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Capitolo III




Non avevo mai avuto una conversazione vera  e propria con Rebeka Wood, se non qualche saluto accennato nel cortile della scuola, o per le scale di casa sua. Se provavo a fermarmi e a riflettere su quante volte l'avessi incrociata, potevo rendermi conto di riuscire a contare i nostri incontri sulle dita. Mi sembrava alquanto incredibile che in tanti anni non avessimo mai oltrepassato il confine del «Buongiorno», «Ehilà!» e «Buonasera». E ogni volta che mi rivolgeva la parola, sembrava quasi farlo con una sorta di disprezzo, soprattutto quando era con le sue compagne. Non me n'ero mai fatta un problema: in fondo non la conoscevo affatto, quindi non potevo sapere se quello fosse il suo modo di comportarsi con tutti. E poi, mi dissi, se non mi avesse avuta a genio, non mi avrebbe mai invitata alla sua festa. Era incredibile da quanti anni frequentassi casa sua, sapendo di lei poco e nulla.

Mentre ero distesa sul letto a fare questi ragionamenti, sentii qualcosa cadere dentro l'armadio. Controllai che Jonah non se ne fosse accorto e, rendendomi conto che aveva gli auricolari, feci un sospiro di sollievo. Mi rigirai tra le dita il ciondolo della collana che portavo sempre sotto la maglia: la chiave di quella porta. La chiave di quel che più odiavo di me. La chiave di quel segreto che neppure io sapevo spiegarmi, che non volevo accettare. La chiave del peccato.

Controllai l'orologio. Mancavano ancora tre ore alla festa. Sapevo già cosa indossare, quindi avrei solamente dovuto fare la doccia, asciugare i capelli e vestirmi. Mi affrettai ad accaparrarmi il primo turno in bagno: sapevo che se non fossi stata la prima saremmo sicuramente arrivati in ritardo perché ci sarebbero stati problemi con l'acqua: dopo le gelide docce di Jonah impiegava secoli a riscaldarsi.

Presi l'intimo pulito e il pigiama da mettere dopo la doccia e corsi in bagno. Prima di chiuderla, mi soffermai qualche secondo sulla porta, rimuginando su quello che era successo mentre aspettavo che Jonah uscisse.

Forse era il sonno.

Feci partire la playlist che avevo creato proprio per la doccia e, dopo essermi assicurata di avere a portata di mano tappeto, accappatoio, shampoo, balsamo e bagnoschiuma, aprii l'acqua corrente.
Solitamente facevo il bagno nella vasca, ma l'altro bagno era occupato da mio padre che stava cercando di sistemare il lavandino, quindi avevo dovuto rinunciare al mio momento di relax quotidiano.

Quando mi immergevo nella vasca tutte le preoccupazioni parevano scemare. C'ero solo io tra la schiuma (a volte mi faceva compagnia Cosmo), tutto il resto era serrato fuori dalla porta.

Mentre aspettavo che l'acqua si scaldasse, mi spogliai, saltellando per il freddo contatto della pianta del piede col pavimento. Eravamo in piena estate, ma anche il minimo freddo non faceva che darmi noia.

Mi misi sotto il getto bollente della doccia e presi a cantare in maniera sconnessa e stonata, sulle note di "Hear me". Immaginai l'espressione dei vicini: «Certo che ti sentiamo, brutta canaglia!»

Risi, poi presi ad insaponarmi, quando mi accorsi di aver dimenticato la lametta.

Dannazione.

Mi guardai attorno disperata. Potevo provare uscire dal box doccia senza scivolare e prendere uno dei rasoi di Jonah o papà.

Ancora piena di sapone, uscii e mi misi sul tappeto, mentre cercavo di allungarmi per prendere la lametta dal mobile sul lavandino. Per mia fortuna, ci riuscii senza farmi male.

Ritornai sotto il getto dell'acqua bollente, e ne uscii quasi un quarto d'ora dopo. Come mi aveva insegnato mia madre, mi tamponai prima per bene e, solo allora, iniziai ad asciugare i capelli.

Mia madre ci aveva impresso il terrore di poter morire carbonizzati, quindi conservavo ancora le buone abitudini che potevano garantirmi un'esistenza meno breve.

La mia chioma corvina non era difficile da pettinare, e ne ero proprio contenta: sentivo di ragazze che raccontavano di quanto fossero indomabili i loro capelli, e in molti casi potevo constatare io stessa che non dicevano il falso.

I miei erano invece lisci e poco folti, quindi l'asciugatura mi rubava davvero poco tempo. Dovevo solo impegnarmi nel pettinare per bene la frangia, il mio segno distintivo. Avevo sempre avuto la frangia, il che era dovuto alla mia fronte alta, che io non avevo mai sopportato. Forse era davvero uno dei pochi aspetti della mia immagine che non mi piaceva: non mi ritenevo bella, ma non potevo dire di non avere autostima: nel quadro complessivo avevo un aspetto inusuale, e questo mi faceva sentire davvero bene, perché la mia diversità era evidente.

