18- Figli del vento
P.O.V.
Rais
Ogni persona trovatasi costretta ad andare avanti nella propria vita tende a dimenticare, in un remoto angolo del cervello, ogni evento negativo capitatole. Per questo della mia infanzia sono solito ricordare solo le intere giornate passate di fronte a qualche finestra.
Non cercavo niente in particolare quei giorni, in quei vetri. Semplicemente osservavo. La forma delle nuvole, i volti di chi mi passava davanti, i compagni che avevo affianco e lo facevo sempre racchiuso in me stesso, con le ginocchia sollevate al petto, proprio come adesso.
Un modo come un altro per isolarmi e per vivere con più distacco, in solitudine. Senza rendermi partecipe in prima persona di tutte le cose, riuscivo a trovare soluzioni migliori a problemi evidenti.
Per esempio, la suora che si occupava di noi non si era affatto accorta di quanto Oliver venisse maltrattato dagli altri bambini e nemmeno dell'abitudine che avesse Jude di rubare nella mensa.
Credo che quest'ultimo sia stato persino incarcerato per furto mentre cosa dire di Oliver? Farsi picchiare è una sua macabra abitudine dalla quale non riesce a sfuggire, nemmeno tentando di lottare con tutte le forze.
Prima i ragazzi dell'istituto, poi il padre quando si erano ritrovati e aveva scoperto che il figlio si iniettava eroina in vena e ora i suoi clienti. Salvarlo sta diventando sempre più impossibile come lo era redimere quella suora che si occupava della nostra istruzione.
Nonostante fosse suo il compito di guidarci secondo cristiani propositi, era disinteressata a tutti noi e ci trattava con la sufficienza tale che può avere solo chi ti ritiene inferiore. D'altronde, eravamo un popolo senza radici, senza legami o affetti.
Negli anni che ho vissuto protetto dalla sua ala non ho mai osato giudicare alcun lato del suo carattere, perché troppo piccolo per farlo, ma capivo, già da allora, quanto fosse sbagliato il suo comportamento e contorta la visione che aveva della vita e dell'amore.
Non confido più nella chiesa da tempo, non credo al paradiso che ci attende nell'offrirci una nuvola soffice come non credo nell'inferno, dipinto nella sua famelica bocca gigantesca di enorme drago pronto a sputare fuoco. Per questo motivo, non ho mai voluto soffermarmi troppo sul pensiero di ciò che ci aspetta e del nostro corpo che torna ad essere materia.
Molti poeti saprebbero offrire una visione senza dubbio più tenera di un simile evento ma io non sono mai stato bravo con le parole, né mai ho avuto la capacità di rendere tenera una situazione cruda.
Da sempre troppo drastico, mi trovo solo adesso a interrogarmi sul luogo nel quale possa ancora sopravvivere Gyasi e sul motivo per cui Francis non sia riuscito a dimenticare, rispetto a quanto compiuto da me, gli eventi violenti accaduti nella sua vita.
Prima del nostro incontro faccia a faccia ho chiesto di lui. Mi sono informato sulla sua storia, ascoltando le voci della città ed ero giunto al nome del ragazzo morto a causa di un overdose, lasciando un fratello e una sorella oltreché due genitori.
Era stata la prima volta che mi rivolgevo direttamente alla gente del mio quartiere in merito a qualcosa che, per quanto indiretta, mi riguardasse personalmente e scoprire tutti i particolari della vita del ragazzo morto lo aveva reso, nella mia testa, terribilmente reale. Non c'era stata clemenza come non la dimostra avere Francis in me, incolpandomi per quanto è stato.
Alla vita ho sottratto un ragazzo circondato da un'intera famiglia di affetti, spedendolo nello stesso buco nero che ormai mi ha inghiottito del tutto.
La consapevolezza di essere un immorale danno è ciò che mi consente di isolarmi adesso, sul letto di questa grigia stanza, in modo da fissare fuori dal vetro e non provare più niente. Le gambe addossate al petto, i piedi vestiti, per ironia della sorte vista la cromia di questa stanza, anche essi dal colore grigio dei calzini in cotone sintetico e lo sguardo diretto all'esterno. Ho trascorso così intere giornate, a dimenticare, ed ora eccomi tornato di nuovo.
Avverto la porta del piano inferiore aprirsi ma non distolgo lo sguardo dal tetto spiovente della casa di fronte, osservando il filo dell'alta tensione ospitare una linea infinita di piccoli uccelli.
