10- L'inizio della sfida
P.O.V.
Rais
Da lunghi minuti non vedo altro che un bianco perlaceo, il colore di cui sono tinte le sue lenzuola.
Si tratta di seta vera, me lo ha confermato in una mezza risata un giorno, divertito dallo stupore e dalla rabbia che ho avuto nello sfiorarle. Nudo, su quel letto di soldi, mi ero chiesto come si potesse abusare così del proprio potere, sfoggiandolo come una bandiera nei venti del malaffare.
Eppure avrei dovuto aspettarmelo, perché a lui non interessa di niente che non sia sé stesso. È sciocco chiunque pensi il contrario ed è giusto così: anche io penso solo a me stesso quando vengo qui, perché essere egoista è stata l'unica condizione che mi ha permesso di sopravvivere. Niente c'entra l'interesse o l'affanno di conquista. Possedere è la brama di chiunque abbia un minimo di cervello, ed è per questo che tanto la osteggia.
Ruoto il corpo per sdraiarmi di schiena e osservarlo, nudo, bere alla finestra il suo bourbon. Anche in questo, il mio interesse dura poco. Accarezzo con la punta delle dita le lenzuola che mi avvolgono, sentendomi alla stregua di un principe neonato.
Un piccolo movimento attira il mio sguardo; le sue dita hanno lasciato posare il bicchiere vuoto su di un tavolo ed è così che il vero principe di questa reggia torna fino a me, seguendo con gli occhi la mia nudità con un desiderio che non so essere autentico.
Celesti, i suoi occhi brillano divertiti come il suo sguardo, la sua bocca arricciata che sembra appartenere allo stesso demone che invoco, ogni volta che supero il portone di questo ingresso, affinché mi faccia dimenticare.
«Che cos'è quella faccia?» Mi domanda, posando una mano all'indietro contro le lenzuola così da mostrarmi la flessione dei muscoli dell'addome. «Non ti sono piaciuto?»
Nel piccolo silenzio che segue la sua domanda, il braccio piegato sotto la mia testa non si muove così come le dita non smettono di vorticare contro le lenzuola. Vorrei portarne a casa, un paio di queste.
«E a te è piaciuto?» Domando, piuttosto, ed il suo sorriso da demone si affina.
«Non verrei con te, altrimenti.»
Sospiro, abbassando gli occhi preso dalla stanchezza ma non lasciandomi sfuggire lo sguardo che dirige al mio petto durante la fuoriuscita di ossigeno.
«Ed io che pensavo tu lo facessi solo per controllarmi» replico, e nonostante non lo veda capisco bene quanto il suo sorriso si sia, ulteriormente, dispiegato, ed infatti eccolo qui. Innamorato solo della mia intelligenza e di quella tristezza che indosso, in grado di farmi vedere tutto piuttosto chiaramente. Ancora, però, non ha fatto interamente i conti con la mia schiettezza e il bisogno di sapere. «Credevo ti scopassi tua cugina.»
William rimane in silenzio, ma mi osserva con la sua solita calma.
«Dafne è ancora troppo piccola...»
«Ma le hai già messo gli occhi addosso, non è vero?»
Ecco. Solo ora le sue iridi brillano. Non durante una scopata ma al pensiero di avere lei, che macabro risvolto... ma quello che ci si aspetta, da un ricco e depravato ragazzo come lui.
Dimostra quasi di aver vissuto cento età diverse. Forse, la colpa è del padre. Il signor Lee gli ha fatto vivere di tutto, tra cui il trauma di quella festa di compleanno degli undici anni. Me ne ha parlato, più di una volta, quasi in maniera ossessiva. Il primo giorno che gli era stata data in mano un'arma e la possibilità di uccidere.
Aveva afferrato entrambe. Stupido divertimento da ricchi.
«Ci sono altre cose più importanti di questa» commenta, scorrendo con le dita dal mio collo al mio torace lungo quella linea invisibile che lo connette all'ombelico e quindi al mio pube. Si sofferma prima di quest'ultima tratta, fissandomi negli occhi per ottenere ciò che suo padre ha richiesto a entrambi. «Come sta andando il commercio della droga?»
