tu non puoi arrabbiarti.»

«Mi sono arrabbiato con Amy, posso esserlo anche con te» constato ma la cosa non pare convincerla. Infatti non volta il capo, rimanendo laterale con la testa e la mia mano ancora intrappolata tra il suo viso e la fodera del cuscino, mentre analizza l'intorno.

«Dove siamo?»

«A casa mia. Siamo tornati da poco dall'ospedale.»

«Issa...»

«È già a conoscenza di tutto, non devi preoccuparti.»

La avverto deglutire nell'attimo esatto in cui pronuncio simili parole che la portano a tornare nei miei occhi, con più incertezza questa volta.

«È stato il fuoco, non è vero? Che cosa mi è capitato?»

«Hai riportato numerose ustioni. Alcune di esse sono permanenti.»

«Quelle sul mio viso?»

Annuisco lievemente, in un'affermazione difficile da esternare di fronte ai suoi occhi.
Scoppia a piangere e più che per l'informazione so che il motivo è il dolore che sente in ogni punto del corpo. Il dottore ha chiaramente spiegato, mentre era incosciente, anche dei danni aggravati sui nervi dunque le sue percezioni di dolore, calore e pena devono essersi centuplicate più di quanto immagini.

Sta passando l'inferno eppure... lacrima soltanto.

«Lèa, andrà tutto bene, mi prenderò cura di te. Vedrai che supereremo tutto.»

«Voglio andare da mio fratello.»

Immaginavo che potesse avanzare una richiesta simile ed è involontario il gesto che compio di storcere le labbra, di fronte a una simile richiesta. Niente le sfugge, però, e richiede presto spiegazioni.

«Che cosa? È successo qualcosa?»

«Le cure all'ospedale costano, Lèa. La tua assicurazione non è riuscita a coprirle del tutto. Non posso portarti da tuo fratello perché lui non si potrà occupare di te, dovendo trovare un lavoro per poterle coprire. So che sarà difficile affrontare questa cosa insieme ma fidati di me... farò di tutto purché tu stia bene.»

Al termine del mio discorso, gli occhi di Lèa si chiudono, lasciando andare una lacrima lenta come ultimo proiettile in grado del tutto di uccidermi.

P.O.V.
Halima

Dietro la tazzina da caffè lo osservo seduto sulla poltrona, a leggere il giornale. Ormai posso contarle sulle dita di una mano le volte in cui non gli ho visto sfoggiare il suo amato cappello, persino presente sulla sua testa mentre riposa in casa, e stavolta sono fiera che questa sia una di quelle rare occasioni. L'evento mi permette di osservare, con attenzione, la sua espressione, lo sguardo preoccupato che possiede in modo tale da domandarmi che cosa, non riguardante il benessere di sua sorella, possa preoccuparlo così.

«Devo trovarmi un lavoro nuovo e non c'è niente di decente» commenta assorto, dandomi risposte.

Sollevo le sopracciglia sorpresa, tentando di capire questa novità. «Un lavoro nuovo?»

«Esattamente. Devo pagare le cure in ospedale di mia sorella, l'assicurazione non è bastata.»

Ticchetto le dita contro la porcellana del piattino di questa piccola tazza, cercando di trovare ispirazione dalla lenta ritmica.

«Potresti fare lo spazzino...»

«Già provato, nessun posto libero.»

«Allora il becchino.»

«Niente male come lavoro.»

«Non giudicarmi. Si muore troppo facilmente nel South Side. Avresti senz'altro un lavoro.»

«Mi rifiuto di stare tra i morti.»

«Chi è povero non può permettersi di essere schizzinoso.»

«Ma può usare l'ingegno e perdere parte del suo vuoto tempo a con continuare a cercare.»

L'apostrofo rosa del suo cinismo mi lascia un sapore amaro in bocca di fastidio che tento di mascherare ruotando il cucchiaio contro le pareti ocra di questa tazzina, al solo fine di distanziargli gli occhi dalla carta. Non mi concede questo lusso, rimanendo concentrato sui suoi affari per cui sospiro pesantemente, arrendendomi all'evidenza.

«Che grado di istruzione hai?»

«Che intendi?»

«Mi hai già risposto. Almeno la licenza media la possiedi?»

«Mia sorella non ha mai conseguito un diploma eppure lavorava.»

«Allora ecco fatto: vai a lavorare alla Garcia.»