Sorrido, pensando che si trovino lì a riposare solo per il calore generato dal loro appoggio. Nessuno di loro sembra sapere che la stessa corrente che li riscalda finirà per danneggiarli, un giorno, essendo ormai entrata nel loro corpo come un tumore eterno. La quotidianità del loro soggiorno ospita l'ingresso di quel male silenzioso e traditore che finirà per distruggerli.
Anche io, lanciando le scarpe oltre il filo di ingresso della via vecchia, ricordo di aver provato un'improvvisa sensazione di benessere nell'aver trovato, finalmente, una casa, e proprio come loro non ho visto arrivare quel dolore letale che ormai mi stringe in una morsa. Sono suo schiavo, non posso sfuggirgli.
Ancora meno da quando ha assunto una tangibile presenza e si è reincarnato in questo paio di occhi smeraldo che giungono fino a me, facendomi allontanare gli occhi dai vetri e dall'esterno.
Al suo fianco ha una giovane donna dai capelli lisci, di un marrone ramato, vestita come è dello stesso ipotetico camice bianco che la scorsa notte mi ha visitato.
Sì, deve essere lei. Riconosco il sorriso di gentilezza di chi ti ritrova cosciente dopo averti visto a pezzi, fino a poche ore prima.
«Ciao, Rais, io sono Nerissa, un'infermiera. Come ti senti?» Probabilmente ci siamo già incontrati, persino in precedenza alla nostra triste serata. Ha dei modi gentili, mi piacerebbe possedere il suo stesso sorriso indulgente e risponderle con tranquillità, eppure taccio, rimanendo in un silenzio spiazzato. «Ricordi cosa è successo ieri notte? Sono venuta qui da voi, mi sono assicurata che stessi bene.»
«No...» mormoro, sollevando gli occhi da lei, sedutasi sul letto per recuperare l'occorrente, e osservando il mutismo di Francis, in piedi a pochi passi.
«Non importa, non ci sono problemi. Credo che lo saprai, sono venuta per farti un prelievo. Posso?»
Allontano gli occhi da Francis per osservare quelli marroni di Nerissa e capisco, in un attimo, che non è solo un'infermiera.
Ci sa fare con quelli come me, la sua voce induce alla calma e il suo viso trasmette la dolcezza che molti di noi non conoscono.
«Fallo e basta, Nerissa» sibila Francis dalla sua postazione, tranciando di netto il mantello di dolcezza che Nerissa mi aveva posato addosso, inserendosi all'interno di questa scena con una cattiveria che risulta, solo dalla lentezza con cui ha inclinato la voce, velata.
«Se me lo dici con quel tono, Francis, non faccio niente.»
«E allora come vuoi, l'ospedale è pieno di infermiere.»
«Questo è vero. Perché hai chiamato proprio me?» Gli domanda, dopo aver preso il cordone e aver imbevuto un buffetto di cotone nel disinfettante.
Volge la testa, aspettando una risposta mentre tiene ancora gli oggetti tra le mani. Francis la osserva e non dice niente. Tanto le basta.
Torna a dedicarmi attenzioni, posando il cordone sul letto per avere libera una mano.
«Puoi sollevarti la manica?» Mi domanda a voce bassa, cercando di escludere il terzo spettatore presente. Eseguo quanto richiesto, sollevandomi la maglietta lungo il braccio in maniera lenta, provando ancora molti dolori.
Nerissa è distratta, non mi osserva ma non appena la manica è risalita e la pelle è scoperta si blocca per un attimo, fissando l'interno del mio braccio. Resta in silenzio, con il cotone intrappolato tra il pollice e l'indice della mano destra mentre con la sinistra mi stringe e analizza gli ematomi, affatto con sguardo scientifico.
Pare smossa da un'emozione che le fa serrare la bocca in una linea dura e la porta ad esitare nel procedere.
Quando lo fa, riuscendo a riprendersi, sfiora la mia pelle con il cotone in una delicatezza estrema, nel tentativo di non farmi del male.
Prima d'ora non ho mai ricevuto carezze o dimostrazioni d'affetto, specie da una perfetta estranea. Oliver mi ha stretto in più di un abbraccio ma solo nel tentativo di non vedermi crollare a pezzi mentre questa donna... quasi arriva alle lacrime mentre mi sfiora, e me ne domando il perché.
Chi è? E perché Francis ha scelto proprio lei? Specie sapendo che mi avrebbe trasmesso tutto questo affetto.