«Nel South Side?» Sbuffo. «Una meraviglia.»
Rassicurato da una simile confessione, si lascia andare alle spiacevoli confidenze richieste da questa sua specie di prostituzione.
«È un popolo triste quanto te o tu li batti tutti?»
«Hai conosciuto qualcun altro più triste di me?»
«Se ti rispondessi "solo me stesso" ti farei ridere?»
Sogghigno ed il suo sguardo si illumina. Non posso credere che volesse essere serio.
«Non puoi essere triste, circondato da tutto questo lusso» commento, indicandogli l'intorno della villa Lee, in tutto il suo oro.
Wiliam segue il mio sguardo e sorride.
«Infatti non lo sono.»
No, non lo è. Si glorifica maledettamente bene di questi vizi, penso, vedendolo di nuovo sollevarsi in piedi per raggiungere con passo stanco l'altro lato della camera.
Ama farsi guardare ed io lo guardo, scorro gli occhi lungo quel corpo perfettamente scolpito per risalire fino ai capelli biondi, solitamente tirati indietro con del pettine e del gel e quello che provo è qualcosa di contrastante.
William mi suscita disgusto, per l'uomo che è, per il cognome che porta, eppure al tempo stesso è qualcosa di facile e in grado di autodistruggermi. Non c'è niente peggiore di lui ed è per questo che me lo merito; devo avere il niente, non essendo composto d'altro. Vendo dipendenze, lo faccio per vivere e lo eseguo sotto il comando di questa sporca famiglia di ricchi.
Quale uomo si farebbe mai comandare così, senza chiedere in cambio niente? Per questo motivo, il signor Lee mi ha posto suo figlio alle calcagna, per capire le mie intenzioni e se ogni mia azione avesse un fine.
Ma io da loro non voglio nient'altro che protezione, il meglio che maschera il peggio, avendo vissuto per le strade e avendo concepito sulla mia pelle quanto a fondo si radica il male. Eccomene imbevuto, la mia nudità permette a questo sentimento informe di attaccarsi con aderenza.
Possono schierare qualsiasi forma di esercito, dietro il mio volto non è rimasto niente.
«Hai tempo, prima di andartene?» Mi domanda, di fronte all'ovale specchio sorretto a terra con dei piedi d'oro, mentre si aggiusta la camicia.
Forse me lo chiede conoscendo la mia vecchia abitudine di portami un po' di droga dietro. William è un attento consumatore, non si lascia vincere dal vizio ma gioca con il rischio della morte in maniera costante. Un po' come me.
«No, è tempo che rientri a casa.»
Non ne sono convinto ma William lascia perdere, continuando a rivestirsi e indossando un nuovo orologio. Punto gli occhi su di esso, che sembra essere a tutti gli effetti il modello di un Rolex.
«E quello?» Domando, e William torce il busto appena per sorridermi con ironia.
«Questo un nuovo regalo che mi sono fatto.»
«È molto bello.»
«Se vuoi ne regalo uno anche a te.»
«D'oro così? Mi ucciderebbero per strada prima ancora che possa avvicinarmi a casa mia.»
William non dice niente, tornando a chiudersi i bottoni, e mi domando se una mia simile uscita di scena potrebbe essergli favorevole.
Sono la migliore entrata di denaro per questa famiglia ma, si sa, chi arriva troppo in alto finisce per bruciarsi e se non offro ragione della mia scelta di collaborare verrò presto fatto fuori, come l'ultimo dei perdenti.
Amo troppo, però, restare nel bilico di questa indecisione. Vedere William in allerta, la sua schiena tendersi mentre finge di rimanere distaccato, notando dal riflesso dello specchio che mi rialzo, solo per raggiungerlo.
Provo a nascondere il mio sorriso divertito, avanzando fino alle sue spalle per poi sollevare le mani.
Il biondo non muove un suolo muscolo ma mi sta osservando, attraverso questo vetro.
