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Cibo, non cibo: chi troppo, chi niente

||•Questo capitolo fa parte del mio diario, quindi per chi l'ha letto, sono pensieri già conosciuti. Lo metto qui per non farvi cercare il diario. Non mi frega un cazzo di avere visualizzazioni e stelline•||

Nei paesi industrializzati come l' Italia, 8-10 ragazze su 100 tra i 12 e i 25 anni di età soffrono di disturbi del comportamento alimentare, di queste 1-2 nelle forme più gravi. In Italia fanno tre milioni di persone e nel 90% dei casi si tratta di donne.

Le tre testimonianze seguenti sono state prese da internet.

{Cosiddetta "secchiona", quando andavo al liceo studiavo tutto il giorno. Non ero una persona particolarmente brillante, una che leggeva una pagina e la sapeva subito a memoria o che capiva al volo le spiegazioni, e tutto quel tempo lo ritenevo necessario. Mia madre mi aveva sempre seguita nello studio e ci teneva che prendessi "bei voti": io davo il massimo per soddisfarla, e del resto anche a me facevano piacere. Da qui però si è innescato un meccanismo per cui alla minima cosa che fosse andata storta, al primo voto sotto le mie aspettative, era una tragedia.

La prima mancanza di rispetto nei confronti del mio corpo, della mia salute, è stata per il poco dormire. Pian piano ho iniziato a fare le ore piccole: studiavo giorno e notte. I risultati si vedevano, ma non c'era gioia nella mia vita. Pochissimo tempo per le amiche e nessun tempo per le mie passioni.

Durante tutte quelle ore a studiare erano frequenti gli spuntini. Fisicamente ero sempre stata "giusta", come si dice. Pian piano avevo assunto forme "rotondeggianti"... e non certo là dove in molte le gradiremmo. Era una cosa che notavo con insoddisfazione ma non con preoccupazione. Questo fino al giorno in cui cerco di infilare un paio di jeans e, presente mia mamma, non ci riesco. Lei mi dice che sono ingrassata e che, se continuo così, divento proprio Grassa. Me lo dice con disprezzo...lo stesso che usava con mio padre (buongustaio) quando gli diceva "Mangi troppo!!".

Mi sento morire. Iniziano le preoccupazioni. Tento di mettermi a dieta. Si trattava di poche rinunce in realtà, anche se per me faticose. Nel giro di mesi perdo due, tre chili, quelli che "potevano anche starci". Però a quel punto non sono soddisfatta. Ho 16 anni, penso: "nella mia vita non mi piace niente: studio e non faccio altro, non ho tempo per niente, non ho amici veri, nessun ragazzo che mi fili. Non mi piace neanche il mio corpo...però a questo posso rimediare". E così, con la stessa determinazione con cui studiavo ore e ore mi metto "a dieta". Questa volta la dieta è severa. Mi impongo di saltare la colazione, o al massimo uno o due biscotti nel tè. Però a volte il tè è meglio non zuccherarlo con un cucchiaio pieno: ingrassa....anzi: meglio niente tè del tutto. Pranzo: insalata con pane. Facciamo mezzo panino...anzi no: un grissino. Cena: è un casino: ci sono i miei a casa, mentre a pranzo sono al lavoro...quindi mi tocca mangiare un po' di più: tipo un po' di minestra e mezzo secondo... ma la situazione poi si appesantisce. Causa mio fratello, 5 anni più piccolo. Lui, al contrario di me, è brillante. Ottimi voti, molti amici, esce, non rinuncia a niente. Sempre elogiato da mia madre. Io vedo la differenza di atteggiamento che mia madre ha con me e lui, e ne soffro. In più tra i miei le cose non vanno benissimo, litigano spesso. Mi sento colpevole. Perché penso che i miei non sono felici, che forse non lo sono perché i figli li prosciugano economicamente (non siamo benestanti) e mio padre, con due lavori, deve passare la notte alla scrivania a correggere compiti, preparare lezioni, vedere film da commentare al Cineforum...e va a letto all'alba, sfinito. Stravedevo per mio padre (ora è morto) e saperlo sempre a lavorare duramente costituiva per me l'obbligo di fare altrettanto, nell'idea che così sentisse di non essere solo. Solo "contro" a mia madre perfettina, solo con le sue responsabilità di padre. Mio fratello invece diventa sempre più viziato, sempre la star...e io pian piano mi faccio da parte, come per annullarmi, come per scomparire...e non a caso, per meglio attuare questo proposito, decido di mangiare ancora meno verificando il livello di "trasparenza": mi peso una ventina di volte al giorno. In base agli esiti mi nego o meno una foglia di insalata...