Non appena prende l'ago si mostra decisa ma la vena ormai è difficile da far emergere. Ne sono la prova i piccoli fori di punture che ho tra le nocche, per cui nonostante il laccio emostatico le è quasi impossibile.
«Lascia, faccio io» sussurro, nel peggiore sketch comico che esista, afferrando dalle sue mani l'ago e occupandomene da solo. Francis espira con forza, lasciando trapelare una sorta di disgusto e quando sollevo gli occhi, con ancora la siringa nella mano, lo vedo che guarda lontano, verso il fondo di questa stanza.
Il sangue passa lungo la canula andandosene via così come l'attenzione di Francis mentre resto a fissarlo. Mi domando se stia pensando a Gyasi, come fosse il loro rapporto e che tipo di uomo fosse, Francis, dinanzi alla felicità.
Credo che questa espressione d'orrore sarà la sola che riuscirà a mostrarmi, oltre all'impassibilità che mi provoca la nausea.
Nerissa posa una mano sulla manica sollevata del mio braccio, avvertendomi in un sorriso che il prelievo è finito.
«Va tutto bene?» Chiede docile, verificando con circospezione che non stia per svenire. «Scusa se non me ne sono occupata io.»
«Non ci sono problemi, non preoccuparti.»
«I risultati arriveranno tra alcune settimane. Porta pazienza, ogni centro ospedaliero al momento è pieno di ricoveri e terapie. Nel frattempo avrò modo di trovare la tua cartella nei reparti cittadini.»
«La mia cartella?» Domando, immobilizzandomi di colpo persino nei pensieri.
Nerissa annuisce, inclinando poi il viso di lato come se stesse parlando ad un bambino che non capisce.
«La tua cartella clinica. Sei mai stato portato in qualche ospedale di città? Il medico per cui lavoro ha uno studio in proprio ma può esserci utile ricavarla dall'ospedale centrale.»
Che cosa fare? Vorrei dirle la verità ma Francis è tornato a fissarmi. «No.»
«Non è importante, servivano solo riferimenti in merito a trattamenti precedenti. In questo caso faremo da noi.»
«Grazie...»
«Figurati, è il mio lavoro» afferma, recuperando i campioni di sangue e riponendo tutta l'attrezzatura nella valigetta con la quale era entrata. Dopo di che mi rivolge un sorriso e si solleva dal letto, ponendosi dinanzi allo sguardo di Francis.
Per un primo momento, lui rimane a fissarmi e leggo a chiare lettere, sul suo viso, che sta analizzando l'incertezza all'interno della mia precedente risposta come molto altro, ma non posso essere certo. Nerissa, dal canto suo, è insistente e lo costringe a guardarla.
«Verrai al refettorio, oggi?» Le sento chiedergli, e gli occhi di Francis corrono a me. Non avrebbe voluto che sentissi.
Gli inconvenienti della reciproca presenza colpiscono a segno da entrambe le parti.
«Non lo so.»
«Mio fratello ti aspetta.»
«Dì a Marcus che non è un buon momento per parlargli.»
«Lo credi sul serio?»
La testa di Nerissa si inclina di nuovo e stavolta è indicatrice della mia posizione.
Chi è Marcus?
Francis non emette un fiato e senza seguire il segnale di lei resta a fissarla con serietà, in un mutismo drastico.
«D'accordo, vedrò di parlargli non appena avrò tempo.»
«Bene» si accontenta lei, rilasciandogli un debole sorriso udibile anche nella piega assunta dalla voce. Dopo aver ottenuto ciò che voleva, ruota la testa e si scontra con il mio sguardo. «È stato un piacere, Rais.»
«Anche per me.»
«Ti accompagno alla porta» si offre il padrone di casa, facendo strada e permettendogli di seguirla. Superano il soggiorno che affianca la mia stanza, scendono lungo le ripide scale e arrivano fino alla stanza che anticipa l'ingresso, vicino al quale sento marciare i loro passi.
Poche parole ovattate corrono lungo gli scalini delle rampe interne raggiungendomi nella solitudine, e non muovo un solo passo per andare loro incontro. Resto semplicemente su queste lenzuola, piegato in avanti e con entrambe le braccia coperte dalla maglia.
Non appena la porta si richiude, mi immagino che se ne siano andati via entrambi e mi abbiano lasciato di nuovo al mio silenzio ma sbaglio nel pensarlo.
Francis è ancora presente e sembra ripercorre a passo molto più stanco il tragitto appena compiuto.
