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13 - Faccia a faccia

P.O.V.
Francis

L'ipnosi è un ottimo strumento da usare se si desidera tenere qualcuno sotto scacco. Compi un movimento continuo, ripetuto, sempre lo stesso e la persona finisce per osservarlo e rilassarsi. I nervi si distendono ed è inutile dire che la vittima venga costretta ad abbassare la guardia, se pure involontariamente. Si tratta di un sistema adoperato spesso persino alla centrale; molte volte ho assistito agli interrogatori compiuti da Carlail, dietro il vetro della stanza destinata, e non potevo non notare la sua maestria nel comprendere subito la situazione, e il tipo di soggetto tenuto sotto osservazione, in poco meno di un attimo e agire di conseguenza.

Molte volte l'ho visto accarezzare con la punta delle dita un tavolo, in maniera lenta. Lo faceva, solitamente, con le persone accusate di molestie sessuali, nei confronti di bambini così come di adulti, e gli parlava con voce bassa. L'innocenza di quella cadenza, unita alla delicatezza di quel tocco, era un ipnosi donata alla vista di qualsiasi osservatore che possedesse in sé un macabro segreto.
Carlail sapeva quale delle persone, che gli si sedevano di fronte, nascondessero nel cuore la vera colpa e giocava con il loro crimine in maniera velata ma tetra, conducendo l'interrogatorio costantemente a suo favore. L'ammissione della colpevolezza o la fuoriuscita di una frase avventata non erano la vera vincita della faccenda, quanto, da parte mia, osservare i metodi effettuati per raggiungere tale fine, e Carlail è sempre stato una fonte di ispirazione sotto certi punti di vista. Mi ha insegnato tanto.

Attraverso la sua guida ho compreso che esistono alcuni trucchi, per evitare di cadere in trappola. Il concedere il controllo a una persona che, in una scala più o meno ampia, desidera ottenerlo è dato dalla tua lucidità.

Capire, in un attimo, di non voler precipitare dentro quell'inquietante gioco è una vittoria che deve rimanere celata, per permetterti ancora di essere in testa, il solo modo che si ha per vincere. Non lasciare, in alcun modo, al tuo avversario intravedere l'incertezza che hai nei suoi riguardi.

Ed è quello che sto tentando di fare, da dei lunghi minuti, mentre vengo torturato nell'attesa di Oliver con la visione della lama di Taigar che ruota, lenta, tra le dita di quest'ultimo quasi fosse la carovana di un'infinita giostra.

Il pomello in legno cade prima sull'indice che fa presa, lo risospinge con forza e permette alla lama di compiere un piccolo arco prima di venire afferrata nuovamente dalla mano destra di lui che, in uno slancio, riporta il manico a contatto con l'indice in un continuo gioco.

Sorrido, volendo ricambiare l'allegria che ha nei miei confronti, e non saprei dire chi dei due compie il gesto con più falsità. L'unica cosa certa è che, non cadendo in quell'infinito meccanismo della noia, ho ancora il controllo sulle mie emozioni e riesco a non reagire con impazienza al punto tale che Taigar è costretto a usare la voce, per infastidirmi.

«Allora, Francis... come mai sei così impaziente di vedere il nostro Olly?»

Con le braccia dietro la schiena e le mani unite, continuo a sorridergli con compiacenza, mostrando la più semplice delle verità.

«Lui offre un servizio, e io ne usufruisco.»

«Ma l'ultima volta non sei rimasto così soddisfatto, quindi perché tornare? Hai in mente qualcosa di violento? Farò i conti con te, a seconda dello stato in cui torna.»

«Che cosa è, nello specifico, questo?» Domando, sollevando la testa nella direzione di quella che a quanto pare viene chiamata "la casa dei giovani piaceri". Poi rivolgo di nuovo lo sguardo a Taigar, in attesa di una conferma. «Un bordello?»

Taigar ride divertito, di fronte alla definizione che da solo mi sono spinto a dargli. «Consideralo l'anticamera dell'inferno» mi suggerisce, non distanziandosi troppo dalla visione che, da solo, gli avevo affibbiato. «Si tratta solo di un luogo dove i giovani cercano rifugio, dopo essere scappati di casa. Oliver è uno dei pochi che è entrato a far parte del ramo della prostituzione e con quello mi paga l'affitto. Il resto di questi mentecatti passa il tempo steso per terra, a dormire con una siringa in vena, e devo sempre sperare che non muoiano prima di aver pagato la retta di fine mese.»

«Un desiderio molto delicato.»

«Ti sei fatto una visione migliore di me, ragazzaccio?»

Affatto. Quel che intravedo rende insufficiente ciò che vedo e ormai ho già capito che tipo di persona è l'uomo che ho di fronte: un avvoltoio, attaccato al denaro, tanto disposto ad ottenere ciò che ritiene degno di essere suo da macchiarsi pure di sangue, per averlo. Una delle peggiori bestie che il South Side avrebbe potuto vomitare.

Oliver si affaccia tra i miei pensieri, comparendo da un vicolo laterale completamente al buio, pulendosi la bocca con il dorso della mano. Lancio uno sguardo alla figura di spalle che si sta ricomponendo, facendo passare nuovamente il gancio della fibbia nella cintura prima di scomparire del tutto, abbandonando quindi la scena. Poi torno ad Oliver, scorrendo uno sguardo sul suo corpo per constatare che sia tutto apposto.