Essere "diversa" è sempre stato qualcosa che mi ha resa fiera, mi ha sempre donato quella sicurezza in più, la certezza di non trovare mai un'altra ragazza ad una festa vestita uguale a me. Io ero unica, lo sapevo, e non potevo che esserne felice.

Sorrisi osservando il risultato nello specchio, sistemai il bagno e tornai in camera.

«Puoi andare barbagianni, il bagno è libero», esordii. Inchiodai sull'uscio della porta appena notai che mio fratello stava cercando di aprire l'anta dell'armadio. Sentii il battito cardiaco accelerare più di quello di Jonah (soffriva di battito accelerato, ma il medico aveva detto che non c'era nulla di preoccuparsi, poiché non c'era nessuno motivo grave alla base).

«Che...cosa stai facendo?» Domandai cercando di non far trasparire il panico che mi assediava. No, non poteva averlo scoperto, non poteva essere venuto a conoscenza di uno dei pochi segreti che avevo con lui, il mio gemello, la mia metà.

Jonah si voltò verso di me con un'espressione calma sul viso. «Ho sentito dei rumori, credevo che fosse caduto qualcosa e...»

«Ah, forse...mmm, c'è un po' di disordine», improvvisai, spostando il peso da un piede all'altro.

«È strano che ci sia disordine, non lo apri quasi mai» mi rispose scrollando le spalle e poi dirigendosi - e finalmente allontanandosi dall'armadio - verso il suo letto.

Feci una risatina nervosa, poi mi stravaccai sul letto. Dopo qualche secondo aprii il cassetto del mio comodino tirando fuori una crema che mi aveva regalato la mamma, che serviva a rendere la pelle liscia. La spalmai sulle gambe e diedi un'occhiata a mio fratello che ancora non era andato a fare la doccia. Stava chattando con qualcuno, probabilmente Beatrix, la ragazza per cui aveva una cotta.

Mi diressi verso la scrivania, dove avevo uno specchietto rotondo munito di piede, e mi dedicai al trucco. Non ci andai molto pesante, perché non volevo che si sciogliesse per via del caldo, ma il risultato non mi dispiacque affatto. Adoravo truccarmi, anche realizzare make-up stravaganti,ma in estate preferivo evitare che la mia faccia si liquefacesse. Avevo deciso di non indossare qualcosa di troppo elegante: un top celeste brillantinato e degli shorts neri.

Ero pronta in meno di un'ora. Ah, e poi si dice che le donne si fanno aspettare! Era mio fratello Jonah che era appena andato a fare la doccia, non io.

Dopo essermi accertata che non ci fosse nessuno in corridoio, tolsi la collana con la chiave e aprii l'anta dell'armadio per prendere la mia pochette nera. Osservai le mensole in alto trabordanti di oggetti.

Non mi servono.

Non mi servivano, non mi occorreva neppure uno di essi. Eppure mi sentivo completa. Mi sentivo appagata ogni volta che le mie dita affusolate stringevano un qualcosa che non mi apparteneva e se ne appropriavano. Mi sentivo appagata tutte le volte che sentivo l'adrenalina scorrere nelle mie vene, per la paura elettrizzante di essere scoperta. Nei momenti in cui mi fermavo a pensare a ciò che facevo, però, mi rendevo conto che la mia attività mi faceva stare male. Mi portava allo sfinimento senza neppure fare qualcosa di tanto faticoso. E poi era sbagliato.

Prendere le cose è sbagliato.

Me lo ripetevo di continuo.

Non devo prendere nulla.

Però ogni volta che prendevo qualcosa mi sentivo viva: la sensazione di aver commesso un errore arrivava solamente dopo, quando ormai le mie dita avevano fatto il loro lavoro, e la lingua aveva prodotto una bugia sfacciata.

Presi la pochette e diedi un'ultima occhiata alla mensola, al pallone che era incastrato tra gli altri oggetti: Luis. Scossi la testa e chiusi l'anta a chiave, riponendo la collana al suo posto.

Non appena feci questo gesto, la porta si spalancò, e rivelò il viso di mio fratello in piena collera. Era capitato che si arrabbiasse tanto, ma quell'espressione non l'avevo mai vista. Per un istante ne fui spaventata.

«CE L'HAI TU, VERO?» Urlò verso di me.

Io indietreggiai. «C-Cosa?»

«LA LAMETTA, CE L'HAI TU?» Jonah, che occupava l'intera porta con le braccia aperte e con lo sguardo di fuoco.

«N-No io non ce l'ho...» mentii. «Se non la trovi puoi cercarne un'altra, credo che papà...»

«SO CHE CE L'HAI TU, TUTTO QUELLO CHE NON SI TROVA CE L'HAI SEMPRE E SOLO TU!»