Non vomitavo, perché ho il terrore del vomito. Prendevo purghe però. Insomma dimagrisco, tanto. Non ho più le mie cose. Ormai da un anno. Nessuno sembra accorgersi di niente. Le cosiddette amiche, hanno decisamente cose più importanti a cui pensare...

Io mi sento sempre più debole, mi gira spesso la testa, perdo i capelli che ormai non sono più lucidi...Ho 17 anni e nessun desiderio sessuale...Anzi: non me ne frega proprio niente.

Fino a quando mia madre, una sera, mi dice: "ma insomma, mangia un po', mi sembri uno scheletrino..." e la rabbia parte, sorda...non è mai contenta...

Il furore cresce, cresce...però una parte di me ha paura: per me ormai stare a dieta è tutto: non ho nient'altro. Voglio essere magra, voglio dimagrire. Il solo pensiero di non potermi pesare mi manda nel panico.

Non accetto assolutamente l'idea di essere anoressica. Poi pian piano, devo ammetterlo, ed è difficile. Però sono sempre stata del parere che la realtà, anche se poi non hai la forza per cambiarla, devi avere almeno il coraggio per guardarla negli occhi. Così faccio. E s'insinua il dubbio. Forse sto sbagliando. Forse non sono più viva così...non c'è più gioia né voglia di vivere...è una dura lotta con quella parte che non si piace e vuole dimagrire a tutti i costi. Ma la Vita vince. Lotto contro me stessa con tutte le mie forze, con tutta la mia tenacia, con tutta la mia volontà. Ricomincio a mangiare, piano piano.

Ora ho più forza, mi sento bene...torno a pesi normali, il ciclo riprende...e da essere asessuata che mi sentivo, incomincio ad appropriarmi della mia femminilità. Inizia, l'ultimo anno di liceo, la guarigione: bigio la scuola, prendo dei 4! ...e non me ne frega niente! E inizio a correre. Per me, per sentirmi viva, per sentirmi sana e forte. Non per migliorare o per le gare ma perché mi fa stare bene.

L'equilibrio lo trovo il primo anno di università: studio perché mi piace studiare. Non mi interessa più di tanto il voto che prendo. E inizio a fare atletica...scaricando finalmente tutta quella determinazione nelle gare, anche se non con temponi ...ma sono contenta così.

Una cosa curiosa: non accennavo, al campo di atletica, al fatto che mio padre avesse fatto atletica leggera nella mia specialità e ad alti livelli...e a lui parlo solo timidamente, e di rado, dei miei risultati (e non è il caso, perché era un uomo che amava le persone, e non i loro "risultati")...

C'era ancora il timore di non essere amata se non fossi stata all'altezza...E rimpiango un po' questa cosa relativa a mio padre, perché lui è morto prima che la risolvessi del tutto, e non valeva la pena perdere tutto quel tempo, e ormai è tardi...Avremmo potuto parlare insieme di quella passione che ci accomunava. È un enorme rimpianto...Non vale la pena perdere tanto tempo con pensieri negativi e cupi di inadeguatezza, fanno solo male. Molte più persone di quelle che crediamo, o quantomeno quelle che contano, ci accettano ugualmente...}

{Sono rimasta incinta del mio secondo figlio, Steve, sei mesi dopo aver partorito Hillary, era il 1983. Due bambini in 14 mesi è un bel cambiamento. Certo, ero contentissima del mio nuovo mondo fatto di pappe, pannolini e prime parole, ma nella mia vita erano cambiate tante cose e io non avevo nemmeno il tempo per rendermene conto. Lasciai il lavoro per prendermi cura della mia famiglia e diventai una mamma full time. Così come stavano cambiando le mie abitudini, anche il mio corpo subì una grande trasformazione. Non sono mai stata una ragazza "magra", sono di struttura grossa, "germanica" diceva mia mamma fiera delle sue origini tedesche. Ma dopo le due gravidanze ravvicinate non ero mai riuscita a perdere quei 10 fastidiosissimi chili. Da 68 kg ero arrivata a quasi 80».