Issa solleva gli occhi dalla carta per potermi osservare con un misto di confusione che sembra macchiarsi di sgomento. Mi stringo nelle spalle in risposta, sollevando il cucchiaio dalla tazza.

«Che cosa c'è?»

«Lo sai. Sono amico di Francis.»

«E quindi? Anche tua sorella lo è.»

«Sì, ma lei è più amica di Cedric.»

«A quanto pare questo Cedric, al momento, è il male minore.»

«Lo dici solo perché vuoi allontanarmi da Francis.»

«Fai come vuoi, ma l'hai detto anche tu. Francis starà via, quindi cosa ti importa di quello.»

La frase è stata pronunciata fin con troppa diffidenza, evidente portatrice del mio rancore nei confronti dell'uomo preso in analisi ma cosa posso farci se la sua presenza non mi va giù. Ho motivi anche io per essere arrabbiata e di certo non sta a Issa privarmi di un simile diritto.

«Tu che cosa farai?» Mi domanda a un tratto, destandomi dai pensieri.

«Che intendi?»

«Mi hai detto di avere sedici anni. Come farai con la scuola?»

«La scuola...» commento, abbassando il capo. «La scuola l'ho lasciata. Vuoi essere polemico anche su questo?»

«No... se vuoi scappare dai tuoi genitori, cosa che mio malgrado approvo visti i tuoi motivi, andare a scuola è pericoloso, ti troverebbero subito.»

«Quindi?»

«Quindi se accetto il lavoro ai Garcia ti porto con me.»

Spalanco gli occhi dinanzi a questa novità. «Come, scusa? E cosa ci vengo a fare?»

«Non ne ho idea, ma sono sicuro che qualcosa troverai. A costo di stare sola in un angolo, dove mi è possibile vederti.»

«Non puoi essere serio...»

«Mai stato più serio di così. Per fortuna anche la tua pellaccia è nera. Il sole nel South Side picchia troppo forte.»

Mi è impossibile pronunciare anche una sola parola mentre Issa riprende a leggere, con tutta la tranquillità che la lettura comporta.

P.O.V.
Samuel

Sono completamente fuori dai giochi, affatto partecipe di qualsiasi piano stia progettando Francis, intento a vedere dal basso la finestra della casa nel piano che solitamente occupano, quello del soggiorno, domandandomi cosa diavolo stia succedendo.

Non avrebbe dovuto sapere della mia quasi futura moglie e non solo perché, conoscere di lei, lo avvantaggia di una carta in mano nei confronti di Carlail ma perché gli offre uno straordinario motivo per agire senza la protezione della legge e delle regole, proprio come avevo fatto io.

Ed io avevo sbagliato. Esistono dei precisi ordini di comportamento per chi agisce come me sotto copertura: integrarsi è fondamentale, così come costruirsi una nuova vita ma mai, mai, farsi coinvolgere.

Lo avevo fatto mio malgrado. Mi ero lasciato avvincere dal fascino di quella donna pericolosa, per quanto distante dalla vetta che avrei voluto raggiungere, e mi ero reso parte dei suoi macchinosi intrighi decisamente complessi.
In un primo momento era stato amore, poi ci aveva raggiunti reciprocamente il dubbio e subito dopo, ecco... la totale perdita di controllo.

Non presentarmi a quell'altare sapevo che avrebbe comportato i suoi rischi ma avevo comunque deciso di non farlo, lasciandole il chiaro segnale della mia dipartita dopo che tutto era divenuto fin troppo chiaro.

Questo a questa aveva portato? A quanto pare a niente. Costretto come sono a congelarmi fino alla punta delle dita su questa strada, ad ore alterne, per poter controllare uno spacciatore, sì, ma più che altro un giovane ragazzo fuori controllo, ingaggiato dalla polizia, dal fare cose pazze.

Ecco tutto. Il solo risultato che possiedo è il desiderio di scappare dalla parte opposta di questa città per poter fare le cose a modo mio.

In fondo... so con precisone chi sono gli uomini che lo controllano. La famiglia Lee sventa come un nome tra insegne e neon ma Carlail ancora non sembra deciso. Vuole delle prove, delle conferme e si aspetta che sia questo tossico ad offrirgliele.

Purtroppo per lui, io non ci sto più. Inizio a camminare in direzione della centrale con lo scopro di aprirgli finalmente occhi e orecchie, una volta per tutte. Ho avuto fin troppe ore di ronda per pensare a che discorso riferirgli chiaramente ed è così che, a passo deciso, riesco ad avviarmi di nuovo in direzione del distretto.

