7-Messi a Dura Prova.
Xavier.
Cos'è la vita?
Cos'è la morte?
A cosa serve il dolore?
Volevo comprendere il significato di quelle parole, cosa si provava a vivere davvero?
Perché qualsiasi uomo poteva liberamente strappare alla vita un individuo?
Perché esisteva il dolore? Che scopo aveva?
Quelle domande continuavano a martellarmi la mente, non mi ci ero mai soffermato prima di allora eppure sembravano essere importanti, necessarie.
Elevai le braccia, con i polsi ancora strettamente legati tra loro, aprii i palmi delle mani restando sdraiato sul pavimento.
«Keadel» sussurrai, le mie iridi erano fisse sulle mie dita ferme ancora a mezz’aria. Il biondino spostò lo sguardo concentrandolo su di me, «Perché hai pianto prima?» pronunciai a fior di labbra, lasciando trasparire un velo di curiosità.
Le sue labbra si incurvarono lievemente, mi ritrovai seduto grazie a una piccola spinta delle braccia, «Scusa, io-» tentai di rimediare. Avevo intuito che ero stato fin troppo sfrontato ma le parole mi si bloccarono in gola, Keadel avvolse le braccia intorno a me suscitando nuovamente le emozioni provate in precedenza.
Perché un semplice abbraccio mi faceva stare così bene?
Per quale motivo delle lacrime stavano sgorgando incessantemente dai miei occhi?
«Perché nessuno merita di morire, perché so che brami assaporare la libertà e… mi sto affezionando a te» mormorò flebilmente, concesse al sorriso impresso sul suo volto di espandersi ulteriormente.
Appoggiai il mento sulla sua spalla, «Cosa si prova quando ti affezioni a qualcuno?» la mia domanda suscitò dello stupore nel biondino, lo notai dall’espressione che aveva preso forma sul suo viso.
«Percepisci dentro di te che saresti disposto a fare qualsiasi cosa, pur di garantire la felicità di quella persona. Nutri costantemente paura di perderla, a maggior ragione in situazioni come queste, perché sai che se dovesse morire… porterebbe una parte di te via con sé» mi irrigidii a quella risposta così sincera e diretta.
Rimasi qualche istante tra le sue braccia a godermi una tranquillità che a me era sconosciuta, sentivo il cuore più leggero in quell’istante ed era come se tutto intorno a noi fosse scomparso.
«Grazie, Keadel» biascicai godendomi solo più per poco quelle sensazioni, mi allontanai facendo una smorfia di dolore. Speravo che non l'avesse notata, non volevo destare preoccupazioni in lui «Perché tieni sempre tutto dentro di te?» domandò il ricciolo scrutando i miei polsi lividi, sospirai.
La sofferenza si stava incrementando maggiormente, giorno dopo giorno, ero certo che quel metallo mi stesse procurando un'abrasione.
Sobbalzai non appena un Ciameri si scontrò con violenza sulle sbarre, «Tu con le manette, muoviti!» pronunciò con un tono aspro la guardia. Un’orribile sensazione prese possesso del mio corpo, arrivai di fronte all’uomo imponente che estrasse una piccola chiave dalla tasca.
Girai di poco il capo rivolgendo un piccolo sorriso a Keadel, con mio stupore le manette si aprirono diminuendo lievemente il dolore.
Come avevo previsto la mia pelle appariva bruciata, una goccia di sangue attraversò il polso pallido prima di scontrarsi al suolo.
La porta si aprì emettendo un suono agghiacciante, «Xavier non andare! Ti prego!» riconobbi immediatamente la voce di Laphia, eppure dentro di me, come un sesto senso, percepivo che quell’uscita non riguardava l’esperimento.
Mi ritrovai nel corridoio con un Ciameri premuto sulla colonna vertebrale, «Un passo falso e sei morto» ringhiò l’uomo incutendomi timore, la sua voce era profonda e colma di crudeltà.
«So già come funziona» sbottai fingendomi indifferente, mi diede una leggera spinta per incitarmi a camminare.
Percorremmo uno dei tanti corridoi lugubri presenti all’interno dell’edificio, passo dopo passo mi resi conto di non conoscere quel lato della struttura.
All’apparenza era simile agli altri eppure, più avanzavamo e più la luce diveniva soffusa, il muschio aumentava a dismisura sulle pareti e l’umidità si incrementava sempre di più.
Non erano presenti macchie di sangue sui muri ma sul pavimento c’erano molte pozzanghere d’acqua, probabilmente si erano formate grazie alle gocce che fuoriuscivano dalle grondaie, prima di depositarsi sul terreno.
Accostammo all’improvviso di fronte a una normale porta di metallo, non vi era nessuna targhetta affissa di lato.
Corrugai la fronte mentre il mio sospetto si incrementava, la guardia mi trafisse con lo sguardo, poi spalancò il portoncino e mi spinse con violenza all’interno.
La porta si chiuse alle mie spalle creando un rumore assordante, un tremendo odore di muffa iniziò a pizzicarmi il naso con insistenza.
Il mio sguardo iniziò a scorrere all’interno di quella stanza raccapricciante ma più la osservavo, e più desideravo andarmene alla svelta.
Un tavolo di legno massiccio occupava la maggior parte dello spazio, mostrava evidenti segni di usura e appariva instabile probabilmente per l’effetto che l’umidità aveva su di esso.
Al di sopra vi erano posizionate armi comuni di ogni genere, iniziai a rimuginare su ciò che potesse attendermi ma almeno possedevo la certezza che non riguardasse l’esperimento.