Non è mai stata esile e il suo rapporto con il cibo è sempre stato conflittuale. Da una parte la sua educazione: quel venire da una famiglia non agiata in cui "pulire il piatto" era una regola di vita. Dall'altra una società in cui la magrezza diventava sempre più un valore. In mezzo lei che conviveva con qualche chilo di troppo senza grandi paranoie e qualche tentativo di dieta fallita. Finché non ha perso il controllo del suo peso e della sua vita.

«A 80 chili non mi consideravo obesa, ma cominciai a non piacermi più. Ogni lunedì era buono per iniziare una dieta, lasciata diligentemente di mercoledì per una pizza di Domino's. Così i mesi passavano e io immagazzinavo grasso senza accorgermene. Mangiavo patatine a tutte le ore, vivevo con le caramelle in tasca che sgranocchiavo tra una lezione di piscina di Hill e una di hockey di Steve. Finché è arrivato il 1990 con i miei 108 chili. Mi ricordo l'appuntamento annuale col dottore: una vera tragedia. Avevo il diabete e una lista di malattie che mi aspettavano dietro l'angolo. In accordo col medico decisi di iniziare seriamente una dieta. Era la fine degli anno '80 e proprio lui me ne consigliò una famosa in quel periodo, ma che poi si scoprì non essere così equilibrata. La cominciai con grande entusiasmo. Dopo due mesi avevo il metabolismo completamente in panne, e gli esami del sangue sballatissimi. Smisi immediatamente e feci di testa mia: naturalmente non funzionò. Più passavano gli anni e più ingrassavo. I bambini stavano crescendo e ormai erano a scuola tutto il giorno e io, invece di prendermi cura di me stessa, mi isolavo sempre di più dal mondo, tra il cibo spazzatura e i miei libri».
«A UN CERTO PUNTO SMISI DI PIACERMI»
Furono proprio i libri i compagni fedeli di quegli anni di solitudine. «Leggevo un libro al giorno, vivevo tramite le esperienze dei protagonisti perché la vita fuori dalla mia casa mi faceva paura, Avevo così timore del mondo esterno che passavo la maggior parte del tempo in cantina, vicino alla lavatrice. A tutti dicevo che era per il bucato, ma in realtà mi rifugiavo nel posto più nascosto che conoscevo per non farmi vedere e per non vedermi. Ormai pesavo quasi 130 chili, avevo il triplo mento e un corpo senza forme che evitavo di guardare allo specchio. Ma non era solo una questione di aspetto fisico, a 40 anni mi trovavo con un quadro clinico da far venire i brividi: prendevo pastiglie per far funzionare ogni singolo organo del mio corpo. Volevo cambiare, ma ero finita in un circolo difficile da spezzare. Ero depressa e usavo il cibo per calmarmi, prendevo medicine (tra cui psicofarmaci) che mi gonfiavano e non avevo più vita sociale. Mio marito e i miei figli sono sempre stati di grande supporto, ma il cibo era come una droga ormai, e avevo bisogno di disintossicarmi: gli abbracci non bastavano più».
«NON MI GUARDAVO PIÙ E MI ISOLAVO DAL MONDO»
«Ci sono delle persone che dicono di accettare la loro condizione di obesi, io non capisco come facciano, se è la verità forse sono da ammirare. La mia vita da obesa è stata terribile: non riuscivo a giocare coi miei figli, ogni piccolo sforzo mi stancava. Scopare per terra era diventata un'azione da Olimpiadi. Per non parlare del dolore interiore. Mi vergognavo, mi sentivo in colpa e giudicata dagli altri, ma non per i miei rotoli di ciccia, ma perché so che molti mi guardavano e pensavano: "Se sei così è perché ti piace mangiare". Non voglio cercare scuse, sicuramente c'entra anche la forza di volontà, ma vi giuro che spesso l'obesità è qualcosa di più complesso: un groviglio di nodi interiori difficile da sciogliere».