Aggiusto il bavero della sua camicia, rimasto scomposto all'altezza della sua nuca, e decido di smettere di celare allo specchio la mia ironia. Osservo il nostro riflesso, la contrapposizione tra i miei capelli quasi del tutto rasati e la sua chioma lucente da falso principe azzurro accompagnata dal luccichio che genera il sole nello scontrarsi con il mio orecchino a cerchio, fissato al lobo destro.
«Così è perfetto» commento, abbandonandolo nel suo istinto di guardia dentro il quale aspetto che soffochi. Niente mi darebbe maggiore piacere di vederlo fallire, ma William non me ne dona mai modo e in un lampo si cancella dalla faccia la preoccupazione, dispiegando la bocca in un sorriso.
«Ti ringrazio.»
Sì, certo.
Adesso è giunto il mio turno, di prepararmi. Recupero da terra gli slip, i neri pantaloni, la fibbia con le borchie, la maglia bianca con le stampe e mi rivesto con ordine. Inseriti i capi del vestiario, lascio scorrere il gancio della cintura fino all'adeguato foro, stringendo all'interno dei pantaloni la maglia sulla quale si generano delle pieghe.
Per ultime, le scarpe. Sono delle sneakers di tela nera, non indosso altro, e rimettendole ai piedi noto quanto si siano sporcate della terra che costantemente vortica come polvere sulle strade della mia città. La punta è consumata dall'usura, così come lo sono questi pantaloni, ma da buon abitudinario mi decido a non cambiarli.
Poco importa l'immagine quando alle persone interessa il contenuto, specie quello conservato nella tasca interna al giubbotto in pelle nero che indosso.
«Questa la lasci a me?» Chiede William, afferrando dalla tasca un mio pacchetto pieno di polvere bianca e facendomelo dondolare di fronte agli occhi.
Sorrido falsamente, e lo riprendo per metterlo a posto. «Mi spiace, ma devi pagare.»
Quello che abbiamo fatto tra le lenzuola risulta nettamente insufficiente rispetto alle mie tariffe, dovrebbe saperlo, vendo solo merce di qualità. E questo suo finto approccio buonista mi disgusta.
«Passo da tuo padre, prima di andarmene» lo informo, ma la sua voce mi arresta.
«Non è in casa.»
Picchietto l'indice contro il pollice mentre gli sono di spalle, a un passo dalla porta, preso dal nervosismo. È da una settimana che il signor Lee non vuole vedermi, e questo ulteriore rifiuto non è che una conferma a tutti i dubbi che questa famiglia sembra avere nei miei riguardi.
Sorrido, voltandomi verso di lui che, finto, mi ricambia. Quale ipocrita falsità.
«Non importa, passerò un altro giorno. Tu, invece, salutami il tuo angelo» gli dico, facendo fronte al soprannome che ha dato a sua cugina. Non sapeva che ne fossi a conoscenza, almeno fino ad adesso, e godo nel vedere la sua sicurezza che lentamente si inclina.
Con questa sua espressione di falsa concupidescenza, abbandono la villa Lee per tornare al mio stato di povertà, una situazione decisamente più facile da gestire.
Ripercorro il vialetto di ingresso, smuovendo la ghiaia che conduce fino al grande cancello e rifletto sui miei futuri compiti, su come riconquistare nello specifico la fiducia di Lee. Sto per fare affari con altra gente importante, ottimi fornitori, e ho bisogno della sua protezione, ora come non mai. Deve credermi e darmi appoggio, o sono certo che il mio corpo finalmente si ricongiungerà con la dimenticanza di qualche fosso. Chi si accorgerà che sono morto? Forse, solo le persone alle quali ho instillato una dipendenza. Loro mi saranno sempre vicini come lo sono ad oggi nel richiedermi sempre di più, sempre meglio.
Sollevo la testa quanto basta per vedere il braccio destro del braccio destro del signor Lee, il grande capo, affiancare la macchina che mi riporterà verso casa. È un ottimo autista e, per fortuna, anche un uomo sufficientemente saggio da comprendere il valore del silenzio. Non pone domande mentre recupero la mia postazione e non mi osserva, dallo specchietto retrovisore, per vedere se sto per compiere delle mosse improvvisate.