A quanto pare tornare alla prostituzione, per lui, ha una cadenza: sono passati quattro giorni dall'ultima volta che ci siamo visti e per quanto sembri stare bene, nel non manifestare alternazioni comportamentali date dalla dipendenza, i soldi devono essersi trovati, di nuovo, a mancare. Ancora non ho scoperto se Oliver abbia un secondo lavoro ma quello che è certo è che l'avvoltoio è disposto a offrirgli solo un tetto sopra la testa. Nessun pasto. Nessun confort. Deve cavarsela da solo ed è questo a cui è costretto.

A fare da puttana ad uomini tanto viscidi da fregarsene della sua condizione.

«Stai bene?» Gli domando in un sussurro, per accettarmene, e nonostante rabbrividisca appena dal terrore Oliver annuisce, con lentezza.

Nel frattempo sento gli occhi di Taigar correre tra di noi e fissare prima l'uno, poi l'altro.

«Che fortuna che hai avuto, Oliver. Questa volta te ne sei trovato uno romantico» ci prende in giro, ma non gli presto attenzione.

«Ti ha fatto male?» Continuo a chiedere, notando che il suo labbro è spaccato. Deve aver opposto resistenza.

«Sto bene, lascia stare» mi liquida veloce, non volendo mostrare niente di fronte al proprio protettore o non volendosi ancora del tutto fidare di me. «Noi andiamo, Taigar» gli dice, voltandosi leggermente nella sua direzione come in quella della strada che stiamo per percorrere, facendomi notare che la lama tra le dita dell'altro si è finalmente fermata.

«Divertitevi» ci dice, in un disgustoso sorriso, e mi è difficile distanziarmi da quello stronzo senza vomitargli una frase velenosa. Oliver, più pacifico di me e già arreso, ormai gli ha dato le spalle e sta camminando in una direzione che sono costretto a seguire.

Una volta alle sue spalle e lontano dall'altro, posso concentrarmi sul momento che ho aspettato con sofferente attesa fino ad adesso, e non posso non recepire che qualcosa sia cambiato. Oliver non si fida ancora di me, questo è vero, e mi parla a malapena, ma senza volerlo sembra avermi dichiarato una specie di resa. Sta per farmi incontrare con il suo spacciatore, senza chiedermi niente in cambio.

Sufficientemente lontani dalla casa dei piaceri e distanti da altre cittadine voci Oliver si ferma, appoggiandosi a uno dei muri delle case vicine con le braccia conserte.

«Ti sta aspettando» mi dice, senza fissarmi negli occhi.

Rimango immobile al suo fianco, cercando di tradurre l'emozione invisibile che cela il suo viso.

«Dove?»

«In quella casa.»

Con la testa indica un vecchio edificio abbandonato e, all'apparenza, antico, con la porta di ingresso completamente aperta da far intravedere i gradini della rampa di scale. Sollevo lo sguardo, raggiungendo il primo e unico piano della facciata e noto la striscia continua di vetrate, a circa un metro di altezza dall'interpiano. Non è visibile la visione interna delle sale dalla strada, ma riesco a immaginare come il sole, nascosto e appena sporgente dal tetto della casa opposta, riesca a entrare all'interno dei vetri illuminando l'ambiente e mi compiaccio di non essere vittima di una crudele oscurità.

Voglio vedere l'uomo con il quale sto per parlare, capire se è a conoscenza della storia di Gyasi, se è stato lui a fornirgli l'ecstasy. Può essere stato il volere di Rais a comandare su tutto ma qualcuno deve avere fatto da corriere.

«Francis...»

La voce di Oliver richiama la mia attenzione ed io mi rivolgo alla sua figura seminuda, vestita nei suoi abiti da battaglia. «Come hai capito di amarlo? Il ragazzo che è morto, intendo.»

«Perché mi fai una domanda simile?»

«Tu rispondimi e basta.»

«Mi trattava con gentilezza, capendomi meglio di chiunque altro, permettendomi di essere me stesso» confesso, e gli occhi di Oliver, adesso trasparenti nella loro emozione, recepiscono ogni mia parola, leggendovi dentro il dolore che ancora non si è stemperato.

«Io non sono innamorato. La maggior parte delle volte, a causa delle droghe, nemmeno sento cosa provo ma... all'uomo che ti aspetta là dentro, a quell'uomo voglio bene. Non è solo quello che ritieni uno spacciatore, è un mio amico, è la sola famiglia che mi resta. Ti prego... non fargli del male.»

Tutto mi sarei aspettato tranne questa confessione di fragilità da parte di Oliver, e non posso fare a meno che rispettarla.

Poco fa non mi ero sbagliato, per quanto Oliver non voglia ammetterlo si sta mostrando sempre di più, di fronte ai miei occhi, e questa è un'ulteriore dimostrazione della verità. Un ragazzo debole, che finge di avere tutto il coraggio di questo mondo, sta lasciando cadere ogni tipo di difesa a protezione di un'altra persona, che nemmeno ama dell'amore romantico che mi sta facendo fare terra bruciata tutto intorno.