Per 10 anni Roni ha vissuto nell'ombra. «Speravo di cambiare, ma non trovavo lo stimolo per farlo. Era come se dentro di me non avessi la forza di ripartire. Rimanevo immobile seduta sulla mia poltrona azzurra a ingurgitare schifezze. Avevo raggiunto i 147 chili, il mio record assoluto. Una notte nell'inverno del 2003, smisi di respirare: avevo cominciato a soffrire di apnea notturna e non lo sapevo. Spike, il gatto siamese di mio figlio, mi saltò sul petto svegliandomi e facendomi riprendere i sensi. Mi salvò. Il dottore si preoccupò molto e mi consigliò il bendaggio gastrico, un intervento poco invasivo che limita l'introduzione del cibo attraverso un bendaggio, appunto, che diminuisce la grandezza dello stomaco».

Roni sapeva che era venuto il momento di svoltare e di prendersi cura di se stessa, anche per la sua famiglia. «Ci pensai su, e d'accordo con mio marito e i miei figli, il 7 gennaio 2004 mi sottoposi all'intervento. Da quel giorno tutto è cambiato. I mesi successivi non furono una passeggiata, facevo una dieta liquida perché il mio corpo non riusciva a "tenere" cibi solidi, ma qualcosa dentro di me aveva cominciato a modificarsi. E non parlo solo del mio stomaco. Iniziai a seguire dei gruppi di sostegno e a fare esercizio fisico. Ogni mattina andavo in piscina con la mia vicina di casa, un passo fino a pochi mesi prima inimmaginabile».

Roni smise di nascondersi e riprese gradualmente in mano la propria vita. «In due anni ho perso oltre 77 chili. Sono tornata a vivere. Nonostante mio marito mi abbia sempre amata e rispettata, anche con lui mi sento più a mio agio perché finalmente mi piaccio. La mia situazione medica è molto migliorata e ora prendo solo due pastiglie per la pressione, ero arrivata a prenderne ventisei. Mi ricordo ancora la faccia stupita di mio figlio Steve che per l'università aveva passato un semestre in Europa. Al suo ritorno andai a prenderlo in aeroporto e lui non mi riconobbe, ero così diversa che non ci poteva credere».

Il suo non è stato solo un percorso fisico. «Ho scelto il bendaggio perché era qualcosa di meccanico: mi imponeva di ridurre la quantità di alimenti che ingerivo; visto che non riuscivo a seguire una dieta. Ma capii subito che quello era solo il primo passo e non poteva essere l'unico. Anche sul consiglio del mio medico ho cominciato a farmi seguire da uno psicologo specializzato in disturbi alimentari e a frequentare gruppi di auto-aiuto. Quando si affrontato percorsi come questo è molto importante non essere soli e condividere le proprie paure e difficoltà con chi ci è già passato. Per me, almeno, è stato fondamentale. Tanto che dopo ho continuato come leader di un gruppo, per affiancare e sostenere chi si ritrova a vivere le stesse situazioni di isolamento, vergogna e depressione che ho vissuto io».]