Il primo, di quella famiglia, che non mi controlla. Ed il paesaggio che scorre veloce oltre i finestrini della macchina che guida simula l'illusione di una libertà che non posseggo. Sono schiavo proprio come lo è William dei voleri del suo vecchio, come lo è ogni persona in quel sudicio South Side... perché ognuno di noi controlla qualcosa, almeno quanto ne è controllato. E sta diventando noiosa questa routine, la vita una linea piatta.
Se ci fosse qualcosa, ad alternare gli equilibri, me ne metterei in guardia, rimanendo però al tempo stesso terribilmente affascinato.
Mentre lascio ruotare, verso l'alto, l'orecchino all'interno del mio lobo l'autista posteggia, mostrandomi dietro i vetri il South Side.
La distanza tra la mia di casa e quella di William non è breve ma i pensieri che mi governano hanno masticato la tratta, ed ora mi abbandonano, proprio mentre sto per scendere.
Chiudo la portiera e la macchina mi lascia come una valigia in un aeroporto, alla velocità di un lampo, uscendo di scena con una nuvola di fumo e polvere a simboleggiare il suo addio. In questo modo di mi ritrovo di nuovo solo, di fronte alla mia triste città.
Procedo in avanti lungo la via vecchia con il sole che si approccia a tramontare, dietro gli spigoli erosi di queste vecchie case.
Già diretto verso un preciso fine, procedo spedito finché qualcosa non attira la mia attenzione. Torno indietro, e guardo in alto.
Le mie scarpe appese al filo non sono alla metà esatta, ma decisamente spostate sulla sinistra. Le osservo per un lungo attimo, meditando su quale sciocco abbia avuto il coraggio di muoverle ma, optando per l'opzione che comporta meno danni, giustifico la cosa come lo scherzo o il divertimento di qualche bambino piccolo, e ritorno a incedere.
La casa "dei giovani piaceri", come tanto ama chiamarla quel farabutto che la dirige, non è tanto distante, e mi raggiunge nella sua decadenza qualche minuto dopo. Come era possibile immaginare, il vecchio se ne sta appoggiato al portone semi aperto, rigirandosi tra le mani il suo amato coltello.
«Taigar! Come va, vecchio mio?» Esordisco in un eccesso di ilarità che fa a botte con il suo pessimo carattere.
«Sei in ritardo» replica scorbutico, sollevando lento lo sguardo verso di me in un'osservazione minacciosa dietro quei suoi lunghi capelli castano scuri, ma tento di non lasciarmi persuadere dalla sua cattiveria e ne rifuggo.
«Lo so, il ragazzo è dentro?»
Tace per un lungo minuto, lasciandomi in sospeso ad osservare come pulisce le unghie della mano destra, tramite la punta rovinata del serramanico.
«Seconda porta a destra, la strada la sai.»
Sì, la so, ma sembra sempre occorrere il suo consenso per oltrepassare l'ingresso. Abbasso il capo, proprio come si fa con un re, e mi addentro in questa casa degli orrori.
Ciò che vedo, però, non mi sconcerta più, per quanto accada di tutto in posti del genere. L'unica nota di dolcezza è riuscire a osservare, con la coda dell'occhio, i due novellini a questo mondo stretti in una sola coperta, dentro un abbraccio.
Non è comune trovare calore, qui. A causa degli infissi rotti come dell'orrore di questa vita affidata a gente priva di forze.
Il ragazzo da cui sto andando è uno dei più tenaci, ma ha comunque cercato la sua rovina e, mio malgrado, quella rovina sono proprio io.
Batto la nocca contro la sua porta mezza scardinata, fingendo di affidare al suo quotidiano una privacy che non potrà mai ottenere, ed è per questo motivo che non mi risponde.
Mentre entro noto che si sta asciugando i capelli con un panno, a seguito del bagno eseguito in quel minuscolo catino poco lontano dai suoi piedi. Indosso porta un semplice e lungo asciugamano attorcigliato ai suoi fianchi ed il suo viso si rischiara nel vedermi arrivare.