Volto la testa nell'istante stesso in cui arriva in soggiorno. A distanza di metri, rimaniamo a fissarci. Quello che vuole dirmi è chiaro, desidera che lo raggiunga ma non mi muovo affatto, per vedere chi tra noi due possa averla vinta.
Francis avanza una serie di passi, direzionandosi verso questa camera e lasciandomi nella soddisfazione di aver portato dalla mia la prima vittoria almeno fino a che, poi, non si ferma al tavolo del soggiorno, scostando una delle sedie e mettendosi seduto.
Non si muoverà da lì, sembra dire. Resto a fissare la sua reticenza, dopodiché scendo dal letto senza desiderarlo davvero. Tarderei il momento che mi vede di nuovo di fronte a lui per sempre ma, anche se dilazionato, il tempo ha una fine, ed io sono costretto a fare i conti con questa consapevolezza non appena lo raggiungo al tavolo.
Ha una mano che picchietta, con le unghie, contro il tavolo mentre l'altra abbandonata sulla coscia, la testa leggermente all'indietro per fissarmi, tanto da smuovere leggermente i suoi ricci, e la faccia completamente distesa di chi non si lascia trafiggere da nessuna sensazione.
Afferro lo schienale in legno del mio appoggio e prendo posto di fronte a lui, lasciando le mani intrecciate al di sotto del tavolo per non farlo assistere all'insorgere di un possibile tremore.
Di solito la necessità di un'ulteriore dose attende un arco temporale più amplio ma, ultimamente, la dipendenza è aumentata a causa della pressione che mi sento addosso, dunque non posso affatto anticipare con precisione quando si manifesteranno i primi sintomi della dipendenza.
Sicuramente non resisterò alle settimane promesse dall'infermiera. Dovrò trovare un modo per uscire da qui senza che Francis lo sappia.
Francis... che rimane in silenzio, osservandomi. Una sorta di tortura che mi costringe a sfuggire con lo sguardo più lontano, finché per prime non mi raggiungono le sue parole.
«Ho una cartella da mostrarti.»
Sollevo gli occhi solo per il tempo di vedergli afferrare il grigio raccoglitore in carta riportante, al margine, il logo del distretto di polizia e, all'incipit del fronte, una serie di date scritte in stampatello.
Francis apre il contenuto di fronte a me, rivelandomi una serie di foto raccapriccianti.
«Che cos'è questo?» Chiedo, non soffermandomi sull'orrore di tutto quel sangue capace di filtrare fin dentro le nervature del tavolo.
La sua mano, quella rimasta distesa, parte a battere contro il ripiano in maniera ancora più lenta, scandendo il suo silenzio.
«Queste sono le conseguenze del tuo lavoro» mi dice, guardandomi dritto negli occhi con uno sguardo immobile.
Se solo mi avesse piantato un coltello in corpo avrebbe fatto meno male. «Guarda... lui, lo conosci? Ernest Cooper, 43 anni. Originario dell'Albania e trovato morto, nella via vecchia, a causa di in overdose da oppiacei.»
Pone di fronte a me la foto di un uomo riverso a terra, nella posa sul fianco di salvataggio, con uno sguardo cianotico e disperso nel vuoto. Affogato nel suo stesso vomito e ormai cullato dalla morte.
«Jessica Durand, 25 anni. Originaria di Nantes, Francia. Ti chiederai cosa ci facesse nel South Side. Nessuno può saperlo, forse credeva in una vita migliore o che questo posto l'avrebbe resa libera. È morta per l'assunzione di antidepressivi rubati e mescolati a concentrati di eroina.»
«Vai al punto. Io non ho colpa. Le persone acquistano da me ciò di cui pensano avere bisogno, se non fossi io sarebbe qualcun altro» affermo, non volendo vedere la fotografia della ragazza.
Sono sempre morti cruente quelle legate alla mescolanza di pillole, per quanto siano la strada più facilmente percorribile tra le molte scelte suicide.
«Ah, ma tu ne hai fatto un arte! Non lavartene le mani» mi prende in giro lui, con un'inclinazione maligna nel tono di voce. Dopodiché ruota una foto, ponendola di fronte al mio sguardo e picchiettando con un dito contro la lucida patina fotografica.
«Avanti, guarda. Lui è Simon Weber, 33 anni, di Berlino. Morto per epatite, trasmessa dal contatto con siringhe di estranei. Una di quelle con la quale ti sei prelevato il sangue con tanta maestria, anche se in questo caso era disinfettata... come credi che siano quelle che si passano i tuoi consumatori, invece?»