{"Sono una ragazza di quasi 18 anni. Il mio disturbo alimentare è iniziato all'incirca quattro anni fa. Fin da piccola sono stata una bambina "in carne", "cicciottella", così mi definiva la mia famiglia. L'ho sempre presa come uno scherzo fino a quando iniziarono i primi confronti e paragoni con mia sorella e le mie cugine che sono sempre state molto magre. Nessuno mi considerava se non per farmi delle osservazioni sul mio aspetto fisico e allora cominciai a mangiare non più per il piacere di farlo, ma per essere considerata. A 14 anni tutto cambia, il mondo delle superiori, i confronti con l' altro sesso e anche con le altre ragazze mi facevano sentire a disagio, le osservazioni da parte della mia famiglia non facevano che peggiorare il mio stato d'animo. C'era qualcosa dentro di me che si stava ribellando a tutto quello che mi circondava, in famiglia non mi sentivo più a mio agio, volevo scappare da tutta quella sofferenza da quelle pratiche malsane, sono sempre stata timida abituata a tenere le cose dentro, accumulavo, accumulavo e accumulavo... così senza accorgermene iniziai semplicemente con una dieta "fai-da-te" . Mia madre mi assecondava in questa mia decisione cominciai ad avere i primi sintomi dell'anoressia, ma da principio non pensavo che la situazione potesse arrivare a questo punto. Un giorno mi sentii male e capii che mia madre, dopo aver strappato la dieta sotto i miei occhi, non era più dalla mia parte: adesso ero sola. Nel frattempo stavo passando un periodo molto difficile con la scuola, primo anno di superiori, rendersi conto di aver fatto una scelta sbagliata e prendere nuovamente una decisione. Così cambiai scuola e riuscii ad entrare nell'anno successivo senza perdere quello già concluso. Ero davvero soddisfatta di me stessa, per la prima volta avevo scelto io e ce l'avevo fatta con le mie forze! Inizio' così una specie di nuova vita, compagne nuove, professori nuovi, insomma dovevo assolutamente dare tutta me stessa per dimostrare che valevo qualcosa. Cominciai ad entrare purtroppo in un meccanismo distorto perché vivevo solo per la scuola e lo studio, dovevo dare il massimo e così è stato. La scuola per me rappresentava una prova continua, un dovere. Dovevo sempre essere brava e perfetta, un dovere verso me stessa che mi imponevo, dovevo dimostrare agli altri che valevo qualcosa, soprattutto ai miei genitori.. Con il passare del tempo mi allontanai sempre di più dalle amicizie, mi rinchiusi in casa sempre e solo per studiare e si fecero sentire i sintomi della malattia. Cominciai di nuovo a ridurre il cibo, buttavo la merenda, dicevo a mia madre di aver mangiato a scuola per arrivare a sera con lo stomaco vuoto e davanti ai miei genitori facevo vedere che mangiavo qualcosa così che non si accorgessero di niente. Dopo qualche tempo incominciai a sentirmi diversa, a scuola ero sempre distratta, le ore di studio erano diventate il doppio a causa della difficoltà a concentrarmi, questo mi mandò ancora più in crisi. Dopo vari svenimenti e la preoccupazione dei professori, iniziai ad aprirmi e loro mi indirizzarono in un centro per disturbi alimentari. Andai in questo centro e mi presero in carico. Non penso che allora fossi consapevole del reale problema, decisi di farmi seguire più per accontentare gli altri, per non farli preoccupare. Naturalmente i miei genitori vennero a conoscenza del problema e cominciarono a controllarmi maggiormente. Da lì iniziò il periodo più brutto. La bulimia. Dovevo in qualche modo eliminare quello che mangiavo e poi c'era il problema dello studio: non potevo permettermi di dimagrire troppo, quindi entrai nel meccanismo delle abbuffate... Nel mio voler essere prima in tutto non mi rendevo conto che nello stesso tempo stavo cadendo sempre più in basso, sempre più giù nel buio. La bulimia gridava per me, io non ne ero capace. Quando iniziai a rendermi conto che tutto intorno a me stava precipitando iniziai a prendere coscienza su ciò che mi stava succedendo. Il periodo più buio forse mi ha portata per la prima volta ad accendere una luce su di me, a capirmi davvero. Ciò che oggi mi porta ad essere ancora qui e' la mia consapevolezza verso la malattia. Ma il volere continuare a star male? Io dovevo far vedere a tutti che stavo male. Urlare il mio dolore attraverso il mio corpo era, credo, l'unico modo. Volevo essere invisibile, scomparire, ma anche urlare al mondo la mia sofferenza. Io avevo tutto ma in realtà non avevo niente. Tutti mi dicevano che avevo quel tutto, che ero bravissima a scuola, la prima della classe, una bella ragazza con potenzialità, ma in realtà io non avevo bisogno di quel tipo di soddisfazioni. Avevo bisogno di attenzioni, di amore.
Volevo essere amata non per quello che facevo, ma per quello che ero, con i miei difetti, le mie paure, le mie insicurezze, ed ecco che qualcosa si ribellava in me. Se fossi stata meno brava, mi avrebbero anche amata di meno? avevo paura che diversamente non mi avrebbero accettata. Fin da piccola mi sono sempre arrangiata, crescevo nel silenzio e nei sensi di colpa e questo mi ha portata a stare male. Con il tempo ho deciso da sola di chiedere aiuto, ma un vero aiuto questa volta. Durante questo cammino ho incontrato persone stupende che mi hanno aiutata ad arrivare a dove sono adesso. A breve inizierò un percorso residenziale, e nonostante io sono convinta che è la scelta migliore che io abbia fatto fino ad ora, ho momenti in cui ci ripenso, la paura è tanta. So che è la parte malata che vuole farmi tirare indietro ma cerco di non dare spazio a questi pensieri. Sono sicura e soprattutto fiduciosa che questo percorso mi aiuterà, forse non guarirò del tutto ma è un primo passo verso la guarigione, le cadute ci sono sempre, l'importante è sapersi rialzare.. chi è dentro questa malattia la cosa che deve fare è affidarsi, con i se e i ma che ci sono sempre e sempre ci saranno perché il percorso è lungo e tortuoso ma sono sicura che una via d'uscita c'è, basta volerlo davvero."}