Ed è per la fragilità delle sue parole che la sua richiesta mi colpisce a fondo, cedendo il posto al rispetto che possono avere due avversari onorari, nel corso di una reciproca sfida.

«Te lo prometto, non gli farò niente» assicuro, in un sussurro molto lieve che possa essere udibile solo a noi due. Oliver rimane solo per qualche minuto a fissarmi, quasi stesse chiedendo un'ulteriore conferma di questa verità, poi la sua schiena si allontana dalla parete sporca di questa vecchia casa e mi si indirizza contro, lasciandolo camminare da solo nel buio delle strade.

Ormai siamo lontani, e la lentezza dei suoi passi non è più udibile. È tempo di compierne di miei.

Ruoto la testa in direzione dell'edificio al mio fianco e, poi, mi dirigo con lentezza verso le sue scale.

Quando oltrepasso l'ingresso il buio mi circonda: alcuna fonte luminosa rischiara i miei passi ma la tratta è breve, il piede indovina la sagoma dello scalino e presto si posa sul supporto orizzontale che decreta la fine dell'ascesa.

Un'altra porta spalancata, proprio di fronte a me, e quindi il mio ingresso nella sala degli specchi.

Lo spazio rettangolare, completamente vuoto è, come immaginavo, illuminato dai raggi del sole che filtrano in obliquo come delle spade trafiggendo i vetri e cadendo al suolo. Un pavimento composto da assi di legno che si contrappongono al cemento di cui è fatto il soffitto, le pareti, i gradini delle scale.

Sposto l'attenzione verso destra, ovvero verso la parete di finestre che risente dell'ombra generata dal lato esposto al buio dell'edificio e che mostra la parte non ancora esplorata della città al di sotto.

Il silenzio regna su ogni cosa e sembra di essere immobili, perduti completamente nel tempo.

Potrei soffermare l'attenzione su ogni cosa, su ogni piccola crepa di questo posto che sembra animarsi di vita propria nell'emettere un leggero sfrigore di legno vivo, lungo questi assi di pavimento che si animano in un continuo movimento, ma c'è qualcos'altro su cui la mente si sofferma.

Una figura è presente al termine della sala, ormai distante da me di pochi metri. La sagoma è ruotata nella mia direzione per tre quarti e si rende quasi del tutto visibile al mio sguardo.

Di fronte a me ho un ragazzo con dei capelli tagliati molto corti, quasi rasati, con indosso un giubbotto in nera pelle sotto cui staziona un maglione del medesimo colore, seguito da un paio di jeans scuri e da delle scarpe di tela distrutte. Nonostante l'illuminazione della stanza, la luce si intrappola nella catena argento, mediamente sottile, che tiene legata al collo e nell'orecchio all'orecchio destro. Osservo il suo volto, carpendone la particolarità: è magro, più di me, e questo viene reso evidente dagli zigomi pronunciati e già messi in risalto dalla forma leggermente allungata del suo viso. Gli occhi invece sono grandi, rotondi, scuri e in contrasto con il pallore della sua bocca, grande e morbida, e nell'insieme ogni cosa reagisce in un equilibrio perfetto che manifesta la pacatezza del suo sguardo. È rimasto in silenzio, durante la mia osservazione, lasciandosi analizzare.

Questo ragazzo, unico membro del circolo degli affetti di Oliver, sembra avere la mia età e sfoggiare una bellezza particolare, fuori dall'ordinario come lo è la tranquillità dei suoi modi.

Le sue mani sono unite dietro la schiena, come lo erano le mie fino a poco fa, e il suo piede sinistro è sporto in avanti, in una posa che è attesa del mio arrivo.

La testa rasata si china appena all'indietro, mostrando il profilo sporgente dello zigomo e della mascella mentre mi analizza anche lui, di rimando, valutando il suo nuovo compratore.

Il sole mi illumina appena, raggiungendo nella sua striscia a terra l'asse precedente ai miei piedi, ma la luce che proviene dal giorno è quanto di sufficiente per mostrarmi, nella mia interezza, e nei miei abiti completamente neri.

«Hai portato i soldi?» Mi domanda, con una voce dal tono medio basso difficile da cancellare dalla testa.

«E tu, quanto ti ho chiesto?» Rispondo di rimando e lui sorride, sollevando appena gli angolo delle sue grandi labbra.

«No.»

Non allontano gli occhi dalla sua figura quando si volta e prende, lenta, a camminare con le mani dietro la schiena, fissando in un primo momento a terra, per poi tornare a me.

«Era una grossa dose, per un novizio» lascia volteggiare nell'aria la frase, e stavolta è il mio il turno di sorride.

«Ma io non sono un novizio.»

«Davvero? Ed acquisti, spesso, droga nel South Side?»

Avevo immaginato di porre io le domande, ma in qualche modo l'attenzione che mi reca mi spedisce nel baratro dell'ironia, notando la furbizia che maschera.

«Non spesso, no.»

«Non sei di qui?»

«Vengo da tutt'altro posto.»

«Ossia?»

Pronto alla risposta, volgo la testa verso di lui, poco distante dal mio fianco sinistro.

«Un luogo in cui gli spacciatori non fanno interrogatori ai loro consumatori.»