«Rais! Temevo non tornassi più.»
Un po' mi odio. Molto mi detesto, quando questo rossiccio ragazzo avanza fino a me e mi abbraccia. Mi stringe al petto, soffocandomi in un affetto che non vorrei provasse.
«L'hai portata?» Mi chiede, ed io ad occhi chiusi annuisco, con una grossa ferita che si apre sempre di più nel petto.
Oliver si allontana da me con un sorriso enorme sul volto, e si occupa veloce di prendere qualche vestito, lasciar cadere quindi l'asciugamano e afferrare il tubicino in gomma che gli occorrerà per eseguire l'operazione.
«Ho avuto davvero paura, stavolta, Rais. Hai tardato una settimana.»
Sì... e le conseguenze sono visibili nelle escoriazioni della sua pelle, ma avevo provato a non presentarmi. Ho cercato, in un modo patetico, di salvare il mio migliore amico dall'autodistruzione.
«Mi dispiace, Oliver. Ora sono qui.»
Sa già cosa fare. Sorridendo, afferra dalla mia tasca destra la bustina a lui destinata, e che aveva provato ad afferrare William, meno di un'ora fa. Ma quello schifoso riccone può ottenere tutta la droga che vuole... Oliver, invece, ha aspettato che gli portassi questa misera bustina, per essere felice.
Il quantitativo è inferiore rispetto al solito ma non se ne rende conto, tanta è la felicità di avere di nuovo una dose.
Il contenuto corre veloce dalla siringa a dentro il suo corpo e mentre il suo viso si trasforma nell'immagine dell'estasi il mio assume una smorfia di deformità.
«Oh, Rais, avevo davvero paura che ti avessero preso...»
«Chi doveva prendermi? La polizia?» Chiedo senza interesse, continuando a vedere la droga scorrere.
Oliver, appoggiato con la testa all'indietro sulla poltrona distrutta della sua camera, assomiglia a uno di quegli angeli dipinti nella loro sofferenza e esaltazione. La sua pelle bianca, poi, riluce il pallore che viene stemperato solo sul petto e sulle gambe, tramite la peluria che rende questo vero angelo umano.
«Ti conoscono in troppi, le persone ti cercando. Anche quel ragazzo, oggi...»
La voce di Oliver si disperde ma la mia attenzione viene recuperata da questo insolito particolare.
«Ragazzo? Quale ragazzo?»
«Si chiama Francis, mi ha seguito fino a qui» sussurra, con gli occhi chiusi e disperso nel suo mondo nuovo. Io, invece, con alle spalle la porta chiusa della stanza sono trafitto dalla sorpresa della sua voce che mi racconta questa strana figura coraggiosa, spintosi fino alle porte di Taigar.
«È arrabbiato con te, hai ucciso il suo uomo» rivela, e con queste parole si addormenta del tutto, lasciandosi andare.
Rimango in piedi il tempo che basta per recuperare le informazioni che mi ha dato e rimettere insieme i pezzi. Accertatomi, poi, che Oliver respiri torno indietro, superando Taigar all'ingresso e camminando nuovamente sui miei stessi passi.
Una volta raggiunte le scarpe, salgo l'unica rampa di scale dell'edificio rosso di sinistra. Disfo il nodo del filo che avevo chiuso tre anni fa e lascio scorrere quel simbolo di proprietà fino a me.
Sto già sorridendo mentre slaccio i nodi che stringono la calzatura per poi sollevare la soletta della scarpa destra, con sotto riportato il mio nome.
Una linea rosso indelebile l'ha cancellato in un solco netto, uccidendomi in un assassino del quale sono a conoscenza solo io e questo assurdo ideatore.
Rialzo la testa, sorridendo di fronte al filo che mi sono dimenticato di legare nuovamente al cappio e che adesso pende inanime sulla facciata del fabbricato opposto. Una perdita di controllo volutamente desiderata.
Maledetto bastardo.
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