La prima volta che vomitai i pasticcini fu a dieci anni. Tutto rimase sopito per ben tre anni passati a controllare di non ingrassare troppo. Quando i pantaloni mi stavano stretti, anche solo perché stavo crescendo, continuavo a indossarli perché io lì dentro ci dovevo entrare. Avevo paura di cosa avrebbe detto mia madre se le avessi confessato che erano stretti.
Poi l'ansia fece riesplodere il problema per un'intera estate. Mi veniva da piangere ogni volta che dovevo mangiare e non ci riuscivo: lo stomaco si bloccava e basta. Ero nel panico. Poi scoprii la causa dell'ansia e me ne allontanai. Niente più ragazzi pressanti, mi promisi. Il problema, ora che ci ripenso, non era più di tanto lui, ma tutto il giro di attenzioni e contatti che implicava una relazione. Ovviamente lui non facilitava le cose, ma non importa. Tutto era tornato normale.
Se i miei mi facevano notare un aumento di peso, peró, intervenivo subito:bastava eliminare merende e aumentare la prestazione a nuoto. Non ci facevo nemmeno caso, era automatico. Poi é arrivata l'estate scorsa. Io detesto essere al centro dell'attenzione dei ragazzi, mi mettono sotto pressione. Lui no. Con Andrea é stato diverso: mi faceva complimenti senza sembrare lascivo ed era tenero senza essere diabetico. Più ero felice in quel nuovo mondo, più a casa la situazione diventava tesa. Era come se la mia felicità dovuta a qualcuno di esterno portasse dolore. Mi sento in colpa tutt'ora quando sono felice o faccio qualcosa per me stessa. Poi qualcosa si é incrinato ed é precipitato tutto. Niente più cibo o voglia di lottare. Anche Andrea era ansia:ansia perché era sempre più lontano e diverso e non sapevo come comportarmi. Ansia a scuola:le vecchie amiche mi avevano voltato le spalle,nuova classe. Ansia a casa per altri motivi. Non riuscivo a trovare un posto per rilassarmi. La notte in cui Andrea mi ha lasciato ho vomitato. Non riuscivo a sopportare quella nuova ferita. Si é aperto quel mondo e avevo un modo per sfogare. Ho accolto il dolore come un sollievo.

Dolore. È il dolore che ti divora. Ogni singola cellula del tuo corpo viene divorata, lacerata dal dolore. Quell'enorme, immenso cratere che ti risucchia e ti ricorda costantemente quanto cazzo fai schifo. Poi arriva una sorta di perversa soddisfazione: non sei più tu quella che divora il mondo. Tu non divori piú. Il compito del divoratore è passato al dolore, così accogli questo potente, non poi sconosciuto amico e te ne innamori. Divorare. Divorare. Divorare.
Quanto è liberatorio essere imprigionati nel dolore?
È tutto tuo. Nessuno puó provare il tuo identico dolore.