Sì, la risposa gli è piaciuta. Ancora una volta, questo sconosciuto sorride in modo sincero, allontanando però lo sguardo. Le sue mani si sciolgo da dietro la schiena e lasciando intrecciare le sue braccia al petto, mentre i suoi passi si arrestano permettendogli così di rimanere alla mia sinistra, con la luce delle finestre che lo colpisce alle spalle.

«Vorrai scusarmi, ma la richiesta del mio consumatore mi è sembrata sospetta.»

«Nonostante io sia amico di Oliver?» Rilancio, ormai consapevole del loro rapporto. I suoi occhi si infiammano.

«Non da molto, a quanto ne so.»

Mh, colpito. Se desidera scoprire le carte in tavola sono disposto a farlo, renderebbe questo processo meno lungo.

«Che cosa cerchi?» Domanda a un tratto, ed io ritorno a guardarlo dopo aver allontanato, per un istante, lo sguardo.

«Che intendi?»

«Ti ha mandato qualcuno da me?»

«Solo Oliver, nonostante io cercassi Rais.»

Di nuovo quel luccichio all'interno dei suoi occhi. «Oh, quindi vuoi parlare di Rais.»

«Che cosa sai di lui?»

«Che cosa te ne interessa?»

«Voglio conoscerlo. Non è quello che vogliono tutti? Qui è famoso, abbiamo le sue scarpe appese sopra la testa ogni giorno» commento maligno, di fronte a quella presa di potere non richiesta.

«Un obbligo come un altro, non può fare altrimenti.»

«Mh, e chi lo ha messo a capo di tutta la baracca? Da quanto?»

Da prima che Gyasi morisse? O durante, rendendolo colpevole di tutto?

Lo sconosciuto tace, evitando di rispondermi, e capisco come la domanda non sia nemmeno giunta alla sua attenzione. Altri pensieri stanno volteggiando nella sua mente ed è difficile afferrarli. Parte a camminarmi di nuovo intorno, e forse il gesto è espresso solo come necessità per schiarire le idee.

«Come puoi immaginarti, Oliver mi ha parlato di te. E mi ha parlato anche di una vendetta, ma non so se crederle.»

Il grado di confidenza tra i due, è vero, non è alla stregua di quello tra semplice drogato e spacciatore. Se non avessi voluto crederci ecco la prova; Oliver si fida di lui all'inverosimile, dunque posso solo sperare che anche Rais si fidi abbastanza di questo sconosciuto.

«Non vedo come potrebbe interessarti. Non è nei tuoi confronti.»

«Quindi è vera?»

Aggrotto la fronte, mentre lui si sofferma stavolta sulla mia destra. «Credi che non lo sia?»

«Eri innamorato di un uomo... che è morto, di overdose?»

«Vuoi sapere quale droga lo ha ucciso?» Provoco, e in un primo momento la domanda non coglie nel segno, poi il volto del ragazzo si illumina, e il suo dito tende nella mia direzione con compiacenza.

«L'ecstasy» afferma, ed il mio annuire sorridendo, falsamente, è una conferma sufficiente alle sue supposizioni. «Sei davvero un tipo vendicativo, allora, ma non c'è ragione per esserlo...» continua a dire, tornando di fronte a me e bloccandosi finalmente, del tutto, sciogliendo le braccia. «Il commercio di ecstasy non è più presente nel South Side da dieci anni, e per quanto Rais la commerci non è qui che la vende.»

«Che cosa?» Domando, non volendo capire. Il ragazzo tace e lascia che la mia mente si rischiari da tutti i dubbi per tornare a parlarmi, con lentezza, mettendo in chiaro la sua verità.

«Non è stato Rais il mandante di quella morte.»

«Come puoi saperlo?»

«Te l'ho detto. La droga non veniva passata per le strade.»

«E la sua morte, allora?»

Le braccia del ragazzo si aprono, manifestando l'ovvio. «Deve averla presa altrove.»

Sbuffo, di fronte a questo suo tentativo patetico. «Stai solo cercando di proteggere il tuo capo. Se due anni fa Rais era a capo di questi luoghi è ugualmente responsabile della sua morte. Le scarpe sono sue, no? Avrebbe dovuto avere il totale controllo di questo posto.»

Lo sconosciuto rimane in silenzio di fronte alle mie parole, e capisco di aver colpito nel segno.

P.O.V.
Rais

Due anni fa... sì, due anni fa ero presente, ma in che modo? Lui non c'era a verificarlo, inoltre avevo proibito qualsiasi vendita di ecstasy dopo quel carico comprato dai Lee e tagliato male.

Dovevo avere il totale controllo di tutto il South Side ma la morte di quel ragazzo ne è la negazione. Qualcosa è andato storto, e la colpa è mia.

«Allora?» Mi esortano quegli occhi troppo verdi, pronti alla condanna.

Da quando l'ho visto entrare in questa stanza ho capito che genere di uomo fosse; imperturbabile, arrabbiato ma anche ferito. Capirlo mi aveva destabilizzato perché mi aspettavo una trappola dei Lee. Mi aspettavo una resa dei conti e la smentita di qualsiasi vendetta... ma Francis è venuto con un solo scopo ed è ferirmi, più di quanto potrebbero mai fare i Lee.