Spostai lo sguardo notando la vernice che si scrostava dai muri ma non erano presenti tracce di violenza passata, poi sollevai lo sguardo notando due lanterne appese ad una cordicella consumata.
Compietti un passo in avanti, era la prima volta che mi trascinavano in quel luogo senza spiegazione alcuna.
«Scegline una» sobbalzai non attendendo nessuno alle mie spalle, «Se dovessi sopravvivere al prossimo esperimento ti manderemo a combattere, i Drafer vogliono sapere fin dove ti spingeresti. Ti basta sapere ciò, non sono accette domande.»
Mi voltai d’istinto per comprendere la provenienza di quella voce e incontrai la guardia che mi aveva portato in quella stanza. Possedeva un’espressione adirata e uno sguardo perforante che sembrava ustionarmi la pelle.
Mi avvicinai titubante al tavolo spremendo le meningi, strinsi i denti tentando di non farmi prendere dal panico.
I miei occhi scorrevano rapidi analizzando ogni oggetto, ne serviva uno che avrei potuto usare a mio piacimento, uno che avrebbe potuto ribaltare la situazione a cui stavo per essere sottoposto.
Avvicinai le dita ad un coltello abbastanza piccolo ma all’apparenza risultava affilato, lo afferrai iniziando a temere il peggio «Non sei così testardo come dicono, a quanto pare. Sembri un docile agnellino» la voce dell’uomo rimbombò tra le pareti.
Mi voltai nuovamente, quella volta fingendomi indifferente «Non posseggo alternativa, vi ho assecondati soltanto per ciò» sbottai infastidito.
L’uomo risultava tranquillo nonostante avessi un’arma e c’è ne fossero molte altre a disposizione, purtroppo ormai aveva compreso che non avrei mai agito senza logica.
La guardia iniziò a scrutarmi meticolosamente, portò le mani dietro alla schiena e un sorriso meschino si creò sul suo volto.
Corrugai la fronte tentando di mantenere la calma, «Però, a quanto pare, il resto che si vocifera sembra possedere un fondo di verità» riprese a parlare con un tono di voce piatto.
Compiette un passo, poi un altro e ancora un altro.
Finì per girarmi attorno con una tranquillità che non gli apparteneva affatto, notai immediatamente che non era impulsivo e irruente come il resto delle guardie.
I suoi passi erano lenti e calcolati scrupolosamente, pensai che stesse tentando di manovrarmi a suo piacimento scaricandomi la tensione e in qualche modo la paura.
«Ti conviene non commettere passi falsi, piccolo moccioso» proseguì scandendo le parole.
«È una minaccia?» domandai sforzandomi di mantenere la voce ferma, non diedi peso al suo ronzarmi attorno e tenni lo sguardo fisso di fronte a me.
Percepii i suoi passi fermarsi all’improvviso, «Un consiglio» aggrottai le sopracciglia dopo quella risposta.
Aumentai la stretta intorno al manico del coltello, «Perché mai dovresti darmi un consiglio?» proseguii con le domande, trattenere le emozioni che si stavano scatenando liberamente all’interno del mio corpo, si stava rivelando un'impresa ardua.
Il silenzio mi compresse come in una morsa per qualche istante, all’improvviso l’uomo afferrò il mio viso con arroganza e insistette per creare un contatto visivo con me.
Mi sentii come risucchiato dalle sue iridi nero pece, «Sei una risorsa preziosa per noi, cerca di non farti uccidere» scandì le parole con un sorriso beffardo.
Girai il volto velocemente per poter sfuggire alla sua presa, «È il momento di iniziare, rifletti con attenzione su ciò che ti ho detto» quelle furono le ultime parole che mi rivolse.
La mia mente era colma di ipotesi e i molteplici pensieri sembravano portarmi alla pazzia, la guardia fece un cenno con la nuca indicandomi un’altra porta.
Era posta sulla parete laterale, non compresi come potesse essermi sfuggito un dettaglio di tale importanza.
Venni spinto oltre la soglia e i miei occhi scorrevano repentini per analizzare ogni singola cosa, non potevo permettermi un’ulteriore svista.
Era disposta un’enorme vetrata che proiettava la visuale su un’ulteriore stanza, risultava più grande della precedente ma un dettaglio agghiacciante catturò la mia attenzione: il pavimento era intriso di sangue.
Non erano chiazze di un rosso vivido, probabilmente erano presenti da tempo.
I miei occhi rimasero sbarrati e il mio respiro iniziò ad affannarsi, la mia mente si annebbiò in un istante facendomi perdere completamente la lucidità.
Riprenditi. Pensa.
Ragiona.
Continuavo a ripetermi quelle parole senza tregua, la guardia mi costrinse ad entrare nella stanza opposta alla vetrata.
La porta si chiuse alle mie spalle e il silenzio costante incrementò la mia instabilità, notai con la periferia dello sguardo che l’uomo precedente era scomparso e al suo posto ne erano arrivati altri quattro.
Il coltello scivolò dalle mie dita provocando un tintinnìo metallico causato dallo scontro sul pavimento, le gambe sembravano cedere da un momento all’altro, le labbra si schiusero cercando di incanalare più aria possibile e le fauci di seccarono istantaneamente.
Non credetti a ciò che i miei occhi stavano osservando, doveva esistere un’altra spiegazione, una soluzione da applicare su due piedi.
Desideravo essere all’interno di un incubo, uno di quelli che mi capitava di fare spesso eppure non stavo dormendo.
Quella era la realtà.
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