È solo mio. Divora, amico, annullami, cancellami, disintegrami, fammi soffrire. L'importante è non essere pieni. Cazzo non devo essere io a divorare. Devo svuotarmi. Vuoto. Devo accogliere il vuoto e lasciarmi divorare. Ma io non sopporto il vuoto: è mostruoso restare sola con me stessa.
Non mi importa essere magra. O meglio, non mi importa essere magra per piacere. Mi piace essere magra perché sono piena di difetti, ma la magrezza è l'unico difetto che gli altri accettano. Non un "altri" qualunque, ma le persone che vivono con me. O forse ci sono altri motivi, non lo so, devo ancora capirlo. So solo che appena mangio di piú, il giorno dopo evito il cibo. So che a volte faccio la strada piú lunga per tornare a casa, così scarico di piú. So che a volte mi sembrano cazzate, insomma, io? Nah, io non ho problemi con il cibo, io non faccio quello che ho appena detto: prendo la strada piú lunga perché oggi mi va così, non mangio perché oggi sono piena o ho lo stomaco chiuso. È solo oggi. Poi anche domani diventa oggi e ieri è stato un altro oggi.
Non so cosa sia scattato ultimamente. Forse perché ad Andrea non piacciono le ragazze magre. Anche se ha detto che io sono molto bella così, non so, l'idea di non sentirmi a disagio in costume mi attira.
Forse perché Eli mi ha detto che dei chili in piú mi starebbero meglio addosso.
Forse perché mi sento sempre meccanica e tirata nei movimenti e sono stanca di sentirmi a disagio.
Forse perché i dottori dicono che sono troppo magra e che i problemi fisici che ho sono causati dal mio peso.
Non lo so.
So solo che mi sto sforzando di mangiare di piú. Stavolta senza interruzioni per improvvise paure di non essere piú meravigliosamente difettosa. In un mese avevo preso mezzo chilo, sembra poco, ma per chi non ingrassa é una piccola soddisfazione. Sono di nuovo scesa, ma mangio, mangio e ignoro la nausea e i crampi notturni. Ho voglia di ingrassare.Spero che duri.

Ci sono milioni di motivi e persone, tante storie diverse. É tutto una richiesta di aiuto. Qualcuno dice che le persone che soffrono di disturbi alimentari vogliono attenzione. No, magari alcuni pensano di volerle, quando in realtà desiderano solo affetto. Affetto e attenzioni non sono la stessa cosa. Di attenzioni piú ne hai, piú ne vuoi, come se fossero droga. L'affetto è diverso, ti fa sentire come se avessi già tutto, o comunque molto, e ti basta. Le persone che si impongono diete per essere accettate, per essere perfette vogliono solo affetto. Come dice Andrea, magari tu te ne fotti del tuo aspetto fisico, insomma un bambino non guarda se è ciccio o meno, finché non sono gli altri a fartelo notare.
Le parole altrui o il confronto con gli altri fanno scattare qualcosa. Il confronto può anche solo essere nella nostra testa, ma comunque avviene. Se poi gli altri iniziano a prenderti in giro è ancora peggio: ti senti dannatamente sbagliato. Ed è un comportamento umano naturale cercare di correggere gli errori.
Il proprio aspetto fisico è importante? Certo, è soddisfacente guardarsi allo specchio e sentirsi bene. È bello trovarsi a proprio agio nei movimenti che compiamo, nei nostri vestiti. Se qualcuno è magro o grasso e vuole prendere o perdere peso, ci sta. Ma non deve diventare un'ossessione,la vita non va sprecata dietro a una bilancia.
È giusto prendersi cura del proprio corpo, essere sani è importante. Però appena abbiamo un problema e non sappiamo risolverlo o affrontarlo, il primo a subirne le ripercussioni è proprio lui. Che sia con abbuffate, vomito, attività fisica intensa, tagli, acqua bollente o ghiacciata, basta sfogare. Sentire quel caos dentro e soffrirci ci dà l'impressione di star scaricando, perché senti che preme per uscire e trova la porta. In realtà non esce un cazzo. Entri in un circolo vizioso da cui è complicato uscire. Accumuli dolore, rabbia, insoddisfazione, tristezza, frustrazione, ti piace sentirti così perché è l'unica costante. Una persona che arriva a credere che star male voglia dire stare bene, come fa a stare davvero meglio?
È difficile cambiare il meccanismo mentale. Innanzitutto si deve riprendere il contatto con la realtà: va bene che gli opposti convivono, ma a un certo punto è come dire" ti uccido e ti faccio vivere: ti ho pugnalato, oh, guarda, sei appena uscito dal mio utero!";non sei grasso, ehi, sei uno scheletro, la percezione che hai del tuo corpo è sbagliata. Bisogna prima volersi aiutare: la motivazione dovrebbe essere te stesso, ma se all'inizio sono gli altri, con il tempo puoi diventarlo; se non ti ami almeno un po', non ti aiuti.
Aiuta anche parlare con persone o con esperienze simili o di cui ti fidi e ascolti il parere. È ovvio che se ti confidi, ma continui a pensare "tanto non capisce e non sa cosa sto passando "è inutile. Persone con esperienze simili devono però essere positive: se sei bulimica e parli con una bulimica che ti spinge a vomitare, è dannoso.
È un percorso lento con tante regressioni dovute sia alla sicurezza che ci dava essere malati sia alla sfiducia per i cambiamenti che non arrivano. Quando uno prende atto del proprio corpo e dello stato reale delle proprie condizioni è una grande batosta. Ti vedi grasso, scheletrico, pallido, consumato, spento, ingombrante a seconda del disturbo di cui soffri. Dietro, o meglio, dentro quel guscio, però, c'è il vero centro: è il "te" interiore quello da curare per stare bene al di fuori.
Da soli è un percorso arduo, sarebbe meglio consultare degli esperti che sanno cosa sta succedendo. Se siete testardi o non volete far sapere ai vostri genitori cosa vi accade, come me, dovete tirare fuori le palle e usare la forza di volontà. Gli amici aiutano tantissimo, magari non hanno esperienza diretta, ma ti sostengono e io sostegno è fondamentale.
Non sono una dottoressa, non sono neanche una malata, credo, ce non saprei dire cosa mi succede con il cibo, perciò non prendete per oro colato ciò che dico.
È stupido uccidersi mangiando o vomitando. Non sto dicendo "Stupida vacca, se hai disturbi alimentari sei idiota", ma è stupido ciò che si fa, non la persona.
Sparire. Perché? Per chi? Per quale assurdo motivo devi sparire? Gli altri andranno avanti.
Sfogarti. Come? Così? Distruggendoti ti liberi dei problemi? E non dire di sì perché il problema sei tu, il problema non è mai una persona.
Consolarti. Sì, nei momenti difficili stare davanti alla tv o al frigo e riempire il vuoto con il cibo, è abbastanza consolante. Ti consola non riuscire più a muoverti? Ti consola avere duemila malattie in arrivo?
Migliorarti. Essere una vomitaiola ti rende migliore? Essere uno scheletro ti migliora?
So che è difficile, so che è piú forte di te sfogarti, consolarti, sparire, migliorarti in quel modo.