«Due anni fa aveva il controllo del South Side» confesso, vedendo le sue sopracciglia sollevarsi con saccenza, prese dalla rabbia. Vengo sotterrato, anche solo da quello sguardo.

«Allora è sua la colpa.»

Il cuore trema di fronte a quelle parole e la mente ne viene trafitta. Sì. Sì, la colpa è mia. E la mente vola ai ricordi macchiati di nero di due anni fa e, con forza, sono costretto a tornare a seppellirli affinché quei macabri orrori non tornino a galla.

Il desiderio di scappare da loro mi spinge ad andarmene, e così prendo a camminare, ma la sua mano si posa al centro del mio petto, vietandomelo.

Le sue dita sono sottili, bianche, e lunghe tanto da permettere al palmo di toccare l'osso centrale al mio petto e ai polpastrelli la fossa alla nascita del mio collo, intrappolandomi in una stretta dalla quale non so sottrarmi.

«Non andartene e dimmi dove trovarlo.»

Di fronte a te, ecco dove. Ma non ho la forza per dirlo perché sento che la voce mi trema. Tutti i miei errori sono venuti a chiedere il conto per mano di un nero angelo dagli occhi smeraldo, pronto a condannarmi senza indugio all'oblio, ma è giunto a me troppo presto.

«Ieri notte ha lasciato il South Side, tornerà la mattina di questo sabato.» Il tempo di lasciare ai tre impresari il carico che richiedono e mettere finalmente un punto con la famiglia Lee.

Questi occhi però mi seguono, notando la mia esitazione.

«Non ti credo.»

«Potrai constatarlo di persona. Ti condurrò da lui questo sabato.»

«E dovrei crederti? Per quanto ne so potresti andare a informarlo.»

No, non lo farei, perché ormai mi sono arreso, ed è tempo che anche lui lo capisca.

Fisso dentro questi occhi pieni di verità, decidendo loro di non fuggire. Promettendo loro che avranno tutto ciò che vorranno.

«Te lo giuro su Oliver. Ti condurrò da Rais, sabato mattina, alle nove in punto.»

Nient'altro potevo promettergli affinché lui ci credesse. Dal nostro scambio di battute ho capito quanto sia a conoscenza della nostra amicizia, la sola cosa che è rimasta vera in tutto questo.

La sua mano, ancora premuta contro il mio petto, genera uno strano calore sull'epidermide, a causa di quella pressione. Ma quando la allontana, la reazione del mio corpo è peggiore; strisciando sulla mia pelle, nel distacco, la sua mano lascia il freddo al centro del mio petto ed evidenzia il vuoto che è rimasto dentro me. Non c'è più niente da preservare, e quello che resta non è che un eco, nel quale si disperde la voce.

«Lo hai promesso su Oliver. Se non manterrai la parola data saprò dove trovarti.»

Ed io mi lascerò trovare. Alle nove in punto, sabato mattina.

Retrocedo appena sui miei passi ed abbandono la stanza, avvertendo la sua presenza alle mie spalle e i suoi occhi che continuano a intrappolarmi come solo può fare un giudizio eterno, la fine pronta ad aspettarti all'angolo.

P.O.V.
Francis

Non so a che cosa credere. Non so se le parole di questo sconosciuto siano vere né quanta affidabilità dare loro. Seguo con lo sguardo la sua ritirata, la schiena che mi rivolge, i suoi passi lenti.

Se ne sta andando senza dirmi nient'altro, senza lasciarmi alcuna garanzia che non siano le sue parole. La mia patetica minaccia è stata quella di tornare a scovarlo, ma Oliver me lo permetterà mai? Sapendo il male che voglio fargli mi consentirà, di nuovo, un altro incontro?

Compiendo pochi passi in direzione degli affilati raggi di sole, mi soffermo di fronte a una delle finestre, vendo lo sconosciuto uscire per strada. La testa quasi calva lascia intravedere il chiarore della pelle che si estende lungo la vallata del collo, intrappolandosi dentro gli abiti neri.

Richiamato dai miei occhi, lo sconosciuto si volta appena, rimanendo fermo lungo la strada, e mi fissa in un azzurro immobile, in silenzio, senza un ulteriore addio.

Non mi resta altro che aspettare.

Esausto, mi allontano dalla finestra e compio brevi passi dentro la stanza prima di sedermi sui talloni, caricando il corpo sulla punta dei piedi, e lasciarmi andare alla deriva.

Lo sto facendo per Gyasi, ho bisogno di ripetermelo e la mano si posa sulla bocca, torturando le labbra. Sto entrando dentro un gioco che sembra essere infinito, solo per lui.

Sarebbe fiero della rabbia, e della tristezza, che si sta impossessando di me adesso? Non era mai stato un estimatore di entrambe, disprezzando più la rabbia, come sinonimo di violenza, con tutto se stesso. Per quanto riguarda la tristezza, invece, la considerava una malattia lenta che troppo presto prende il controllo, quasi un mostro difficile da valicare. Gyasi vorrebbe che andassi avanti, ma non ci riesco... non riesco a farlo.

Distendo le gambe e mi siedo a terra, appoggiando le braccia sui ginocchi sollevati e fissando il posto lasciato vuoto dalla figura che ha appena lasciato la stanza.

Siamo tutti possessori di una dose informe di tristezza, in qualche modo, solo che alcuni la sanno nascondere meglio di molti altri.