«Vuoi che provi del senso di colpa?»
«Voglio capire se sei solo uno stronzo o se tu possa essere umano.»
Tra queste fotografie non c'è Gyasi. Non l'ha portato di fronte al mio sguardo, ne sono certo. Sono del tutto esenti ragazzi di colore.
Francia, Germania, certo... ma nessuno della Nigeria, nessuno tanto vicino al suo cuore da farlo scattare.
Queste persone sono sconosciute a me quanto a lui, ed è inutile il ricordo della loro età o del luogo di nascita.
Li rende veri, sì, ma non basta.
Unicamente loro è stata la scelta di intraprendere una simile strada, o l'avventatezza di scambiarsi siringhe con altri tossici.
Prima capirà la limitazione della mia colpa e prima questo teatrino tra di noi finirà.
«Pensi sia solo questo? Devo scoppiare a piangere per dimostrarti di essere umano?» Gli domando diretto, sporgendomi stavolta io in avanti e indicandogli con la testa la verità posta tra noi. «Queste persone hanno un problema e scelgono loro stesse la soluzione. L'unica cosa che mi limito a fare è fornirgliela.»
«La soluzione, mh?» Il suo sopracciglio si solleva in una presa in giro e nella sorpresa del contesto, valutando le mie parole.
«Sì, una soluzione» ribadisco, fronteggiandolo senza timore.
«Ed è quello che cerchi anche tu? Una... soluzione?»
Merda. Ha notato il tremore. Ha notato tutto.
«Sai, rimarrai in questa casa fino a che non parlerai, ed hai fatto caso alla guardia di Attila, giù in strada? Quando non ci sarò io, qua dentro, lui non ti toglierà gli occhi di dosso. Ti sarà impossibile scappare quindi è il caso che confessi in maniera veloce così da poter tornare nuovamente in quella schifo di via della quale hai preso il controllo.»
«Sei molto convinto di Attila.»
«Ti ha fregato una volta. Può farlo ancora.»
«Allora sappi che il senso di colpa non funziona. Conosco il mestiere che faccio ed anche molto bene: si tratta di affari. Stabilire un eccesso e vietarne l'utilizzo non è tra i miei compiti.»
«Ma non ti sei risparmiato di giudicare l'importo che ti ho domandato io, in effetti.»
«Oliver mi aveva già detto chi eri. Volevo metterti alla prova» vuoto il sacco, tornando con le spalle contro lo schienale e lasciandomi assistere alla sua presa di consapevolezza.
«Questo è interessante. Mi spinge a chiederti se mostri lo stesso disinteresse anche alla dipendenza di Oliver. Anche lui un giorno potrebbe essere una delle persone presenti in queste fotografie. I nostri interrogatori andranno avanti per giorni, settimane se non ti decidi a parlare, e così io, un domani, potrei venire da te e lasciarti una sua foto. Persino di questo non ti importerebbe?»
Taccio nella consapevolezza di possedere una risposta fin troppo dolorosa della quale non voglio renderlo partecipe, per non dargli troppo potere.
«Quando hai conosciuto Oliver?» Domanda in maniera meccanica, quasi stesse recitando un interrogatorio già preparato a tavolino.
«Questo cosa c'entra con le indagini?»
«Non posso togliermi una semplice curiosità?»
Mi sta prendendo in giro, ma per la prima volta il pensiero che lo faccia mi è indifferente.
«All'orfanotrofio.»
«Si tratta di una bugia. Oliver ha un padre, presente anche nel periodo della sua dipendenza.»
«Come puoi saperlo?»
«Me lo ha detto lui, quando è entrato a casa mia.»
L'arma più terribile che possiede Francis risulta essere il pieno possesso che ha della verità. Non mi sta mentendo, e la cosa non mi piace per niente. Avrei voluto tenere Oliver lontano da tutto questo ma gli artigli dell'uomo che ho di fronte sono già arrivati fin troppo dentro alla sua pelle.
Mi sbagliavo nel credere di essere salvo, ospite di questo palazzo.
Francis è pericoloso al pari di William.
«Per il resto, però, credo che tu mi abbia detto la verità. Sei orfano?» Chiede, inclinando appena la testa e facendo smettere persino il leggero ticchettio che era rimasto in sottofondo dell'unghia contro il ripiano del tavolo.