La verità è che sono bugie: bugie dette a noi stesse per non vedere il vero problema.

C'è chi attribuisce i disturbi alimentari al rapporto passivo -aggressivo con la madre. Il rapporto contribuisce, è vero. Questo perché le femmine, per questioni biologiche, si identificano con la figura materna, perciò il rapporto influisce.
E i maschi? I ragazzi che soffrono di disturbi alimentari? Sono piú rari delle femmine, ma esistono. Ci sono gli obesi, gli anoressici, i bulimici. Ho cercato a lungo su internet per trovare la storia di un ragazzo, ma o sono handicappata io(probabile) o non ci sono. Una patalogia che caratterizza i maschi è la vigoressia o bigoressia: è simile all'anoressia, ma si è in fissa con la massa muscolare e ciò comporta utilizzo di sostanze.

I disturbi alimentari influenzano anche le persone intorno a chi ne soffre. Naturalmente è difficile anche per loro e si innescano diversi meccanismi:
- chi si spaventa e si allontana
-chi cerca di aiutarti
-chi si preoccupa diventando asfissiante e soffocante
-chi va in paranoia e non sa che pesci pigliare
-chi ignora la situazione
Fa paura voler bene a chi non si ama o a chi sta male. Fa ancora piú paura restare accanto. E sì, fa incazzare e intristire che le persone se ne vadano o non ci accettino perché, porca vacca, non sono loro i malati. Ci vuole coraggio, forza e tanto amore per restare accanto a chi soffre perché dai anche l'amore che loro non si danno.

Non so se questo capitolo abbia senso, se aiuti, se deprima. Non so se ci sia altro da dire, sicuramente sì, ma questo é ció che penso.Non so chi di voi abbia avuto contatti diretti o meno con i disturbi alimentari. Mi piacerebbe che esprimeste la vostra opinione: cosa ne pensate delle persone che ne soffrono, delle possibii cause, cosa fareste voi per aiutare o se aiutereste. Tutto quello che volete, anche vostre esperienze.

Tris

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