Quando le luci bianche e blu dell'insegna riportante il nome del dipartimento di polizia mi raggiungono mi sento quasi a casa, ma non è niente in confronto all'odore di poliestere dell'ufficio che si mescola con l'inchiostro dei timbri sulle carte di permessi e di vieti, al suono delle telefonate continue ai centralini, alle voci che si sovrappongono.

Entro nell'ufficio di Carlail senza bussare, ricevendo come risultato nemmeno un suo piccolo sobbalzo. Semplicemente un'alzata di capo da parte del più importante capo di polizia nel raggio di chilometri, come a mostrarmi un suo strano disprezzo e il pensiero già avuto di vedermi tornare qui, scontento, un giorno.

«Sì, McGuire?»

«Voglio tornare sotto copertura.»

La penna si posa sul tavolo, depositata dalle dita immobili di Carlail che, senza emozione, torna a fissarmi negli occhi rimanendo per un lungo istante in silenzio.

«Sei impazzito per caso?»

«Ho degli affari in sospeso. Devo tornare.»

«Sanno. Che. Sei. Della. Polizia» mi dice a denti stretti, con una fiamma negli occhi finalmente visibile.

«Non mi importa. Non hanno ancora scoperto la mia identità e quello che è trapelato è solo un coro di voci. Nessuna certezza. Possiamo inventarci una storia d'appoggio in modo da farmi rientrare.»

«Perché me lo stai chiedendo? Cosa accidenti vuoi fare?»

«Rais non parlerà, signore» affermo con certezza, fronteggiando il suo disgusto. «So che non mi crede ma...»

«Francis troverà il modo.»

«È solo un ragazzino, come può dargli tutta questa fiducia?»

«Perché lui non ha tradito le mie aspettative come hai fatto tu!»

Le sue velenose parole mi arrivano addosso, attaccandosi a una divisa che non porto.

«Non ha detto queste parole, in sua presenza.»

«Perché nutro una vera ammirazione in merito al tuo lavoro, e non volevo certo nascondergliela. Quello che non volevo trapelasse è anche la delusione provata nel darti fiducia.»

«Io ho conseguito il mio compito, signore. So che ci sono i Lee dietro tutto questo.»

Carlail si sporge in avanti, con i gomiti appoggiati sul tavolo, e nel gesto il materiale della sua divisa blu si arriccia in un milione di pieghe.

«Dimostramelo.»

Immaginavo una richiesta simile.

«Mi faccia tornare dentro e le porterò le prove che servono.»

Sghignazza in un un modo rauco, arreso, a metà con un ringhio.

«Sei davvero pazzo, Attila. E non sei nemmeno riuscito a uscire dal personaggio che hai rivestito. Vuoi spiegarmi questi capelli? Questo bisogno che provi di tornare indietro? Ecco cosa penso, caro Attila: senza il tuo lavoro non sei niente per cui vuoi trovare disperatamente un motivo per renderti utile. Non prenderla tanto male, ragazzo, non fare così. Io ti voglio bene ma ti sto vedendo andare a fondo e la cosa non mi piace.»

«È stato lei il mio istruttore all'accademia, signore.»

«Me ne ricordo bene.»

«Ogni mio errore è una sua mancanza.»

«Ahh, ogni cosa che puoi dirmi non mi ferisce. Non tornerai indietro tra di loro, McGuire, mettiti l'anima in pace. Sei un bravo agente, comportati come tale.»

«"Torna a fare le ronde in città" vuole dirmi?»

«Occupati anche di portare qualcosa di nuovo ai ragazzi. Le provviste là dentro non sono eterne» commenta, strizzandomi un occhiolino, per giunta, che mi fa scattare all'indietro preso dalla rabbia.

Se è così che stanno le cose...

Non tornerò indietro ma indagherò per conto mio. Ho ancora la chiave d'accesso per i server quindi mi basterà tornare, nelle ore di pausa dalla ronda, alla casa d'appoggio che mi è stata fornita. In essa avrò modo di controllare con un binocolo quello che avviene nella loro via e al contempo cercare informazioni in remoto sul computer, connettendomi al loro database.