«Oliver ha conosciuto suo padre solo una volta compiuti quattordici anni» affermo, sollevando la testa per fronteggiare l'attenzione che provo nel dover calibrare le parole. «Non ti ho mentito, siamo cresciuti insieme in orfanotrofio.»
«Se è così vuol dire che la vostra è un'amicizia di lunga data... e che Oliver potrebbe conoscere sul serio le persone per cui lavori.»
«No, non le conosce.» Mento, solo in parte, e l'ibrida natura della risposta non filtra nella sua analisi di verità. Viene costretto a porgere una domanda.
«Perché dovrei crederlo?»
«Perché ho sempre protetto Oliver da tutto.»
Francis rimane faccia a faccia con la mia certezza, portatrice come è di anni passati dalla sua parte.
«Tranne che dalla droga» afferma, immobilizzandomi nell'intensità di parole in grado di ferirmi. Non dico niente ma stringo leggermente le labbra, urlando dentro di me ma mascherandomi all'esterno. «Dove vivi? Nella casa dei tuoi protettori?»
«Non ho una casa» tento di tagliare il discorso, ma un'idea lo blocca.
«Capisco... l'indirizzo deve essere scritto in quella cartella che hai detto a Nerissa non esistere...»
Che cosa? No! Ma non deve leggerla... non voglio che la legga.
«Ho fatto centro?»
Continuo a rimanere in silenzio, serrando sotto il tavolo con più forza le mani in un pugno, tentando di regolare l'angoscia che sento.
«Non ho una famiglia e per questo non ho mai avuto una casa. Sono abituato così.»
Un lungo silenzio consegue la mia affermazione, nel quale non avverto che il ritmo del mio cuore battere ma decrescere in una calma avente, ancora, un brivido di leggera paura.
«Vuoi dirmi che sei "un figlio del vento"?»
Lo sussurra in un tono completamente diverso che mi esorta a sollevare la testa verso di lui per poter vedere la sua espressione.
Anche lei è mutata ma, come il mio cuore, non ha perso quella scintilla di furore che ha caratterizzato il nostro primo interrogatorio.
Vedo quella fiamma dietro i suoi occhi, e quella lingua ardere eppure pare dimostrarsi più tenera nei miei riguardi, definendomi con un termine all'apparenza quasi poetico.
«Come?» Domando, senza riuscire a capire.
«Non lo sai? È il modo con cui si definisce un popolo nomade. Figlio del vento, qualcuno in continuo viaggio. Non appartenente a un'etnia... che manca di una patria.»
Prima d'ora ciò che mi definiva era sinonimo di solitudine e inadeguatezza. Mai sono stato figlio di qualcosa e mi priva di una parte di fiato, questo genere di appartenza.
«Credo di sì...» mormoro.
Francis adesso non dice una sola parola. L'aria, qua dentro, ha assunto tutta un'altra pesantezza e si raccomanda a confidenze che non mi sarei mai aspettato.
«Non avere un luogo da amare ti rende ancora più cinico, non credi?» Mi chiede a un tratto, tenendo la testa bassa e ricevendo in cambio il mio solo silenzio. Dopo alcuni istanti, si muove nella direzione di nuove parole. «Ti porta a non combattere per niente. Ti priva di qualunque significato.»
In un attimo, rivedo il mio corpo piegato di fronte alle finestre dell'orfanotrofio e un'ansia terribile mi assale nel scorgere tradotte le emozioni di quei momenti nelle sue semplici, lente, parole.
«È per questo motivo che hai deciso di diventare il nuovo re di quel macabro centro? Sentivi di non meritare niente di meglio eppure volevi ottenere, solo per te, qualcosa?»
Stringo ancora più forte le mani al di sotto del tavolo, e le unghie scavano nella mia pelle a fondo. Tardi. Troppo tardi. Gli occhi verdi di Francis si sollevano e mi trafiggono, portandomi a deglutire di fronte alla forza disarmante che possiedono.
Scontato sarebbe dire che questi sembrano portatrici di ogni suo più recondito messaggio, eppure in parte è così visto che Francis sta tentando di regolarsi. Non vuole farsi vincere dalla rabbia, nei miei confronti, e per questo motivo mantiene un tono calmo ma la voce... la voce, e quegli occhi, tradiscono una tensione affatto facile da arginare. Ed è assurdo, vista la malinconia che l'aveva piegata, solo per un attimo, nel donarmi la definizione della mia genesi.