Sospiro, prendendo coraggio. Devo trovare Oliver, per ringrazialo dell'incontro che mi ha concesso ma anche per tenerlo lontano da Taigar quanto basta da non renderlo succube.

Mi sollevo con lentezza e abbandono la stanza, tornando nella strada che adesso è completamente vuota e ripercorrendo la via affrontata venendo qui.

Trovo il rosso ragazzo poco distante, con la testa bassa e lo sguardo perso, il sangue che cola appena lungo il labbro. Resto di fronte a lui, appena laterale alla sua visuale, il tempo che serve per fargli rendere conto lentamente della mia presenza e non impaurirlo. Oliver si sposta leggermente, mettendo le mani dentro le tasche bucate del soprabito con soggezione.

«Se mi prometti che non mi rubi di nuovo i soldi ti porto fuori a mangiare.»

La sua testa si solleva verso di me e la sorpresa è evidente sul viso, ma dura solo un attimo.

«Per quei pochi spiccioli?» Commenta in uno sbuffo, nascondendosi ancora più in sé stesso. «Sei povero almeno quanto me, la gentilezza non occorre» mi fa presente, e solo ora noto la tenerezza del suo viso mentre le labbra, serrate, chiudono gli orrori dell'avventura di quella bocca distrutta. Oliver ha la pelle di un pallido rosato, e sulle sue guance sono presenti persino delle efelidi. I riccioli rossi, curvi almeno quanto i miei, gli permettono di celare alcune espressioni involontarie ma solitamente quella bocca trema, come poco fa, vinta dalla sorpresa.

«D'accordo, allora seguimi.»

Sgrana gli occhi marroni e stavolta è il mio turno di fare strada, venendo però fermato agli inizi della mia tratta.

«Francis...» mi volto nella sua direzione in tempo per notare la fragilità che indossa. «Devo guadagnare.»

Rimango immobile proprio come lui, mani nelle tasche, e lo fisso senza far scendere gli occhi lungo il suo vestiario e senza fissarlo, adesso, come la prima volta che ci siamo notati. Lo guardo e mi chiedo che cosa sarebbe di lui adesso, se non fosse inciampato su queste strade, se anche lui fosse mai stato in grado di manifestare un sincero sorriso o una gioia incontenibile. Si tratta della visione di un nuovo mondo, di un parallelismo che renderebbe me e Oliver di nuovo liberi, e mi lascio cullare in quella visione con compiacenza, certo di poter avere parte di quel mondo indietro.

«No, non devi» gli dico, credendolo davvero e l'Oliver di questa vita non mi rivolge alcuna emozione, se non un accennato sfarfallio, al margine dei suoi occhi. C'è ancora tempo per dar vita a quella scintilla e ne abbiamo tutte le possibilità.

Inizio a camminare con lentezza, un passo dopo l'altro, ascoltando il silenzio che i miei soli passi evidenziano in questa via. Poi si aggiungono i suoi ed il mio sorriso, mentre gli sono di spalle, si manifesta sincero. Non pronuncio una sola parola al fine di non rompere l'incantesimo ed è così che camminiamo, a metri di distanza, lungo il South Side superando la via vecchia. Costeggiamo i vicoli, ci macchiamo delle discussioni tra compaesani sempre più crescenti, fino ad arrivare di fronte al portone del mio palazzo.

Afferro le chiavi, sentendo i passi di Oliver bloccarsi, e non mi lascio intimorire. Ruoto la chiave e inizio a percorrere le scale, sperando con tutto il cuore che non stia pensando che gli voglia fare del male.

Sono giunto al secondo piano di scale quando avverto i passi di Oliver superare il portone di ingresso e venirmi dietro, per quanto con esitazione. Sempre meglio tardi che mai, penso, ormai vicino all'entrata condominiale di casa mia con una nuova chiave alla mano.

Faccio strada all'interno dell'abitazione decidendo di lasciare la porta aperta e noto subito la totale assenza dei miei familiari. Come sempre, mio padre lavora alla corsa dei taxi, mio fratello è a scuola e mia madre da qualche vicina. Siamo solo noi, e da una parte la cosa mi rincuora; non so immaginarmi che faccia farebbe mia madre se vedesse che genere di sconosciuto ho portato, specie dopo avermi teso un tiro tanto mancino come quello della scorsa volta.

Ma eccolo qui, Oliver, entrare mentre mi sto sfilando il cappotto. Con gli occhi capta tutto ciò che vede intorno, proprio come avevo fatto io poco fa nella casa alla quale mi aveva condotto, e la sua allerta cala solo di quanto basta a non farlo scattare per una mossa compiuta troppo velocemente. Lo noto dal suo sguardo; non è ancora del tutto tranquillo e teme che io stia giocando per una ripicca, dunque è il caso di metterlo a suo agio.

«Che cosa ti piace mangiare? Un altro panino come quello della tavola calda?» Domando, avvicinandomi alla cucina mentre risvolto le maniche del maglione.

Oliver non mi risponde, così sono costretto a fissarlo.

«Perché fai tutto questo?»

Lo domanda con le braccia lungo i fianchi, completamente arreso adesso a qualsiasi mio comportamento, con la voce che lascia trasparire la difficoltà.