Come strada è la più infima ma la sola che, sfortunatamente, mi ha lasciato per cui altro non mi rimane.
Spingo il corpo indietro, facendo forza sulle mani, e ritorno sui miei stessi passi, ripercorrendoli uno ad uno per poter trovare il coraggio di riprendere una vecchia questione tra le mani.

P.O.V.
Francis

Calibrando, di nuovo, le lancette dell'orologio al polso, recupero il tempo che vi si era incastrato in mezzo a un momento di rottura, per poi discendere in soggiorno lanciando uno sguardo alla sua stanza.

Lo trovo seduto sul materasso, nella sua posa classica; con i piedi appoggiati all'alto basamento del letto, i gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate di fronte alla bocca, per permettere ai denti nella distrazione di strappare le cuticole. Con lo sguardo, invece, è disperso oltre la finestra della sua stanza a guardare in alto, come l'ho già sorpreso fare una volta.

Non so cosa ci trovi di tanto attrattivo in questi tetti decadenti e l'un l'altro uguali. Forse è per il tramonto che vi si nasconde dietro, come adesso, in grado di illuminare il cielo in sfumature infinite tra l'arancio e il rosato.

«Sei pronto? Dobbiamo andare.»

In risposta, non ricevo neanche una parola. Semplicemente lo vedo alzarsi dal letto, con fare stanco, facendo mostra del mio maglione mentre addosso porta ancora la tuta.

Recupero le chiavi di casa e faccio strada, precedendolo per le scale mentre sento alle spalle il procedere dei suoi passi stanchi. Arrivati all'ingresso si china ad allacciarsi le scarpe, attirando il mio sguardo sulle sue suole.

Il ricordo della via vecchia e del suo paio appeso mi raggiungono in un contraccolpo ed indietro ricevo anche i suoi rotondi occhi, non appena china la testa indietro per potermi guardare con cinismo, trasmettendo il messaggio di aver interpretato la direzione dei miei pensieri.

Nella porta, giro un'unica mandata ed è così che siamo presto fuori, in una strada deserta. Ho aspettato tutto il giorno che Attila se ne andasse, tentando di capire la cadenza dei suoi orari, e finalmente ecco qui. Una scelta rischiosa, questo è certo, ma non volevo avere a che fare con il suo viso al momento.

«Dove è Attila?» Si fa traduttore dei miei pensieri l'uomo che prende a camminarmi vicino.

«Se ne è andato, per il momento, ma non preoccuparti; tornerà.»

Mi fermo dopo aver compiuto solo pochi passi, vedendogli quindi fare lo stesso mentre tiene le mani nelle tasche. Distendo una mano, indicandogli la strada ed il mio desiderio di farlo avanzare per primo, in modo da controllarlo.

Non si oppone ma semplicemente, con mia soddisfazione, prende a camminare. Altro non vedo che la sua nuca scoperta e le ossa che sorreggo il cranio, data la calvizie della sua pettinatura, nel principio di buio di questo tramonto, ed in un attimo ricordo il giorno in cui Samuel lo ha condotto qui.

Anche allora ero alle sue spalle, intento a camminare per vedergli raggiungere la nostra meta, con una rabbia dentro che, al momento, si è solo direzionata altrove.

Qualcosa tra di noi è cambiato come è cambiato nella postura del suo corpo, o nel modo che ha di approcciarmisi. Forse, l'eroina lo rendeva più fragile, debole e contratto in sé stesso ma tornato vagamente lucido ecco che mi si ripresenta, di nuovo, dinanzi, l'uomo che avevo incontrato la prima volta, ricco di provocazione e di velato distacco.

Vivere con il suo cambiamento d'umore non è affatto facile ma nemmeno io devo essere un coinquilino tanto semplice da comprendere.

Meglio che non lo faccia, che non mi capisca. La cosa mi permetterebbe di avere più possibilità di parlargli con professionalità, in futuro.

«Fingi di non sapere la strada?» Gli domando non appena lo vedo svoltare verso destra.

«Possiamo andare da Oliver?»

«No, cammina.»

Esausto del mio controllo, getta la testa all'indietro mostrando, nel buio e di profilo, la sporgenza del pomo d'Adamo per un attimo, prima di tornare dritto a fare strada.

Prima d'ora non ero mai stato in un centro di comunità ma immagino che siano tutti uguali e che regni un'odore e un colore su tutti gli altri.
L'odore è stranamente quello del caffè macinato mentre il colore, con mio orrore, è uno sbiadito verde menta che ha un che di ospedaliero.