Francis è un uomo complicato ma c'è di peggio: è un uomo astuto e temo che se passeremo ancora più tempo assieme possa arrivare a capirmi fin troppo bene, facendo saltare all'aria anni di lavoro nella famiglia Lee.
«Hai cercato la tua stabilità», continua a dire, con calma, «lo capisco e ti sei lasciato proteggere da figure importanti. Ma non sono invincibili... la polizia è già sulle loro tracce, non vuoi aiutarmi a trovarli?»
Serro la bocca, costringendomi al silenzio. Se solo fossi pulito, al momento, starei ragionando più lucidamente e potrei mostrare un'inespressività che si era rivelata utile nel corso di molte altre trattative, ma non sto bene.
Le mani mi tremano e il corpo mi prude, quasi arso dal fuoco, la mente ha difficoltà nel concentrarsi e tutto ciò è il risultato del male che mi sono iniettato, del quale mi dimentico durante quei soli minuti di pace.
«Si dice che le persone che si capiscono, in fondo si somiglino» pronuncio sibillino, tentando di infliggere colpi sulla sua armatura.
«Io non ti somiglio affatto. Proverei solo disgusto, se così fosse.»
«Provi disgusto per me? Perché?» Domando, e non posso trattenermi. Con le unghie gratto lento lo strato di pelle ricoperto di croste, sentendo gocce di sangue scorrere sotto i polpastrelli mentre continuo a fissarlo. «Per la mia dipendenza? O perché vendo droga?»
«Perché sei uno dei motivi per cui mi trovo da quest'altra parte del tavolo.»
«Tu non sai niente di me eppure adori giudicarmi. Sei così bravo, tu, così perfetto» commento, trafitto dal pallore della sua pelle immacolata e dal suo sguardo immobile. «Come ci si sente, a vestire sempre il ruolo degli inquisitori? Tu parli, Francis, ma non conosci niente.»
Deve essere difficile, per un uomo come lui, sentire simili parole ed essere costretto a tacere, scorgendone una parte di verità. Una figura tutta d'un pezzo, dal lato della giustizia, pronta sempre a disgustarti con un solo sguardo... ma io ormai quell'espressione di disprezzo la conosco. Era dipinta sul viso delle famiglie che non volevano prendermi con loro il giorno in cui, sporco di fango a causa di una lite che aveva coinvolto Oliver con altri ragazzi, mi ero presentato in fila con i miei compagni, al momento della scelta.
La stessa espressione di quella suora quando aveva spiegato, nella chiesa di quel piccolo convento, la categorizzazione di ogni atto impuro e di ciò che era giusto fosse amore.
Come può permettersi di fissarmi così?
Me lo domando... eppure nemmeno io conosco niente di lui e mi baso solo su supposizioni.
Cerco ancora io, figlio del vento, una terra sulla quale riposare che abbia il profumo della comprensione e della serenità? Perché cerco in Francis tutto questo? Per ciò che ho fatto a Gyasi? O forse perché credo davvero che le anime simili possano comprendersi?
«Non hai idea di che cosa mi abbia spinto fino a questo punto e nemmeno conosci i rischi ai quali mi chiedi di espormi quando domandi i nomi delle persone che mi hanno ingaggiato.»
«Che cos'è che vuoi? Della pietà?» Chiede funesto, ancora nella sua espressione di disgusto.
Non so rispondere. Deglutisco diverse volte, cessando di procurarmi escoriazioni sulla pelle, per poter concentrarmi unicamente su di lui e mettere da parte il dolore.
«No, non mi importa della tua pietà.»
La mia risposta viene spedita nel baratro del vuoto dalla sua testa che si piega, facendo perdere qualsiasi forma di contatto tra i nostri occhi. Francis sembra ragionare su una nuova strategia da seguire per poter mettere a segno la sua vittoria.
«Ho incontrato Oliver, per strada. Era preoccupato per te» mi dice.
Lo è sempre, specie se non mi vede da giorni.
«Posso incontrarlo?»
«Perché dovrei permetterlo?»
Vuole qualcosa in cambio, eppure la sua voce si è notevolmente abbassata in una stanchezza che non sembra in grado di sostenere.
«Perché lo hai conosciuto e sai che potrebbe essere un problema altrimenti. Inoltre, perché io non vi sono davvero di aiuto. Non posso rispondere a ciò che mi chiedi quindi è del tutto inutile.»
Vivere con la consapevolezza di aver confessato tutto alla polizia significherebbe guardarsi costantemente alle spalle, per verificare che William non sia presente.