Continuo a ripiegare le maniche, consapevole di possedere una risposta che non otterrà.

«Avanti, siediti» gli suggerisco, indicandogli con la testa una delle sedie presenti attorno al tavolo della cucina. Accertandomi che prenda posto, inizio a recuperare gli ingredienti per un cibo povero ma semplice.

«Vivi qui da solo?»

«No, con la mia famiglia.»

«E dove sono tutti?»

Lancio uno sguardo all'orologio presente sulla parete, prima di versare l'olio dentro una padella. «Tra poco è ora di pranzo, mio padre ha il turno continuato a lavoro, mia madre è fuori e mio fratello a scuola.»

«Hai un fratello?»

«Sì, ho un fratello più piccolo.»

«E come è?»

Sospiro. «Uguale a me, ma molto più arrabbiato.»

«Io sono figlio unico, deve essere bello avere un fratello.» Rimango in silenzio, scartando dalla confezione la fetta di formaggio da sciogliere per poi udire, a malapena, la domande che mi porge. «Come ti è sembrato?»

«Chi?» Tento di agire con furbizia, per ricavare un nome, ma Oliver non cede a nessuna forma di raggiro.

«Lui... come ti è sembrato?»

«Estremamente calmo.»

«Stava bene? Era spaesato?»

Mi volto appena, notando la preoccupazione del ragazzo. «Perché me lo chiedi?»

Si tortura le mani... ho notato che lo fa spesso quando è agitato, e distoglie anche lo sguardo. «Ha dei problemi.»

«Di che tipo?»

Troppo personale. Ritorna a me con gli occhi quasi lo avessi ferito con un ago appuntito su di un nervo scoperto.

«Problemi, l'importante è che non sia successo niente.»

Certo di non ricavare molto altro, torno alla mia cucina e recupero qualche fetta di pane.

«Dici di non avere un fratello ma lui lo consideri tale, non è così?»

«Può sembrarti strano sentire una cosa simile sul suo conto, ma lui mi ha aiutato molto. Più di quanto immagini.»

Non esito a crederlo, visto il rispetto che ha nei suoi confronti, quasi una forma di venerazione e mi domando come si possa provare qualcosa del genere per qualcuno che ti dona la morte.

La cosa mi disgusta.

Poso il piatto pronto di fronte alla sua postazione, senza troppo cogliere la sua reazione visto il fastidio appena nato dentro di me ma ogni sua reazione tarda ad arrivare e così finisco per fissarlo. Sta sorridendo in un modo che non gli ho mai visto fare, rimanendo davanti a questo pranzo caldo.

«Mi hai preparato dei toast al formaggio?» Domanda, e qualcosa si nasconde dietro le sue parole, come una nota di dolcezza.

Appoggio i palmi delle mani contro il tavolo, sbilanciandomi appena in avanti mentre lui solleva la testa e mi sorride, con candore. Oggi sembra più fragile del solito e forse la colpa è attribuibile a quell'uomo che è stato troppo violento con lui. Forse la causa sono gli effetti mentalmente distensivi della droga ma, in qualche modo, sento che questa è la verità, questo l'Oliver che mi sarei dovuto trovare dinanzi fin dall'inizio. Un ragazzo che si emoziona per un piatto appena preparato, anche se sembra esserci dietro altro.

«Non ti piace?» Domando e come risposta lo vedo stringersi brevemente nelle spalle, afferrando la forchetta in un mezzo sorriso.

«Mi piace molto... grazie.»

Quello che è certo è che non posso scoprire i suoi segreti tanto facilmente per cui mi arrendo e finisco per volgere l'attenzione verso altro.

«Hai una famiglia, Oliver?»

«Non ne sono molto sicuro, non sono cresciuto con loro ma mio padre, per lo meno, sono certo che sia ancora vivo... gli stronzi non muoiono mai.»

«È un tipo severo?»

La forchetta rallenta la propria presa, diventando debole conquistatrice di quei piccoli bocconi di cibo accuratamente spezzettati.

«Sì... molto.»

«Capisco, anche il mio non è da meno» commento, sollevandomi eretto per poter allentare lievemente i polsini del maglione che adesso stringono. «Se non fosse mio padre penserei che, la maggior parte delle volte, non mi riservi che disprezzo.»

La nostra vita deve essere, in qualche modo, molto simile perché colto da questa confessione Oliver perde parte delle sue autodifese, decidendo di prestarmi ascolto.

«Per quale motivo?»

Stavolta è il mio turno di stringermi nelle spalle, ammettendo una verità che mi fa storcere la bocca. «Credo che si aspetti un certo tipo di figlio. Uno irascibile, pronto sempre a combattere, che non si faccia mettere i piedi in testa ed io non sono così. Diciamo che, la maggior parte delle volte, tento di scendere a compromessi.»

«Non è così che mi sei sembrato...»

«Sono pur sempre cresciuto con i suoi insegnamenti... quando tengo a qualcosa e questa mi viene sottratta reagisco nel peggiore dei modi. Non sono violento ma qualcosa, del carattere di mio padre, si è insediata in me e non vuole sentire ragioni per andarsene.»