Non ho idea di come possa essere rassicurante in un simile posto fatto di sedie di plastica in cerchio ma non è di mio interesse. Posso semplicemente avvicinarmi al tavolo dove è presente un piccolo buffet, appoggiandomi ad esso per poter osservare con più distacco possibile la tremenda riunione che ci aspetta.

Rais sembra pensare lo stesso, non appena si accomoda a una delle sedie con più posti liberi al proprio fianco, quasi augurandosi che quelle sedute non vengano presto riempite.
Nell'aula sono presenti altre otto persone, tra cui una donna particolarmente in carne dai capelli grigi, pullover giallo e occhiali da vista squadrati, che si approccia nel sorriso esplicito di una chiara capogruppo.

«Buonasera a tutti, sono felice che siate tornati. Come vi sentite? A chi va, per primo, di parlare? Leonard, inizi tu?»

Per sua sfortuna, le sedie vicino ai suoi fianchi finiscono, ben presto, per essere occupate da altre persone che, con un piccolo ritardo, si trascinano poco dopo dalla porta alla riunione.

Mi isolo completamente in me stesso, non volendo rendermi partecipe delle loro storie e anche Rais pare farlo.
Nella lontananza gli vedo abbassare gli occhi fino alle mani intrecciate, in quella posa che ho imparato esprimere un suo momento di riflessione, e di totale isolamento.

Nessuno di noi ascolta una sola parola e, in questo silenzio mentalmente imposto, mi raggiungono milioni di domande.

Casa sua deve mancargli fortemente se tenta, in ogni modo, di tornare da lei ad ogni possibile occasione così come deve mancargli Oliver, l'unico dei suoi affetti. Eppure, fino a che punto se non è esortato a vendere i suoi capi per raggiungerli?

Potrei fare leva su qualcosa, decidere che passo compiere in direzione di una sua possibile confessione e spero quasi che mi venga gratuitamente offerto quando la donna, con il solito sorriso di compiacenza, si mostra docile nel chiedergli se vuole parlare.

«No, signora Obraian, non me la sento ancora. Mi perdoni.»

Tutta questa gentilezza non so da dove proviene e mi porta quasi a sbuffare, sul mio posto, come un toro inferocito o uno spettatore poco convinto.

La mia scontentezza, però, non attira alcuno sguardo ed è così che la riunione procede, con la capogruppo che non si demoralizza affatto.

«Non preoccuparti, Rais, sarà per la prossima volta. Tu, Liam, vuoi dirci qualcosa?»

Sto quasi per tornare ad isolarmi quando la voce incerta del ragazzo intervistato riempie l'aria con delicatezza, vietandomelo.

«Non ho molto da dire della mia vita, signora Obrain.»

«Questo non è importante. Parlaci di qualcosa che ti riguarda. Ti è successo qualcosa di bello, ultimamente?»

L'attenzione della sala è rivolta a quel ragazzo snello e piuttosto alto che, con le braccia intrecciate al petto, si scioglie stranamente in un lieve sorriso.

«Sì, ho conosciuto una persona.»

Una simile risposta mi farebbe isolare del tutto se non fosse complice del magnetismo che questo ragazzo riporta.

Il suo viso ovale è incorniciato da dei mossi capelli castani in grado di addolcirne i tratti, forse, ma al contempo di nasconderlo.

«Questa è una cosa molto bella» commenta la Obrain, sedendosi più comodamente sulla sedia e incastrando le mani unite, come in una preghiera, tra le gambe. «E dimmi, come si chiama la ragazza?»

«In verità... si tratta di un ragazzo.»

«Oh! Non lo sapevo.»

Come risposta è alquanto sciocca ma, in fondo, la sorpresa lascia il tempo alle persone di dire solo cose insensate.

«Non si preoccupi.»

«E come lo hai conosciuto?»

«È di qui, l'ho incontrato spesso per strada ma... temo che non ricambi, insomma non so se sia omosessuale.»

«Hai provato a confessare i tuoi sentimenti?»

Liam, il ragazzo, ride leggermente in un tono nervoso.

«Ecco, io non saprei proprio come farlo... mi ha regalato questo bracciale, immagino che possa dire qualcosa ma può essere solo un segno di amicizia.»