Non è un rischio che posso correre... e al contempo, sembra essere una verità che Francis non vuole affrontare.
Il suo sguardo da fiamma diventa fuoco e quella calma che lo aveva governato nel parlarmi sparisce, sostituita da una sorta di affronto che ha tradotto in sfida il mio discorso.
«La casa è ben sorvegliata, Oliver non la troverà e non ci si avvicinerà. Tu, invece, sai fin troppe cose.»
Rimango in silenzio, di fronte alla verità.
Dentro di me calcolo quanta distanza possa esserci tra la casa dei piaceri e questa delle torture, e in quanto tempo Oliver possa venire a trovarmi. Attila è davvero un poliziotto tanto capace? In grado di fermare l'ostinazione del mio amico, se solo trovasse la mia porta?
«I figli del vento hanno tutti qualcosa in comune, sai? Vuoi sapere che cosa?» Pronuncia la sua voce, scandendo un ritmo preciso al mio cuore.
Non dico una sola parola, lascialo continuare a inferirmi una ferita potenzialmente mortale.
«Si illudono, costantemente, di poter trovare di meglio, di poter mettersi in salvo in luoghi che altri non conoscono. Persino adesso stai pensando ad altro... e non me ne rendi partecipe. Se vuoi vedere Oliver dovrai darmi qualcosa in cambio altrimenti gli farò credere che tu sia morto. La tua sicurezza sono quelle scarpe appese, stabiliscono il tuo controllo ma credo che per Oliver sentirsi al sicuro significhi ben altro. Qualcun altro.»
Si solleva dalla sedia dopo avermi vomitato queste infami parole, non perdendo la reazione disgustata del mio viso dinanzi l'ipotesi delle sue azioni.
«La voce della tua scomparsa si diramerà presto, i tuoi capi ne verranno a conoscenza... ma quello contro cui si scontreranno sarà solo un ragazzino dai capelli rossi che si dibatte per trovarti. Sei pronto a metterlo a rischio? Questo è quello che deve mettere in gioco qualsiasi essere umano.
Provare dei sentimenti è la strada più veloce per rimanere distrutti.»
Rimango dentro il suo sguardo nel sentire, dentro di me, l'eco di queste sue ultime parole. Vedendo relazionata la mia vita alla sua.
Gli ho portato via Gyasi ed ora, anche se non è lo stesso, Francis promette di portarmi via Oliver. L'affetto che provo per il mio amico è inestimabile, l'amore che si può provare solo per una persona del proprio sangue e Francis lo ha capito. Da bastardo quale è ha deciso di giocarci ed io non ho alcuna carta da poter utilizzare per impedirglielo.
Rimango a fissarlo negli occhi e mi prometto, presto, di scappare via.
Sono un figlio del vento e questa prigione non ha limiti. Me ne andrò da questa stanza e metterò al sicuro il mio amico prima ancora che Francis possa accorgersene.
Gli avrei concesso la sua vendetta. Gli avrei permesso di riscattare il nome di Gyasi ma troppe cose si sono messe di mezzo ed ora io, bambino perduto e affidato alle sorti di una tremenda burrasca, sono costretto a tirare le somme.
A fissare la sua schiena andarsene e a promettermi di uscirne vivo, nonostante tutto il male che so avergli inflitto. Non ha sbagliato nel disprezzarmi: sono così, senza onore, eppure credo ancora nella salvezza degli innocenti, nel riscatto di persone fragili quali il mio amico e tutti i piccoli giovani orfani che mi gravitano intorno ad ogni ora del giorno.
Sì, combatto per loro, affinché nessuno della casa dei Lee e in particolare William possa far loro del male... ma che ne sarà del resto?
Tremo al pensiero che, nonostante tutta la sicurezza mostrata durante questa nostra conversazione e la sua rabbia, anche Francis possa far parte delle persone da proteggere.
Non possiede più una posa tesa, ormai, mentre si allontana per cui le sue spalle, rilassate, tendono verso il basso in un afflizione che comporta anche il piegarsi della sua testa verso il pavimento. Le mani tornano nelle tasche del cappotto e nessuna parola pungente sfugge dalle sue labbra.
La sua mancanza di timore è un'arma a doppio taglio in grado di procurargli grossi problemi ma sembra non volerci rinunciare, così come a molti altri lati del suo carattere.
So già che, per la fuga che ho in mente, non sarà mai in grado di perdonarmi.
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