Jonah, a grandi falcate, percorse la stanza e mi strinse il polso, prendendo con l'altra mano la collana con la chiave. Lui non era mai stato violento. Lui non poteva. Era mio fratello. Il buono e dolce Jonah. Sentii nascere una fiamma in me. La chiave no. Guardai con calma il suo viso, la barba che non gli stavo permettendo di sistemare. Lo spinsi con una forza che non mi apparteneva sul suo letto. «Io non ce l'ho.» Uscii dalla stanza sbattendo la porta.

Poi crollai.

Mi sentii come se qualcuno mi avesse preso a pugni e, per sicurezza, controllai che non avessi lividi. Mi resi conto che la litigata con mio fratello era stata insensata, che non avremmo dovuto esagerare in quel modo. Sembravamo fuori di noi.

Riaprii la porta e trovai Jonah ancora sul suo letto, lì dove lo avevo spinto, che fissava un punto imprecisato della stanza con occhi vacui. «Jonah...»

Lui si alzò e venne verso di me, poi mi abbracciò e scoppiò a piangere. Lo strinsi più forte a me, sussurrandogli di stare calmo. «Non ero io», singhiozzò. «Io non volevo...»

Gli accarezzai la schiena. «Lo so, non eri...non eravamo noi.» Lo staccai con delicatezza e lo guardai negli occhi.

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La macchina di Fen era una decappottabile rossa, che era in grado di trasportare, sorprendentemente, sette persone (o magari anche di più, non lo avevamo ancora testato).

Solitamente eravamo tutti molto entusiasti per il fatto che fosse decappottabile, ma quella sera nessuno di noi lo era: la lieve pioggerellina estiva ci aveva colti di sorpresa.

Io sedevo nel sedile anteriore del passeggero, e potevo guardare i ricci rossi di Fen essere smossi dal vento provocato dalla velocità con cui viaggiavamo. Il suo sguardo si spostava dalla strada al mio viso, mentre con la mano destra batteva sul cruscotto, andando a tempo con la musica che trasmetteva la radio. Sistemai il fermaglio celeste che avevo indossato all'ultimo momento.

Non appena arrivammo, Steve ci raggiunse e ci portò da Rebeka, così potemmo farle gli auguri e darle il regalo che avevamo acquistato. Dopodiché, la festeggiata ci indirizzo al buffet.

Devo ammettere che esagerai, oltre che col cibo, anche con l'alcol. Di solito non lo facevo, quasi non bevevo neppure un sorso, ma quella sera ero frustrata. Da me, da quello che era successo quel pomeriggio, dagli occhi-di-miele di Fen che indugiavano continuamente su di me, dalle sue carezze che erano così dolci, dal mio non riuscire a fargli capire che però non ci stavo: non riuscivo a provare quello che provava lui.

L'alcol però non mi faceva ragionare e lo ferii. Ci ferii. Preferii affidare alla Jacklyn del giorno dopo tutti i problemi. Lo baciai. E non in un contesto in cui poteva starci, un bacio: tracannai un bicchiere con una bevanda amara e rossastra e mi avvicinai quasi di soppiatto a lui, che stava conversando di qualcosa con mio fratello. Gli poggiai una mano sulla spalla, così, appena si voltò, lo attirai a me e premetti le mie labbra sulle sue. Non sentii nulla, se non l'adrenalina che l'alcol mi provocava. Lui non esitò a ricambiare il bacio, anche se probabilmente ne fu sorpreso.

Mai più sorpreso di Jonah, che ci separò prima che potessimo solamente sfiorarci con le mani.

«Jacklyn, dobbiamo tornare a casa», mi fece serio. Lo odiai. In realtà mi stava salvando da una situazione che potevo rendere ancora più spiacevole. Lessi il dolore negli occhi di Fen. Lui non ci guardò più, si allontanò.

Non lo avrei visto per un bel po' di tempo, ma questo ancora non lo sapevo.

Non ricordo il tragitto da casa di Steve a casa nostra. Jonah mi trascinò di sopra, nel bagno dove stava la vasca,  che iniziò a riempire di acqua. Passarono pochi minuti, poi mi disse di entrarci dentro. Io mi ribellai. Non volevo entrare in quell'acqua gelida, io detestavo il freddo. Mi disse nuovamente di entrarci, poi uscì dal bagno e mi lasciò sola. Rientrò pochi secondi dopo per lanciarmi la camicia da notte che, stupidamente, indossai prima di entrare in vasca.

L'impatto con la superficie dell'acqua fu letteralmente raggelante. Entrai con un po' di fatica e con davvero poca motivazione. Immersi la testa, e l'ultima cosa che vidi fu lo strato di ghiaccio che si stava formando sull'acqua, che non mi permetteva di riuscirne. Poi sentii il gelo pervadermi il corpo, e la sensazione strana ti essere tirata giù quasi per lo stomaco.

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