Lascia scorrere sui polpastrelli il nero cordone in pelle che circonda il suo polso, in un mezzo sorriso più tranquillo, ed è solo per un caso se gli occhi scorrono fino a Rais, sorprendendosi di quello che trovano.

Di colpo si è come irrigidito, fissando con una sorta di stupore quell'oggetto all'apparenza fin troppo economico il che non mi sfugge, così come l'occhiata che lancia in direzione di un Liam ignaro.

«Credo proprio che glielo domanderò» esordisce a un tratto il giovane, con un mezzo sorriso che la Obraian ricambia.

«Sì, Liam, credo che sia giusto.»

Quando la riunione termina in un coro di voci e di strilli di sedie trascinate, tento di raggiungere Liam per rivolgergli la mia domanda quando la capogruppo si pone di fronte a me... ed è solo per la consapevolezza della chiusura di queste porte se non la trascino, di peso, di lato per impedirle di ostacolare il mio compito.

Inoltre, Rais è ancora seduto sulla sua sedia immobile, come a riflettere, ed è ancora sotto il mio visivo contatto quindi, per il momento, non ci sono problemi.

«Mi scusi, posso domandarle una cosa?» Già avanza la signora, ricevendo la mia più artificiosa cortesia.

«Prego, mi dica pure.»

«Per caso lei è venuto qui con Rais?»

«È così.»

«Molto meglio lei di quell'uomo tetro che l'ha scortato lo scorso giorno...»

Sorrido apertamente, dinanzi la sua costatazione. «Di questo sono d'accordo con lei.»

«Mi è più facile dire a lei quello che penso di Rais, nonostante non abbia quasi mai parlato durante le riunioni...»

Attendo in silenzio le sue parole, cercando di interpretare la loro rotta, prima che la attraversino.

«Ecco, vede, io credo che Rais sia un'anima dispersa. Mi spiego meglio. Vede, molte persone vengono qui esortate da altre, alcune invece vengono solo per trovare conforto nell'ascoltare la somiglianza di altri problemi ma nonostante Rais non sembri essere qui di sua volontà non prova, in alcun modo, a combattere questa situazione.»

Vorrei dirle che l'ultima volta è riuscito a sfuggire dalla finestra del bagno eppure non vorrei deludere la sua anziana saccenza, rimanendo quindi in ascolto.

«Credo che si trovi come in un limbo, dentro il quale non sa bene cosa fare. Le sue condizioni sembrano più stabili. Anche esteticamente pare più in forze, eppure... non ha una ragione per continuare a lottare. Capisce cosa intendo? È perso. Questo è quello che volevo dirle: se ci tiene che non si faccia più del male gli dia una ragione per combattere.»

Si allontana dopo queste semplici parole, lasciandomi in un apparente stato confusionale che viene rotto, però, solo dalla vista di Liam poco distante. Accorro fino a lui con discrezione, lanciando un'occhiata a Rais per verificare che non mi stia vedendo ma pare anche disperso, come afferma la Obrain, fissando il vuoto con vacuità.

«Liam, scusami se ti disturbo ma vorrei farti una domanda...»

La sorpresa della mia presenza lo spiazza, forse non avendomi notato agli angoli di questa stanza, eppure non gli evita di parlare.

«Dimmi pure.»

«Puoi dirmi il nome di quel ragazzo di cui hai parlato poco prima? Così, per verificare se lo conosco o meno.»

«Si chiama Oliver.»

Sorrido, forse troppo malignamente, decidendo per la prima volta nella mia vita che in fondo una bugia non può fare certo troppo male.

«No, mi dispiace. Avrei voluto aiutarti ma non lo conosco.»

Un vero peccato, sono poche le persone che conosco davvero.

E mentre cammino alle spalle di Rais poco dopo, in strada, è questo a cui penso, a quanto poco una persona si possa conoscere e a quanti validi motivi si possa avere per esitare.
Forse l'Obraian ha ragione, forse è davvero disperso nell'incertezza di un profondo baratro tra la vita e l'incoscienza, in punta di piedi e sporto verso l'abisso ma io sono la mano che lo trattiene, che può decidere se lasciarlo per sempre cadere o trarlo in salvo.

Se mio è il compito di offrigli una ragione per combattere lui dovrebbe, in cambio, darmene una per cessare di esitare. Solo in questo modo potremo andare avanti, nell'abisso o sul terreno, rompendo per sempre questo gioco di equilibri che ci tieni in bilico, tra il non avere e l'immaginare.

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