Ormai ho scelto di parlare apertamente con Oliver, senza alcun tipo di ostacolo. L'unico inconveniente è la difficoltà del tema trattato, per cui recupero la mia confezione di sigarette e ne accendo una, lasciando poi l'accendino sul tavolo.

Lui osserva con gli occhi quella mossa e forse dentro di sé rielabora quanto gli ho detto, traendone conclusioni che possono essere vere. Odio mio padre? Alle volte, sono più legato a mia madre. Vorrei non trovarmi mai ad apprezzare l'utilità dei suoi insegnamenti, gratuitamente offerti? La maggior parte del tempo. A quest'ora sarei una persona migliore, per quanto mi distingua dall'essere diametralmente opposto al prototipo di figlio perfetto che tanto idealizza.

«E tuo fratello? È come te?»

«Lui è molto legato a mio padre, la maggior parte del tempo ne imita anche gli atteggiamenti. Per fortuna, però, non è come lui.»

«Quando mio padre ha scoperto che mi facevo, mi ha picchiato talmente tanto forte da farmi perdere i sensi...» afferma in un sussurro stentato, a malapena udibile. Taccio, dietro il profilo nascente della mia linea di fumo, e lo osservo aspettando che mi riveli molto altro. Mi sento come un personaggio cattivo delle fiabe che offre da mangiare ai piccoli, innocenti, protagonisti al fine di carpire informazioni sulle loro origini. Hai un padre? Hai una madre? Come conosci Rais?

«Non mi resi nemmeno conto di niente, il dolore arrivò il giorno dopo, una volta smaltita la dose. Provavo fitte ovunque quando raggiunsi Taigar.»

Questo racconto mi colpisce come l'immagine di questo semplice ragazzo vittima di violenti colpi, che arranca lungo la via vecchia alla ricerca della speranza.

«Perché proprio lui?»

Si stringe nelle spalle, lasciando cadere il piccolo boccone di formaggio fuso per poi riafferrarlo. «Non sapevo dove altro andare. Girava voce che non chiedesse tanto, con un affitto basso sarei riuscito a rimanere, credevo di trovare qualche lavoro. Anche pagato al nero, andava bene per un minorenne, ma bastava avere qualcosa.»

«Non hai niente?»

Un interrogativo del genere, nato dal bisogno di scoprire a cosa queste mani malferme e piccole riescano ad aggrapparsi, contiene in sé la visione di un contesto più amplio che lo condanna alla tristezza.

«No... alle volte è Rais a darmi una mano.»

Rimango nel costretto silenzio necessario da sfoggiare nei momenti durante i quali non si desidera rompere un equilibrio, nato con perfezione. Ho condotto Oliver dove desideravo, con la semplice strategia di una gentilezza, e in un primo momento questo sprovveduto ragazzo non se ne accorge. Mastica lento, perso nei propri pensieri ma, a un tratto, sgrana gli occhi e mi ritrova dal lato opposto della sua postazione, con la sigaretta ancora tra le mani.

«Intendo... voglio dire che mi aiuta, con la mia dipendenza. Quando sono fatto nemmeno mi accorgo di quello che mi fa la gente, la droga mi stordisce.»

«Oliver...» mormoro piano, attento alle parole da pronunciare. «Sei in stretti rapporti anche con Rais?»

«No!»

«E il tuo spacciatore? Lui si?»

«Non posso parlare per lui.»

«Oliver...»

«No.»

È una bugia. Lo avverto dal tremore della sua voce e lo recepisco dalla difficoltà che compie nel mentirmi. Perché lo vuole disperatamente proteggere? È una forma di paura, la sua? Teme delle ripercussioni?

Prendo un profondo sospiro decidendo, al contrario suo, di non tenerlo all'oscuro di niente.

«Puoi smetterla di proteggerlo tanto. Io e il tuo spacciatore abbiamo fatto un accordo; mi porterà da Rais questo sabato mattina.»

I suoi occhi, rimasti sgranati, sembrano comunque colpiti da queste parole e la confusione li macchia di incertezza.

«Ti consegnerà a lui?»

«Consegnerà Rais a me. A quanto pare tiene molto di più alla tua incolumità che a quella di Rais.»

«Questo è certo...» mormora a voce bassa, ed io sollevo un sopracciglio. Allora, il suo spacciatore e Rais non sono in buoni rapporti? Una fortuna. «Devo andare adesso» lo sento dire, e lo vedo alzarsi l'attimo dopo in piedi, già a un passo dalla porta.

«Oliver» lo richiamo, ed il rosso si arresta, voltandosi di poco verso di me. «Non ti ho portato qui solo per farti delle domande» confesso schietto, notando come la sua pelle seminuda tremi, dal disagio e dal freddo invernale. «Volevo ringraziarti per quello che hai fatto per me. Ogni volta che vorrai la mia porta sarà sempre aperta. Non dovresti fare quello che fai. Non dovresti... tanto meno per mangiare.»

Nonostante la distanza, ritrovo le sue labbra che lievemente tremano, il suo respiro che esce lento da esse e quello stordimento che solo un randagio può avere, di fronte alla benevolenza di una mano tesa. Spero che mi dia ascolto, e che sappia di poter tornare ogni volta che ne avrà bisogno.

Questa città è ammalata, ma c'è ancora qualcosa di buono nelle sue radici ed è compito di tutti noi tenerlo in vita.

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